sabato 19 dicembre 2009

Shhh, diamine! Un po' di silenzio... c'è Bach


Quando ci si ritrova di fronte ad un monumento troppo grande per essere discusso organicamente, a volte conviene abbassare lo sguardo dal punto su cui convergono i riflettori, e girarci attorno, alla ricerca di qualche particolare che ne faccia comprendere aspetti che sotto la luce delle lampade troppo forti, spesso scompaiono. È il caso della serata dedicata alle Cantate Sacre ed al Magnificat, che l’Associazione Scarlatti questa volta ci ha presentato:
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mercoledì 16 dicembre

Auditorium Rai

Ensemble Akademia

Françoise Lasserre Direzione

Johann S. Bach

Cantata “Weinen, Klagen, Sorgen, Zagen” Bwv 12
Cantata “Jesu, Der Du Meine Seele” Bwv 78

Magnificat in Re Maggiore Bwv 243
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Quando Bach firmò il contratto con la Chiesa di Lipsia, accettò una clausola secondo la quale la sua musica non sarebbe dovuta essere «troppo operistica».
Il senso era quello voluto dai pastori luterani: creare una distanza molto precisa, anzi nettissima, fra la cultura del teatro e quella della chiesa, ovvero dare l’idea forte, a coloro che si apprestassero ad assistere a una funzione, di trovarsi in un luogo sacro, dove non poteva ascoltarsi quella musica profana che evidentemente stava prendendo piede.
C’è da dire che in effetti, una cosa che colpisce di Bach, è che fra i maggiori compositori europei suoi coevi, è stato l’unico a non scrivere opere per il teatro.
Premetto che sono d’accordo con quanti sostengono che se Bach, anziché in provincia e fuori dai giri delle avanguardie, avesse trovato un posto magari alla corte di Dresda o nella mondana Amburgo, di certo avrebbe scritto non 4 ma 400 suites strumentali, qualche centinaio e non qualche decina di concerti per strumento solista, qualche melodramma e magari nessuna delle 200 cantate sacre… e tuttavia, considerarlo "fuori" dal concetto del teatro, è solo apparenza.
Se ci sforziamo un po’ di ritrovarci in una messa del 1723 a Lipsia, infatti, le cose si guardano diversamente.
Non esisteva nemmeno un solo teatro, in quegli anni, a Lipsia: quando Handel e Scarlatti riempivano altri luoghi, meno provinciali, l’unico possibile spettacolo a Lipsia era la funzione della domenica mattina, che quindi ricomprendeva anche quella del divertimento e della ricerca musicale.
Capire questo mi sembra fondamentale.
Le cantate non duravano nemmeno mezz’ora, ed il problema che dovette farsi il “Kantor” Bach fu soprattutto quello di riuscire con ogni mezzo lecito a catturare letteralmente l’attenzione del pubblico, e come tale non dobbiamo certo pensarlo paragonandolo a quello di oggi, con lo stesso livello di devozione… immaginiamo un pubblico abituato ad arrivare in chiesa magari soltanto nel momento in cui dovevano sentire il sermone, non molto di più, e aduso ad impiegare il resto del tempo fuori dalla chiesa, per salutarsi o scambiare quattro chiacchiere, così come magari anche dentro, durante la funzione, distraendosi in continuazione, insomma trattando la messa un po’ come un’alternativa alla propria passeggiata, anche incuranti dell’eventuale disturbo per quei pochi che avrebbero anche voluto seguire la funzione. Pochi, in verità.
O magari immaginiamo l’attenzione concentrata soprattutto su eventi modaioli, cosa di cui lo stesso Bach testimonia ad esempio con una cantata straordinaria sull’evento più attraente del momento, la novità della scoperta e dell’uso quotidiano del caffè (provate ad ascoltarla qui).
Davanti a questa platea, possiamo allora immaginare come la preoccupazione di Bach forse poteva essere rivolta anche, e soprattutto, a cosa fare per non vedere la propria (eccellente) arte trattata in un modo così irriguardoso.
Che il rapporto fra il genere drammatico e quello sacro fosse stato già ampiamente esplorato e contaminato, non era una novità, e senza volervi entrare in modo specifico si possono rapidamente ricordare addirittura il Cantico di frate sole di San Francesco del ‘400, musicato, cantato e ballato forse addirittura dallo stesso Francesco, così come sarà un bell’esempio, ed anche molto "forte" pensare alla lauda “dei Peccatori” di Lucrezia Tornabuoni, cantata sopra l’armonia direi del tutto… profana di un canto detto “de’ votacessi” di Lorenzo il Magnifico…
Ebbene, torniamo al problema di Bach: convogliare l’attenzione, ed allargare lo spazio di riflessione dei fedeli, e perché no, dell’apprezzamento per la sua arte.
Di sicuro, all’inizio i padri della Chiesa di Lipsia avrebbero preferito l’antico canto gregoriano, rigoroso ed astratto, ma la sfida di Bach venne infine accettata da ecclesiasti in grado di comprendere il vero e proprio “potere” celato dentro la musica quasi operistica che vedevano nascere con le sue Cantate Sacre, così piena di attenzione al carattere dei personaggi, così umana e così più vicina anche al sentire concreto dei fedeli.

