domenica 20 settembre 2009

Valmy, questione di dettagli.



Soffermiamoci un attimo sull'idea che in molti degli episodi passati alla storia come decisivi, ci siano stati dei dettagli all'apparenza poco significativi o del tutto secondari, magari anche insoliti, senza i quali tuttavia forse la Storia se ne sarebbe andata per un'altra strada.

Il primo che mi viene in mente è quasi obbligatorio, sia per una memoria costante dai tempi dell'Università cui rendere giustizia, sia perchè oggi è proprio il suo anniversario: la battaglia di Valmy, 20 settembre 1792.

Ricordo che il primo testo sul quale cominciai a leggerne fu quello, incomparabile, di Albert Soboul, il quale offriva già numerosi spunti da seguire per dettagli che potevano apparire secondari: parliamo dunque di Valmy, e sveliamone uno, per quanto, come dire... inelegante.

La battaglia di Valmy è senza dubbio una delle più studiate di ogni epoca, ed è stata analizzata infinite volte con riguardo al suo sviluppo tattico ed alla centralità nella definizione degli equilibri della Rivoluzione francese.

Non abbiate paura, non ne parlerò affatto.
Anche perchè, al contrario di quanta propaganda ne fece Johann Wolfgang von Goethe, che trovandosi lì presente come osservatore commentò il famoso “In questo luogo e in questo giorno comincia una nuova era nella storia del mondo”, dovrei dire che secondo me, in realtà, l'eredità degna di maggior nota di Valmy, dal punto di vista storico, fu invece un'altra: gli straccioni di Valmy furono il più potente stimolo alla trasformazione dell'esercito in coscrizione obbligatoria. Con la conseguenza che prima di loro, la vita dei soldati andava pagata, i mercenari erano la regola, insomma, c'era un prezzo, la vita insomma aveva un valore; dopo di loro, la moneta fu sostituita dall'ideologia: la vita umana non valeva più nulla, perchè inglobata dall'ideologia nazionalista... so bene quanti e quali critiche potrebbe comportare quello che sto dicendo, ma sono disposto ad affrontarle tutte, ed anzi non chiederei altro. Fatevi sotto.

Tuttavia avevo promesso un dettaglio.
Al di là dello slancio e del coraggio imprevedibile delle truppe di Dumouriez e Kellermann, il fatto che la disposizione tattica vide prevalere la fanteria francese alla cavalleria alleata fu dovuto anche e soprattutto, ebbene si, al clima.
Anzi, per meglio dire alle condizioni meteorologiche di quel 20 settembre e dei giorni precedenti: gli alleati che avanzavano per dispiegarsi in formazione nei pressi del mulino trovarono ad accoglierli una campagna francese abbondantemente bagnata dalla pioggia; lo stesso Goethe ne subì qualche conseguenza, se è vero che fu colpito dalla cosiddetta febbre da cannone, una malattia rara da cui pure guarì (1).
Le due conseguenze più dirette delle avverse condizioni meteorologiche dunque furono:
  1. un terreno appesantito che aveva costruito condizioni assai più difficili per la movimentazione dei cavalli che non per quella dei fanti;
  2. in maniera ancor più determinante, e meritevole del nostro Oscar del Dettaglio: l'epidemia di... dissenteria, tra le file austriache, con conseguente stanchezza e debilitazione dei soldati, causata dalla cattiva alimentazione dovuta anch'essa al difficile approvvigionamento alimentare, sempre per colpa delle condizioni del campo di battaglia.
Non vorrei sembrare blasfemo, ed invito ora tutti voi a non cambiare il vostro ricordo degli eroi di Valmy sostituendolo con immagini meno... eroiche. Ma è ciò che ho ricordato durante il temporale di stanotte, e sotto la pioggia che anche questo 20 settembre è arrivata.

Mai dare battaglia senza prima studiare il terreno, e magari dare uno sguardo alle previsioni meteo...
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(1) della febbre di Goethe vi è notizia in Ernst Jünger, Das Wäldchen 125 (trad. it: BOSCHETTO 125. Una cronaca delle battaglie in trincea nel 1918, Ugo Guanda Editore, Parma, 1999), a pagina 41.

martedì 1 settembre 2009

Gli Unni e l'ipertrofia moderna

"E' minor male non avere leggi, che violarle ogni giorno"
Preferirei saltare il riferimento all'attualità di questo proverbio, perché la cosa meriterebbe un'analisi multidisciplinare più approfondita, e forse condurrebbe a chiedersi se potremmo persino essere abbastanza vicini alla possibilità della fine di un altro ciclo storico nei sistemi di strutturazione della società, soprattutto occidentale, che dell'ipertrofia fa la sua stessa essenza.
Mi sembra infatti che vi sia un trait d'union che colleghi alcuni dei suoi principali aspetti e che si chiami appunto ipertrofia, dal discorso sulla gestione dei rifiuti, e dell'intero senso del ciclo produttivo industriale, a quello di una produzione normativa spesso, come in Italia, teoricamente eccellente, ma alla fine talmente sofisticata da sembrare fatta apposta per due ragioni: anzitutto per creare le sue stesse interne possibilità di autoelusione, e per essere gestita e manutenuta dal potere, soprattutto economico.

