sabato 19 dicembre 2009

Shhh, diamine! Un po' di silenzio... c'è Bach


Quando ci si ritrova di fronte ad un monumento troppo grande per essere discusso organicamente, a volte conviene abbassare lo sguardo dal punto su cui convergono i riflettori, e girarci attorno, alla ricerca di qualche particolare che ne faccia comprendere aspetti che sotto la luce delle lampade troppo forti, spesso scompaiono. È il caso della serata dedicata alle Cantate Sacre ed al Magnificat, che l’Associazione Scarlatti questa volta ci ha presentato:
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mercoledì 16 dicembre

Auditorium Rai

Ensemble Akademia

Françoise Lasserre Direzione

Johann S. Bach

Cantata “Weinen, Klagen, Sorgen, Zagen” Bwv 12
Cantata “Jesu, Der Du Meine Seele” Bwv 78

Magnificat in Re Maggiore Bwv 243
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Quando Bach firmò il contratto con la Chiesa di Lipsia, accettò una clausola secondo la quale la sua musica non sarebbe dovuta essere «troppo operistica».
Il senso era quello voluto dai pastori luterani: creare una distanza molto precisa, anzi nettissima, fra la cultura del teatro e quella della chiesa, ovvero dare l’idea forte, a coloro che si apprestassero ad assistere a una funzione, di trovarsi in un luogo sacro, dove non poteva ascoltarsi quella musica profana che evidentemente stava prendendo piede.
C’è da dire che in effetti, una cosa che colpisce di Bach, è che fra i maggiori compositori europei suoi coevi, è stato l’unico a non scrivere opere per il teatro.
Premetto che sono d’accordo con quanti sostengono che se Bach, anziché in provincia e fuori dai giri delle avanguardie, avesse trovato un posto magari alla corte di Dresda o nella mondana Amburgo, di certo avrebbe scritto non 4 ma 400 suites strumentali, qualche centinaio e non qualche decina di concerti per strumento solista, qualche melodramma e magari nessuna delle 200 cantate sacre… e tuttavia, considerarlo "fuori" dal concetto del teatro, è solo apparenza.
Se ci sforziamo un po’ di ritrovarci in una messa del 1723 a Lipsia, infatti, le cose si guardano diversamente.
Non esisteva nemmeno un solo teatro, in quegli anni, a Lipsia: quando Handel e Scarlatti riempivano altri luoghi, meno provinciali, l’unico possibile spettacolo a Lipsia era la funzione della domenica mattina, che quindi ricomprendeva anche quella del divertimento e della ricerca musicale.
Capire questo mi sembra fondamentale.
Le cantate non duravano nemmeno mezz’ora, ed il problema che dovette farsi il “Kantor” Bach fu soprattutto quello di riuscire con ogni mezzo lecito a catturare letteralmente l’attenzione del pubblico, e come tale non dobbiamo certo pensarlo paragonandolo a quello di oggi, con lo stesso livello di devozione… immaginiamo un pubblico abituato ad arrivare in chiesa magari soltanto nel momento in cui dovevano sentire il sermone, non molto di più, e aduso ad impiegare il resto del tempo fuori dalla chiesa, per salutarsi o scambiare quattro chiacchiere, così come magari anche dentro, durante la funzione, distraendosi in continuazione, insomma trattando la messa un po’ come un’alternativa alla propria passeggiata, anche incuranti dell’eventuale disturbo per quei pochi che avrebbero anche voluto seguire la funzione. Pochi, in verità.
O magari immaginiamo l’attenzione concentrata soprattutto su eventi modaioli, cosa di cui lo stesso Bach testimonia ad esempio con una cantata straordinaria sull’evento più attraente del momento, la novità della scoperta e dell’uso quotidiano del caffè (provate ad ascoltarla qui).
Davanti a questa platea, possiamo allora immaginare come la preoccupazione di Bach forse poteva essere rivolta anche, e soprattutto, a cosa fare per non vedere la propria (eccellente) arte trattata in un modo così irriguardoso.
Che il rapporto fra il genere drammatico e quello sacro fosse stato già ampiamente esplorato e contaminato, non era una novità, e senza volervi entrare in modo specifico si possono rapidamente ricordare addirittura il Cantico di frate sole di San Francesco del ‘400, musicato, cantato e ballato forse addirittura dallo stesso Francesco, così come sarà un bell’esempio, ed anche molto "forte" pensare alla lauda “dei Peccatori” di Lucrezia Tornabuoni, cantata sopra l’armonia direi del tutto… profana di un canto detto “de’ votacessi” di Lorenzo il Magnifico…
Ebbene, torniamo al problema di Bach: convogliare l’attenzione, ed allargare lo spazio di riflessione dei fedeli, e perché no, dell’apprezzamento per la sua arte.
Di sicuro, all’inizio i padri della Chiesa di Lipsia avrebbero preferito l’antico canto gregoriano, rigoroso ed astratto, ma la sfida di Bach venne infine accettata da ecclesiasti in grado di comprendere il vero e proprio “potere” celato dentro la musica quasi operistica che vedevano nascere con le sue Cantate Sacre, così piena di attenzione al carattere dei personaggi, così umana e così più vicina anche al sentire concreto dei fedeli.