Fu così che si svilupparono, le Cantate, e fu così che oggi ci ritroviamo con un complesso produttivo enorme e di un valore che non voglio essere  in grado di dire.
Le due Cantate di stasera, Bwv 12 (ascoltatene qui una buona versione) e Bwv 78 (idem, eccone qui un ascolto), si manifestano a mio avviso come l’esempio massimo di una sintesi fra le difficoltà dell’esistenza dell’uomo, e la ricerca della pienezza della fede: insieme, sempre insieme, durante l’intero svolgimento della Cantata, queste due linee restano sempre inseparabili, eppure a pensarci la loro nascita e la loro distanza fra razionale ed irrazionale è totale, assoluta, proprio come la loro manifestazione di sofferenza e di gioia… qui sono due parti dello stesso concetto, della stessa vita, l’integrazione che solo in alcuni passi del Vangelo si può trovare così concepita.
Ed il suo Magnificat (qui ne troverete una versione dell'Amsterdam Baroque Orchestra diretta da Ton Koopman), infine, calato con tanta dimensione umana nel cantico del primo capitolo del Vangelo secondo Luca (1, 39-55), con il quale Maria loda e ringrazia Dio perché è sceso a liberare il suo popolo, fa il resto: pensando anche ai Magnificat di Cavalli, Monteverdi o Vivaldi, non possiamo non ammirare l’introduzione di colori e stili vocali tipicissimi dell’opera settecentesca, elastici, complessi e perfino galanti.
Potremmo perfino ipotizzare che oggi, in certi ambienti, si sarebbe potuto perdere tanto genio sotto l’accusa del mancato… rispetto delle clausole contrattuali!
In proposito, mi viene in mente una domanda... ma sarà da considerarsi "musica sacra" quella che viene ospitata in un luogo sacro, quella che fornisce una determinata qualità dell’interpretazione, o ancora soltanto l’opera artistica che si esegue?
Vorrei ricordare anche che questo non era un tema di poco conto, già all’epoca delle Cantate Sacre. Lo vedrei, anzi, come uno degli sviluppi dello scontro fra le chiese cattolica e luterana, ed ancor più, concettualmente, come una domanda che ci si potrebbe fare anche oggi, di fronte a molte manifestazioni del Potere, ovvero quanto il Potere stesso è disposto a fare “cessioni di sovranità”, in questo caso verso la musica, concedendole libertà di espressione piuttosto che imporre regole ferree.

sabato 12 dicembre 2009

Uno zefiro nella notte di S. Elmo

giovedì 10 dicembre 2009
Auditorium di Castel Sant’Elmo

Ensemble Zefiro
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Wolfgang A. Mozart

Serenata in do minore K. 388 - “Nachtmusik”

Serenata in si bemolle maggiore K. 361 - “Gran Partita“
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Entriamo nell’auditorium un po' presto, così abbiamo il tempo di guardare... e per guardare le note che stanno per arrivare, bisogna entrare in qualche strada ed in qualche giardino di Vienna. Basteranno poche tinte, il quadro è già magnifico di suo.

E' l'autunno del 1782.
L’Imperatore Giuseppe II torna dall’Opera, e continua a far riecheggiare fra sé e sé le arie nuove che più gli erano piaciute.
A Palazzo per qualche giorno ancora rimane a pensarci, forse noi oggi potremmo immaginare di accendere una radio o un iPod per riascoltarle, ma purtroppo Giuseppe II non può aspettare ancora tanto tempo, e così dà vita alla propria "K. K. Harmonie".
La Harmonie, nata per questa esigenza di riascolto quasi immediato della musica portata sulle scene in quegli anni, fosse d’Opera, d’alcune Sinfonie o dei Balletti più in voga, consisteva nella sua formazione classica di un complesso a fiati di otto esecutori, diventato molto presto una vera moda presso molte corti europee, capaci finalmente di riascoltare nei propri salotti ogni novità, soprattutto sotto forma di “divertissement", colta in giro per i teatri.
La forma era quasi sempre quella dell’arrangiamento (se ne contano ventidue solo per il Don Giovanni…), che con legni ed ottoni apparve acquistare la sua tecnica migliore.
L’attività dell’Harmonie viennese, ed in particolare dei suoi oboisti Wendt e Triebensee, esplose subito con un successo tale da far concentrare anche Mozart sul fenomeno, dedicandole la maggior parte delle sue composizioni per fiati, ma non lasciandosene scappare anche il suo aspetto evidentemente redditizio, se è vero che in una delle sue Lettere al padre, nel momento stesso in cui gli annuncia la composizione del Ratto del serraglio, aggiunge che dovrà subito preparare anche la versione per l’Harmonie, prima che qualcun altro lo faccia al suo posto e ne tragga profitti…

Ma leggiamone anche un’altra, di Lettera al padre: è del 3 novembre 1781, giorno del suo onomastico, ed è quella in cui inventa la parolina magica: "Alle 11 di sera ricevetti l’omaggio di una “serenata” (Nachtmusik) per 2 clarinetti, 2 corni e 2 fagotti. E di una serenata di mia composizione! Questa musica l’avevo composta il giorno di Santa Teresa (15 ottobre) per la cognata del signor Von Hickel, nella cui casa venne infatti eseguita per la prima volta. I sei esecutori sono dei poveri diavoli, che tuttavia suonano molto benino insieme, specialmente il primo clarinettista e i due cornisti. Ma il motivo principale per cui l’avevo composta era quello di far sentire qualcosa di mio al signor von Strack che frequentava quotidianamente quella casa. Perciò l’ho scritta con un certo criterio, ed infatti ha avuto molto successo. La notte di Santa Teresa l’hanno eseguita in tre luoghi diversi: appena finita di suonarla in un posto, gli esecutori andavano altrove, ricominciavano e venivano pagati. Quei signori, fattisi aprire le porte di casa mia, si sono sistemati in cortile, e proprio mentre stavo per svestirmi, mi hanno molto piacevolmente sorpreso con il primo accordo in mi bemolle".