Attenzione alle ipertrofie... sono molte le cose che generano mostri, e sono ancor più i pericoli che i mostri generino altri mostri ben peggiori di loro stessi, verrebbe da dire. Ma quello che vorrei ora, è soprattutto far emergere un filo che collega molte cose, ed è per questo che a tutti coloro che sono così convinti dell'inevitabile incedere di questo tipo di progresso vorrei raccontare qualcosa che si trova in una eccellente Historia, scritta da Prisco di Panion, uno storico bizantino di lingua greca, di cui racconterò qui un episodio accaduto durante la sua esperienza nell'accampamento di Attila in qualità di ambasciatore nell'anno 448.
Converrà tornare prima o poi anche su una piccola storia degli Unni e del loro condottiero, Attila, perché è senza dubbio un altro argomento che consente di scoprire notevoli divergenze, rispetto a quanto la tradizione (solo la nostra, naturalmente...) ci ha tramandato...
Ebbene, dopo aver assaggiato il vino offerto dalla moglie di Onigesio, ed in attesa di incontrarsi con le ambascerie alla corte di Attila, Prisco si aggirava per il campo unno, finchè si senti chiamare con un saluto greco: "Kaire!"
Prisco sobbalzò... qualcuno conosceva il greco in un campo unno, qualcuno con cui era possibile parlare senza interpreti, e certo la cosa gli sembrò strana, eppure si trovò di fronte proprio un greco, o meglio un abitante dell'impero romano di lingua greca, che prese a raccontargli la sua storia, quella di un mercante di Viminacium, una colonia romana  nei pressi del Danubio proditoriamente consegnata per tradimento del suo vescovo, otto anni prima, nella mani dell'invasore unno.
Ebbene, trasferitosi presso gli unni, il greco (di cui purtroppo non conosciamo il nome) si era non solo adattato al loro stile di vita, ma aveva anche guadagnato alcuni meriti, tanto che potè addirittura sposare una donna ricca della loro tribù.
Prisco si meravigliò molto della serenità con cui il greco gli raccontava la sua vita, e soprattutto rimase inevitabilmente attonito al pensiero di come fosse possibile che un "civilizzato" potesse riuscire ad integrarsi fra quei barbari da cui, come egli stesso sosteneva, non sarebbe tornato assolutamente indietro per rientrare nella società romana.
Prisco, da ottimo romano, non nascose il suo sdegno per quella che era chiaramente una scelta razionale, e lo esortò a riflettere... ma come, Roma è la patria del diritto, è la patria della civiltà... pensa a cosa hai lasciato in termini di cultura, di usi e di costumi, di raffinatezza, di civiltà politica e giuridica... come si poteva non avere nostalgia nè rimpianto per tutto questo?
Il mercante si commosse, al ricordo di tutto questo, e riconobbe anche che le leggi dei romani erano state istituite in un tempo in cui grandi uomini di profonda saggezza avevano pensato al bene comune, certo... ma poi si riprese, e rispose che queste leggi così giuste e lungimiranti, nella prassi erano state ormai troppo spesso tradite, dai funzionari e dai governanti di Roma: i processi erano diventati interminabili, e finivano sempre per dare ragione al ricco e torto al povero; inoltre le tasse opprimevano ogni cittadino ed impedivano una libera attività di commercio che potesse dare soddisfazione, e la corruzione, come sanno tutti, nell'Impero era la pratica più diffusa ad ogni livello, e quindi, dalla teoria alla prassi, dall'ideale alla realtà, c'era ormai un abisso incolmabile, e perciò, senza dubbio alcuno, per lui si stava meglio tra gli Unni...


Può l'uomo medio civilizzato italiano del ventunesimo secolo almeno non porsi la stessa domanda?
Quanto è davvero assurdo ipotizzare che sia meglio la barbarie destrutturata degli unni, che una civiltà raffinata ma così complessa da creare una serie infinita di distorsioni del giusto, a partire proprio da settori come tasse ed amministrazione della giustizia, un tempo massimo vanto dell'Impero?
E se assommiamo le altre, quotidiane ingiustizie di cui facciamo esperienza quotidiana, siamo in grado di raccogliere la sfida della domanda di Prisco?