La nachtmusik offerta questa sera dalla Scarlatti, è la Serenata per fiati in do minore dell’estate del 1782, arrivata in un mese, quello di luglio, pieno di avvenimenti nella sua vita: il felice debutto del Ratto del Serraglio, il trasloco nella nuova casa di Roten Saben alla Hohe Brucke, il matrimonio con Constance Weber...
Ma l’atmosfera turbata di questa nachtmusik non sembra rievocarne alcuno, anzi: quattro tempi di sentimenti tragici ed appassionati, malinconici e contemplativi che non sembrano appartenere che a qualcosa di più intimo, ma che non ci è dato di conoscere, di quello stato d’animo.
E contemporaneamente, potrebbe anche essere vista come uno sradicamento assai raro dall’intera tradizione di genere, mai così complessa e strutturata come in questa occasione.
Una sorpresa, come spesso accade. Una pietra preziosa di un colore diverso rispetto alle gemelle contenute nello stesso astuccio in cui per anni erano state posate.

Tra il febbraio e l’aprile dell’anno precedente, invece, arriva quella pagina che è forse il tour de force più sorprendente per gli strumenti a fiato mai concepito, la Serenata in Si bemolle maggiore n. 10 per tredici strumenti "Gran Partita".
È il periodo in cui Mozart si trasferisce in quella Vienna che vedeva come “il miglior luogo del mondo” per il suo mestiere, e concepisce un’altra serenata lontana dai canoni della tradizione, stavolta quanto un cielo stellato notturno dalle prime ore della sera.

L’Ensemble zefiro si cala in questa notte con strumenti ed esecuzioni ai quali, per completare il quadro, mancherebbe soltanto il rumore discreto della ghiaia sotto ai piedi di un giardino viennese, magari di quel giardino del dott. Mesmer nella Landstrasse che piacque anche al Maestro… e magari nei bis concessi ci saranno regalati anche due entusiasmanti arrangiamenti da Harmonie puri, come “Non più andrai, farfallone amoroso” (Le Nozze di Figaro) e l’ineffabile “Là ci darem la mano” (Don Giovanni)

lunedì 16 novembre 2009

La Vita dopo la vita.


Sono passate solo poche ore. Non si sa bene il motivo, potrebbe essere stato qualunque, ma tutto intorno non c'è più anima viva.
Non so se si possa dire proprio “anima viva”, perché in effetti è un'espressione molto limitata: è soltanto il genere umano ad essere scomparso, non altro, non la flora, non la fauna… pur non volendo aprire un dibattito sull’esistenza dell’anima fa gli altri esseri viventi che popolano la terra, suona comunque male.

Sono scomparsi gli uomini.
Le case sono vuote, le città deserte, le comunicazioni terminate. L’animale che negli ultimi millenni aveva abitato il pianeta Terra da dominatore, non c’è più.
Aveva sconfitto o sottomesso gli altri animali, aveva saputo domare il fuoco e costruire strumenti che lo avevano reso cittadino privilegiato grazie ad una qualità che fu poi chiamata tecnologia, aveva percorso migliaia di anni per mare, per terra e perfino negli ultimi decenni per aria, in qualche modo; ed ora non c’è più. Non importa il motivo, non si sa se per cause naturali o autoindotte dal nostro sistema tecnologico o immunitario, se per una qualunque profezia a scelta fra quelle Maya, dell’Apocalisse o Mahditiche, o perchè ci siamo ritrovati una mattina a dover abbandonare tutto per presentarci al Giudizio Universale. Non c’è più.
Dopo la nostra scomparsa, le luci hanno presto cominciato a spegnersi, ovunque.
Senza la mano dell’uomo, i tre quarti dell’energia prodotta che derivano dalla combustione non sono durate che qualche giorno; qualche centrale nucleare sarebbe potuta anche rimanere accesa per altri 20 anni, in teoria, ma dopo soli 2 giorni si sono già tutte spente a causa della procedura automatica di sicurezza, così come le eoliche, per l’assenza della manutenzione alle turbine, e così adesso la luce è di nuovo quella che nessuno di noi metropolitani ha mai conosciuto, nemmeno per una sola volta. Quella delle stelle.
Ricordo di averla vista soltanto una volta, in una zona molto isolata della Croazia, e fu una rivelazione assoluta, come capire in un solo, inaspettato attimo, cosa doveva essere il mondo soltanto pochi decenni fa, e realizzare all’istante il motivo per il quale avevo visto mappe medievali del mondo sulle quali il cielo era disegnato come una cupola appoggiata sulla terra e traforata di stelle: perché è esattamente questo, ciò che vedono gli occhi.
C’è come una semisfera che si appoggia chissà dove all’orizzonte, e quegli infiniti e luminosissimi punti talmente numerosi da produrre una luce sorprendente, ed ogni costellazione sembra disegnata a mano… ecco perché era così facile navigare, ecco perché tanti viaggi sono stati magari un po’ meno avventurosi di quanto si possa pensare: lì sopra ci sono tracciate strade, direzioni, perfino suggerimenti e idee.
E poi, il silenzio.
Nessuno immagina cosa sia, in città, il silenzio, perché noi lo abbiamo sempre considerato soltanto come l’assenza del rumore.
Questo silenzio invece è quello che spesso ascolta colui che vive fuori dalle città, e non è certamente nessuna mancanza di decibel, è solo la qualità ad essere diversa: vento, animali, foglie, tuoni, altro che assenza di rumore…
Intanto, ogni struttura edificata dall’uomo comincia a chiedersi cosa fare delle sue molecole artificiali.
Molte città vivono sopra gallerie costruite per fognature e metropolitane sotto il livello della falda freatica; nell’ex città di New York erano aperte a ritmo costante oltre 700 pompe sempre in funzione solo per tenerle libere dall’acqua.
Sono passate solo poche settimane, il “nostro” vecchio cibo ormai si è avariato, ed ha portato un primo cambiamento di quelli che cominciano ad essere evidenti: la fauna… nelle prime settimane c’è stato un banchetto di animali infestanti, quelli che facevano sempre tanto schifo agli uomini, ma dopo pochi mesi si sono dovuti ritirare, ed a prevalere è stato un aspetto decisamente selvaggio.
Sono ritornati i predatori.
Lupi, coyote, linci… non ci hanno messo molto, nemmeno un anno: nelle città ancora integre la natura comincia già a dare il Segno di quello che, si capisce bene, sarà il sopravvento definitivo.
La vegetazione sta conquistando ogni crepa, come quando quelle che noi chiamavamo erbacce entravano in ogni anfratto, con una potenza riproduttiva invincibile. Inizialmente, cominciano ad apparire soprattutto distese di verdissimi trifogli, o loro colleghi particolarmente bravi a convertire l'azoto in sostanze nutrienti: è il caso di dire che la natura si sta preparando il terreno…
Sono arrivati anche i primi fra quegli animali che eravamo abituati a studiare solo sui sussidiari: cervi ed orsi pascolano nelle prime aree riconquistate, e da ora a solo 5 anni le strade saranno ormai ricoperte dalla vegetazione e dalla loro presenza, le strisce nere e grigie di asfalto spariranno in un tono di verde che probabilmente nessun urbanista aveva pensato di inserire nei vari piani PUC, PEEP, PUA, PP e quant’altri.
Sono passati già 20 anni, e qui possiamo anche fermarci un attimo con la fantasia, perché c'è già la realtà: dobbiamo trasferirci per un attimo a Pripyat, che una volta era una moderna città ucraina di 50.000 abitanti, e che nel 1986 ha avuto l’unica colpa di trovarsi troppo vicino al reattore 4 di Chernobyl: colpita dal disastro nucleare, fu completamente evacuata, e da allora è rimasta disabitata e inabitabile. Ci sono molte immagini ed alcuni reportage in rete, conviene dare uno sguardo dal vivo per farsi un’idea precisa.
Se “dal vivo” si può dire.
Dai 20 ai 40 anni dopo insomma, tutto ha assunto definitivamente l’aspetto classico della città fantasma, gli animali hanno nidificato fra gli edifici, le strutture sono completamente in rovina, ed in campagna la natura comincia a cancellare ogni traccia della presenza umana. Molte città sono già sparite, sommerse dalle acque come Londra, che si proteggeva dalle maree con barriere artificiali, per non dire di Amsterdam…

I palazzi di acciaio e cemento sono ancora in piedi, ma le case in legno già possono dirsi del tutto in rovina; quelle in pietra no, ma provate a chiedere agli ingegneri quante e quali siano… e poi, anche per loro, è solo questione di tempo.
Tracce di decadenza appaiono perfino sulle opere più imponenti, come mostra l’evidente deterioramento del ponte di Brooklyn ormai senza manutenzione, dove i cavi di acciaio tornano ad essere ossido di ferro, volgarmente detto processo di corrosione: anche per lui, polvere alla polvere, cenere alla cenere...
Ricordo che sul Golden Gate erano sempre operativi ogni giorno 38 imbianchini con tonnellate di vernice arancione da applicare senza sosta, oppure i cavi per la ruggine si sarebbero spezzati e tutto sarebbe crollato: beh, manca poco.
Sono passati 75 anni, ed ora 600 milioni di automobili sparse ovunque appaiono solo rottami arrugginiti.
I tunnel delle metropoli allagati fanno crollare le volte e le strade soprastanti, i palazzi sono tutti colonizzati da animali di taglia piccola, e quindi soprattutto dai gatti, che dopo 150 anni hanno preso il temporaneo sopravvento, cosa di cui confesso di essere particolarmente compiaciuto.
Gli oceani sono tornati ricchi di vita... per la fauna marina è stata una vera goduria, hanno smesso da tempo di fare da dispensa e da discarica...
200 anni. Le opere in ferro e acciaio stanno crollando, la Tour Eiffel già non c’è più, se non come ammasso di rottami, e di qui a 500 anni il cemento mostrerà la differenza di tenuta con quello che invece usavano gli antichi romani: rispetto al loro, il nostro, in calcestruzzo e barre di acciaio, ha già perso l'alcalinità e si è corroso, dilatandosi e sgretolandolo dall'interno…
Mille anni. Mille e non più mille... nessun edificio disegna nel cielo nessun paesaggio antropizzato. Nessuna traccia di attività umana, solo la fittissima vegetazione ed il ristabilito, antico ciclo idrogeologico… i fiumi fanno i fiumi, i mari fanno i mari, i laghi sono laghi.
Guardo questo panorama che ha ricoperto quasi ogni traccia visibile del nostro passaggio terreno dopo così poco tempo, e ricordo che qualcuno ostinatamente si chiedeva, fra gli uomini, cosa sarebbe rimasto della nostra storia e cultura, insomma i popoli futuri se non anche eventuali alieni o forme di vita extraterrestre, cosa avrebbero saputo di noi, come magari noi sappiamo qualcosa, un po’ di cose, su chi ci ha preceduto?
Pensiamo un attimo a cosa abbiamo affidato questa memoria. La carta e la pellicola fotografica hanno una vita media di 300 anni, se mantenute a livelli costanti di umidità, altrimenti non più di 150. Le pergamene del Mar Morto, per intenderci, sono arrivate a noi oltre 2000 anni dopo come eccezione, a causa delle condizioni particolarmente favorevoli del clima secco e della mancanza di luce.
I supporti digitali, i vari cd e dvd, durano dai 30 ai 200-300 anni.
Sono numeri infimi: se fosse sempre stato così non avremmo conosciuto nemmeno la storia egizia. La conosciamo invece, perchè è stata scolpita nella pietra, non masterizzata su un CD o scritta su carta.
Sembrerà paradossale, ma nonostante le conoscenze e la tecnologia, non abbiamo trovato un solo materiale che sia più durevole dell'argilla o della pietra...
Anzi no, mi correggo, uno c’è: l’unica speranza di tramandarci durevolmente attraverso un materiale tecnologicamente “nostro”, è nella magnifica e soffocante invenzione più immortale dell’uomo: la plastica, per la quale sicuramente prima che i microbi si evolvano per biodegradarla, ci vorranno almeno qualche centinaia di migliaia di anni. Evviva.
Resta ancora, però, la domanda che molti si facevano, mille anni fa: possibile che l'umanità sparisca senza lasciare traccia?
Cercando di ovviare a questo pensiero evidentemente insopportabile, alcuni scienziati pensarono che le emissioni radiotelevisive sparate nello spazio sarebbero potute essere colte da intelligenze che avrebbero potuto captarli e così conoscere la nostra presenza e capire le nostre esistenze: beh, pare che queste emissioni dopo 2 anni luce si siano già trasformate in rumore indistinto.
Quanto alla Placca del Pioneer 10, in alluminio ed oro anodizzato, con le sue figure ed i disegni che dovrebbero fornire cenni di noi a forme di vita extraterrestre, che ora si trova a circa 5.626 milioni di chilometri dalla Terra in viaggio a 12Km al secondo per raggiungere la stella rossa gigante di Aldebaran fra 2 milioni di anni, beh, è solo una scommessa, un messaggio in una bottiglia abbandonata nell’Oceano Universo, e nulla più.
Quale testimonianza del passaggio dell'uomo è rimasta, dunque? Le opere architettoniche più colossali se ne sono andate, anche l’unica famosa per essere visibile dallo spazio, la muraglia cinese, dopo qualche centinaio di migliaia di anni; la piramide di Giza, la diga Hoover, le sculture del monte Rushmore sul granito massiccio dopo 100.000 anni…
Il pianeta, lui si, sopravviverà senza problemi, anzi con molta maggiore facilità e respirando anche meglio, ma con ogni probabilità niente e nessuno potrà raccontarne la storia. La “storia” che conosciamo noi, intendo.
Non sarò elegante, ma il primo pensiero, di fronte a tanto desiderio di sopravvivere a noi stessi, e di chiedersi cosa resterà di noi, è molto semplice: e chi se ne frega?
È talmente rassicurante, il pensiero del ricongiungimento alla natura, sebbene attraverso il nostro inglobamento fisico nel suo disegno, sconosciuto e probabilmente destinato a rimanere tale, che tutti questi sforzi di sopravvivere a noi stessi perdono di senso. Come se sopravvivere significasse esistere al di là delle leggi naturali. È una palese contraddizione, ma non basta a frenarci: noi vogliamo assolutamente che qualcuno sappia di noi. E contemporaneamente, quasi nessuno vive la sua vita se non come se fosse appunto la “sua”, l’unica che conta.
La scomparsa dell'uomo rientra con ogni probabilità nel ciclo naturale dell'esistenza: sui 4,5 miliardi di anni d’età della Terra, cosa rappresentano le nostre poche decine di migliaia?
E' come se la nostra avventura fosse durata solo 30 secondi nell’arco di un’intera giornata, mentre pensiamo che il nostro antropocentrismo possa “antropocentrare” perfino la storia del pianeta Terra, quando lui non solo non si accorgerà che a stento del nostro passaggio, ma anzi è probabile che non vedrà l’ora di cancellarne le tracce.

domenica 20 settembre 2009

Valmy, questione di dettagli.



Soffermiamoci un attimo sull'idea che in molti degli episodi passati alla storia come decisivi, ci siano stati dei dettagli all'apparenza poco significativi o del tutto secondari, magari anche insoliti, senza i quali tuttavia forse la Storia se ne sarebbe andata per un'altra strada.

Il primo che mi viene in mente è quasi obbligatorio, sia per una memoria costante dai tempi dell'Università cui rendere giustizia, sia perchè oggi è proprio il suo anniversario: la battaglia di Valmy, 20 settembre 1792.

Ricordo che il primo testo sul quale cominciai a leggerne fu quello, incomparabile, di Albert Soboul, il quale offriva già numerosi spunti da seguire per dettagli che potevano apparire secondari: parliamo dunque di Valmy, e sveliamone uno, per quanto, come dire... inelegante.

La battaglia di Valmy è senza dubbio una delle più studiate di ogni epoca, ed è stata analizzata infinite volte con riguardo al suo sviluppo tattico ed alla centralità nella definizione degli equilibri della Rivoluzione francese.

Non abbiate paura, non ne parlerò affatto.
Anche perchè, al contrario di quanta propaganda ne fece Johann Wolfgang von Goethe, che trovandosi lì presente come osservatore commentò il famoso “In questo luogo e in questo giorno comincia una nuova era nella storia del mondo”, dovrei dire che secondo me, in realtà, l'eredità degna di maggior nota di Valmy, dal punto di vista storico, fu invece un'altra: gli straccioni di Valmy furono il più potente stimolo alla trasformazione dell'esercito in coscrizione obbligatoria. Con la conseguenza che prima di loro, la vita dei soldati andava pagata, i mercenari erano la regola, insomma, c'era un prezzo, la vita insomma aveva un valore; dopo di loro, la moneta fu sostituita dall'ideologia: la vita umana non valeva più nulla, perchè inglobata dall'ideologia nazionalista... so bene quanti e quali critiche potrebbe comportare quello che sto dicendo, ma sono disposto ad affrontarle tutte, ed anzi non chiederei altro. Fatevi sotto.

Tuttavia avevo promesso un dettaglio.
Al di là dello slancio e del coraggio imprevedibile delle truppe di Dumouriez e Kellermann, il fatto che la disposizione tattica vide prevalere la fanteria francese alla cavalleria alleata fu dovuto anche e soprattutto, ebbene si, al clima.
Anzi, per meglio dire alle condizioni meteorologiche di quel 20 settembre e dei giorni precedenti: gli alleati che avanzavano per dispiegarsi in formazione nei pressi del mulino trovarono ad accoglierli una campagna francese abbondantemente bagnata dalla pioggia; lo stesso Goethe ne subì qualche conseguenza, se è vero che fu colpito dalla cosiddetta febbre da cannone, una malattia rara da cui pure guarì (1).
Le due conseguenze più dirette delle avverse condizioni meteorologiche dunque furono:
  1. un terreno appesantito che aveva costruito condizioni assai più difficili per la movimentazione dei cavalli che non per quella dei fanti;
  2. in maniera ancor più determinante, e meritevole del nostro Oscar del Dettaglio: l'epidemia di... dissenteria, tra le file austriache, con conseguente stanchezza e debilitazione dei soldati, causata dalla cattiva alimentazione dovuta anch'essa al difficile approvvigionamento alimentare, sempre per colpa delle condizioni del campo di battaglia.
Non vorrei sembrare blasfemo, ed invito ora tutti voi a non cambiare il vostro ricordo degli eroi di Valmy sostituendolo con immagini meno... eroiche. Ma è ciò che ho ricordato durante il temporale di stanotte, e sotto la pioggia che anche questo 20 settembre è arrivata.

Mai dare battaglia senza prima studiare il terreno, e magari dare uno sguardo alle previsioni meteo...
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(1) della febbre di Goethe vi è notizia in Ernst Jünger, Das Wäldchen 125 (trad. it: BOSCHETTO 125. Una cronaca delle battaglie in trincea nel 1918, Ugo Guanda Editore, Parma, 1999), a pagina 41.

martedì 1 settembre 2009

Gli Unni e l'ipertrofia moderna

"E' minor male non avere leggi, che violarle ogni giorno"
Preferirei saltare il riferimento all'attualità di questo proverbio, perché la cosa meriterebbe un'analisi multidisciplinare più approfondita, e forse condurrebbe a chiedersi se potremmo persino essere abbastanza vicini alla possibilità della fine di un altro ciclo storico nei sistemi di strutturazione della società, soprattutto occidentale, che dell'ipertrofia fa la sua stessa essenza.
Mi sembra infatti che vi sia un trait d'union che colleghi alcuni dei suoi principali aspetti e che si chiami appunto ipertrofia, dal discorso sulla gestione dei rifiuti, e dell'intero senso del ciclo produttivo industriale, a quello di una produzione normativa spesso, come in Italia, teoricamente eccellente, ma alla fine talmente sofisticata da sembrare fatta apposta per due ragioni: anzitutto per creare le sue stesse interne possibilità di autoelusione, e per essere gestita e manutenuta dal potere, soprattutto economico.

Attenzione alle ipertrofie... sono molte le cose che generano mostri, e sono ancor più i pericoli che i mostri generino altri mostri ben peggiori di loro stessi, verrebbe da dire. Ma quello che vorrei ora, è soprattutto far emergere un filo che collega molte cose, ed è per questo che a tutti coloro che sono così convinti dell'inevitabile incedere di questo tipo di progresso vorrei raccontare qualcosa che si trova in una eccellente Historia, scritta da Prisco di Panion, uno storico bizantino di lingua greca, di cui racconterò qui un episodio accaduto durante la sua esperienza nell'accampamento di Attila in qualità di ambasciatore nell'anno 448.
Converrà tornare prima o poi anche su una piccola storia degli Unni e del loro condottiero, Attila, perché è senza dubbio un altro argomento che consente di scoprire notevoli divergenze, rispetto a quanto la tradizione (solo la nostra, naturalmente...) ci ha tramandato...
Ebbene, dopo aver assaggiato il vino offerto dalla moglie di Onigesio, ed in attesa di incontrarsi con le ambascerie alla corte di Attila, Prisco si aggirava per il campo unno, finchè si senti chiamare con un saluto greco: "Kaire!"
Prisco sobbalzò... qualcuno conosceva il greco in un campo unno, qualcuno con cui era possibile parlare senza interpreti, e certo la cosa gli sembrò strana, eppure si trovò di fronte proprio un greco, o meglio un abitante dell'impero romano di lingua greca, che prese a raccontargli la sua storia, quella di un mercante di Viminacium, una colonia romana  nei pressi del Danubio proditoriamente consegnata per tradimento del suo vescovo, otto anni prima, nella mani dell'invasore unno.
Ebbene, trasferitosi presso gli unni, il greco (di cui purtroppo non conosciamo il nome) si era non solo adattato al loro stile di vita, ma aveva anche guadagnato alcuni meriti, tanto che potè addirittura sposare una donna ricca della loro tribù.
Prisco si meravigliò molto della serenità con cui il greco gli raccontava la sua vita, e soprattutto rimase inevitabilmente attonito al pensiero di come fosse possibile che un "civilizzato" potesse riuscire ad integrarsi fra quei barbari da cui, come egli stesso sosteneva, non sarebbe tornato assolutamente indietro per rientrare nella società romana.
Prisco, da ottimo romano, non nascose il suo sdegno per quella che era chiaramente una scelta razionale, e lo esortò a riflettere... ma come, Roma è la patria del diritto, è la patria della civiltà... pensa a cosa hai lasciato in termini di cultura, di usi e di costumi, di raffinatezza, di civiltà politica e giuridica... come si poteva non avere nostalgia nè rimpianto per tutto questo?
Il mercante si commosse, al ricordo di tutto questo, e riconobbe anche che le leggi dei romani erano state istituite in un tempo in cui grandi uomini di profonda saggezza avevano pensato al bene comune, certo... ma poi si riprese, e rispose che queste leggi così giuste e lungimiranti, nella prassi erano state ormai troppo spesso tradite, dai funzionari e dai governanti di Roma: i processi erano diventati interminabili, e finivano sempre per dare ragione al ricco e torto al povero; inoltre le tasse opprimevano ogni cittadino ed impedivano una libera attività di commercio che potesse dare soddisfazione, e la corruzione, come sanno tutti, nell'Impero era la pratica più diffusa ad ogni livello, e quindi, dalla teoria alla prassi, dall'ideale alla realtà, c'era ormai un abisso incolmabile, e perciò, senza dubbio alcuno, per lui si stava meglio tra gli Unni...


Può l'uomo medio civilizzato italiano del ventunesimo secolo almeno non porsi la stessa domanda?
Quanto è davvero assurdo ipotizzare che sia meglio la barbarie destrutturata degli unni, che una civiltà raffinata ma così complessa da creare una serie infinita di distorsioni del giusto, a partire proprio da settori come tasse ed amministrazione della giustizia, un tempo massimo vanto dell'Impero?
E se assommiamo le altre, quotidiane ingiustizie di cui facciamo esperienza quotidiana, siamo in grado di raccogliere la sfida della domanda di Prisco?

venerdì 14 agosto 2009

Auguri.

È uno sguardo disattento, quello con cui lui la cerca.
Ma la sua apparente distrazione ha il significato opposto; l’andare a cercarsi anche senza intenzione, il posarsi degli occhi sull’altro nei momenti meno attesi, quando magari sta pensando proprio solo ai fatti suoi, è proprio il bisogno di sapere che in qualche modo l’altro sta lì, dove basta girarsi un attimo, per trovare un sorriso che rientra nei colori più caldi del giorno, così come li si immagina nella notte. (Continua qui)

mercoledì 12 agosto 2009

Elegia Aglianica

Oggi non posso farne a meno, devo parlare di un funerale.

Il problema è che non so esattamente di chi o di cosa, forse di tante persone e di tanti buoni propositi; l’unica certezza che ho è che ci sono molte più persone nella bara di quante siano a seguirne il corteo. Cominciamo dalla Notizia.

Leggendo una nota della Pro-Loco di Taurasi (Av) di pochi giorni fa, apprendo che la XI Fiera Enologica, che si sarebbe dovuta svolgere dal 12 al 16 agosto 2009, “è stata annullata a seguito delle limitazioni della legge 7/7/2009 n. 88”... (Continua qui)

sabato 11 luglio 2009

NapoliTeatroFestivalItalia / 6

Il Teatro Festival è terminato, ma non lo è qualche suo percorso suggerito e rimasto a giacere da qualche parte, nella memoria, per riaffiorare magari camminando per i decumani.

Seguitemi, dovremo scendere qualche metro sotto i nostri passi, accendete una candela magari, ma venite a toccare il suolo e le pareti di quello che potreste avvertire da subito con la stessa forza di un culto ctonio.

Bisogna ripartire da una scena del Teatro Sommerso... (Continua qui)

martedì 30 giugno 2009

NapoliTeatroFestivalItalia / 5


A volte bastano poche parole, e le mie in questo caso potrebbero essere: ci voleva.

Ci voleva una serata, uno spettacolo, ed aggiungerei un sabato così: la Partenope di Leonardo Vinci ha riconsegnato all'ammirazione della città di Napoli una delle sue più belle figlie, in un panorama già ricco di capolavori, soprattutto coevi.

In realtà, più che figlia, di Napoli la Regina-Sirena sarebbe addirittura la Madre... (Continua qui)

lunedì 22 giugno 2009

NapoliTeatroFestivalItalia /4


Dai sorrisi.
Comincerò dalla fine.
Ogni singola persona che ho guardato in faccia, durante e dopo gli applausi lunghissimi, aveva quel sorriso che viene da dentro, contagioso e leggero.
Ho fermato quell’istante, perchè mi piacerebbe che fosse un simbolo di ciò che si dovrebbe cercare in ogni teatro ed in ogni spettacolo.
È arrivato Le Carnaval Baroque, ed è arrivato volando alla stessa elevatissima altezza alla quale l’attendevo... (Continua qui)
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Des sourires.
Je commencerai par la fin.

Chaque personne dont j’ai regardé le visage, pendant et après les longs applaudissements, avait ce sourire qui vient comme de l’intérieur, un sourire contagieux et léger. J’ai arrêté cet instant, et j’aimerais qu’il soit comme un symbole de ce qu'on doit chercher dans chaque théâtre et dans chaque spectacle.

Il est arrivé le Carnaval Baroque...
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Je remercie pour la traduction Philippe Parichot et Viviana Limongi
Ringrazio per la traduzione Philippe Parichot et Viviana Limongi

sabato 20 giugno 2009

NapoliTeatroFestivalItalia / 3


"Un genio, prima di parlare, annusa".

Sarebbe facile affrontare il lavoro di Gaetano Ventriglia con uno sciabordio di citazioni e di rimandi che dal suo Shakespeare tracimasse nei dibattiti sul teatro contemporaneo, e senza dubbio i commenti che hanno cercato di interpretarlo in questo modo hanno colto aspetti condivisibili, soprattutto nella loro pars destruens... (Continua qui)

domenica 14 giugno 2009

NapoliTeatroFestivalItalia / 2

Giulio Cavalli sta in piedi (in senso letterale ma anche metaforico) per un’ora: e stare in piedi a parlare di ecologia, oggi significa affacciarsi quasi necessariamente dal palcoscenico di un teatro.
Non sfuggirà più a nessuno, infatti, che siamo arrivati al punto in cui, per parlare di quella che è forse la cosa più seria di cui si dovrebbe parlare ogni giorno nelle stanze dei bottoni, bisogna
andare quasi soltanto a teatro, e ad assistere allo spettacolo scritto da due artisti come Dario Fo e Franca Rame. Ed è altrettanto chiaro che la colpa è nostra. (Continua qui)

martedì 9 giugno 2009

NapoliTeatroFestivalItalia / 1

Ci sono molte poltrone, in un teatro, sulle quali ci si può sedere.
Da ognuna di esse si gode spesso di una diversa visuale, ancor più se in senso metaforico: c'è la poltrona dello spettatore che ha acquistato il biglietto e che ha un'aspettativa di un certo tipo, a sua volta scindibile in molti e diversi altri tipi di aspettative, anche secondo il biglietto acquistato, c'è quella dell'addetto ai lavori, che guarda con occhi partecipi dettagli che sfuggono ai più, e ci sono quelle sulle quali siede chi, come me, in questo fine settimana si è trovato seduto su alcune poltrone con un badge al collo con la scritta "Napoli Teatro Festival Italia - Press 09". (Continua qui)

domenica 24 maggio 2009

Leggetemi, è gratis.


Per fortuna provo ancora un senso di sconforto nel trovare di tanto in tanto il limite spostato sempre un po’ più in là.
Il limite è quello dell’indifferenza e della stupidità con la quale sembra che accogliamo alcune abiezioni del nostro tempo, e nel nostro tempo queste abiezioni sono quasi sempre frutto di un accurata programmazione, quasi sempre di marketing.
Beh, non riesco ad abituarmi.
E magari vale la pena di dirlo, perché il limite che da qualche anno è stato superato, è uno di quelli più insidiosi che sia venuto in mente a quei maledetti geni della comunicazione che siedono attorno ai loro brain-storming con un caffè che spero sia pessimo e vada loro di traverso, frutto magari anch’esso di una delle loro migliori trovate, quindi necessariamente una schifezza imbevibile.
Il limite questa volta, è quello del linguaggio.

domenica 26 aprile 2009

Ammassi di vita


49 diversi tipi di cavi.
Tanti ne ho contati, proprio ora, alle spalle di questo PC su cui sto scrivendo.
Alimentatori, cavi di rete, collegamenti con Hard Disk e quant’altro. Quarantanove.
Un po’ tanti, mi rendo conto, ma chissà se abbastanza da dimostrare qualcosa che mi è capitato a volte di pensare, ovvero che i cavi, ed in generale i fili, vivono di vita propria... (continua qui)

sabato 11 aprile 2009

Memorie vegetali


Nella trasmissione quotidiana di Radio 3 Fahrenheit - I libri e le idee, c’è una rubrica dal nome Caccia al Libro, che si occupa di trovare libri fuori catalogo [...]
Personalmente non so se riuscirei a regalare un libro, e ricordo per ognuno di loro che non sta più sui miei scaffali a chi è stato dato, perché e da quanto tempo. E lo rivorrei indietro.
Forse perciò sono in debito con la loro esistenza materiale, essendone un accumulatore senza speranza, uno che ha bisogno di tenerli davanti agli occhi e di toccarli di tanto in tanto, e qualcuno saprebbe ritrovarlo anche ad occhi chiusi.
Ed anche per questo mi piace pensare al loro senso materiale, al di là di quello che racchiudono le lettere e le parole contenute.
Umberto Eco in un suo prezioso volume li ha chiamati la memoria vegetale... (continua qui)

giovedì 19 marzo 2009

Repetita iuvant. E qualche volta pure munnezza iuvat...


In uno dei momenti in cui si cominciava ad avvertire che qualcosa non andava proprio, nella questione-rifiuti, ricordo che non era ancora l'estate del 2007, feci una riflessione che voleva essere un punto di vista concreto, non ironico nè disfattista, su un argomento che si prestava fin troppo a speculazioni di vario genere, quasi tutte inutili, se non perfino disutili.
Lo ripubblico sempre con la stessa convinzione, sotto lo sguardo, questo si, ironico, di un editto del 1748:
era L’avanguardia della munnezza, e lo trovate qui

mercoledì 11 marzo 2009

Sant'Orsola, permettimi, un esperimento...



Cara Sant'Orsola, ti chiedo scusa se importuno te, ma credo che alla fine potresti anche esserne contenta: ho deciso di sceglierti per un esperimento... (continua qui)

domenica 1 marzo 2009

Patty, Patty...!





Questa è una lettera d'amore per Patty Pravo.
Per questo le dirò cose orribili.
Come in ogni amore vero... (continua qui)

giovedì 8 gennaio 2009

Lo Ius Primae Noctis ed il tabù della Vergine


Mentre pensavo a cosa scegliere per il prossimo episodio dei “falsi” storici, ecco saltar fuori in una conversazione un riferimento ad un vero classico: Signore e Signori, ecco a Voi l’ineffabile IN-esistenza nientedimeno che… dello Ius primae noctis!
Avanti, ditemi in quanti siete a sapere che è un falso... (continua qui)