Fu così che si svilupparono, le Cantate, e fu così che oggi ci ritroviamo con un complesso produttivo enorme e di un valore che non voglio essere  in grado di dire.
Le due Cantate di stasera, Bwv 12 (ascoltatene qui una buona versione) e Bwv 78 (idem, eccone qui un ascolto), si manifestano a mio avviso come l’esempio massimo di una sintesi fra le difficoltà dell’esistenza dell’uomo, e la ricerca della pienezza della fede: insieme, sempre insieme, durante l’intero svolgimento della Cantata, queste due linee restano sempre inseparabili, eppure a pensarci la loro nascita e la loro distanza fra razionale ed irrazionale è totale, assoluta, proprio come la loro manifestazione di sofferenza e di gioia… qui sono due parti dello stesso concetto, della stessa vita, l’integrazione che solo in alcuni passi del Vangelo si può trovare così concepita.
Ed il suo Magnificat (qui ne troverete una versione dell'Amsterdam Baroque Orchestra diretta da Ton Koopman), infine, calato con tanta dimensione umana nel cantico del primo capitolo del Vangelo secondo Luca (1, 39-55), con il quale Maria loda e ringrazia Dio perché è sceso a liberare il suo popolo, fa il resto: pensando anche ai Magnificat di Cavalli, Monteverdi o Vivaldi, non possiamo non ammirare l’introduzione di colori e stili vocali tipicissimi dell’opera settecentesca, elastici, complessi e perfino galanti.
Potremmo perfino ipotizzare che oggi, in certi ambienti, si sarebbe potuto perdere tanto genio sotto l’accusa del mancato… rispetto delle clausole contrattuali!
In proposito, mi viene in mente una domanda... ma sarà da considerarsi "musica sacra" quella che viene ospitata in un luogo sacro, quella che fornisce una determinata qualità dell’interpretazione, o ancora soltanto l’opera artistica che si esegue?
Vorrei ricordare anche che questo non era un tema di poco conto, già all’epoca delle Cantate Sacre. Lo vedrei, anzi, come uno degli sviluppi dello scontro fra le chiese cattolica e luterana, ed ancor più, concettualmente, come una domanda che ci si potrebbe fare anche oggi, di fronte a molte manifestazioni del Potere, ovvero quanto il Potere stesso è disposto a fare “cessioni di sovranità”, in questo caso verso la musica, concedendole libertà di espressione piuttosto che imporre regole ferree.

sabato 12 dicembre 2009

Uno zefiro nella notte di S. Elmo

giovedì 10 dicembre 2009
Auditorium di Castel Sant’Elmo

Ensemble Zefiro
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Wolfgang A. Mozart

Serenata in do minore K. 388 - “Nachtmusik”

Serenata in si bemolle maggiore K. 361 - “Gran Partita“
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Entriamo nell’auditorium un po' presto, così abbiamo il tempo di guardare... e per guardare le note che stanno per arrivare, bisogna entrare in qualche strada ed in qualche giardino di Vienna. Basteranno poche tinte, il quadro è già magnifico di suo.

E' l'autunno del 1782.
L’Imperatore Giuseppe II torna dall’Opera, e continua a far riecheggiare fra sé e sé le arie nuove che più gli erano piaciute.
A Palazzo per qualche giorno ancora rimane a pensarci, forse noi oggi potremmo immaginare di accendere una radio o un iPod per riascoltarle, ma purtroppo Giuseppe II non può aspettare ancora tanto tempo, e così dà vita alla propria "K. K. Harmonie".
La Harmonie, nata per questa esigenza di riascolto quasi immediato della musica portata sulle scene in quegli anni, fosse d’Opera, d’alcune Sinfonie o dei Balletti più in voga, consisteva nella sua formazione classica di un complesso a fiati di otto esecutori, diventato molto presto una vera moda presso molte corti europee, capaci finalmente di riascoltare nei propri salotti ogni novità, soprattutto sotto forma di “divertissement", colta in giro per i teatri.
La forma era quasi sempre quella dell’arrangiamento (se ne contano ventidue solo per il Don Giovanni…), che con legni ed ottoni apparve acquistare la sua tecnica migliore.
L’attività dell’Harmonie viennese, ed in particolare dei suoi oboisti Wendt e Triebensee, esplose subito con un successo tale da far concentrare anche Mozart sul fenomeno, dedicandole la maggior parte delle sue composizioni per fiati, ma non lasciandosene scappare anche il suo aspetto evidentemente redditizio, se è vero che in una delle sue Lettere al padre, nel momento stesso in cui gli annuncia la composizione del Ratto del serraglio, aggiunge che dovrà subito preparare anche la versione per l’Harmonie, prima che qualcun altro lo faccia al suo posto e ne tragga profitti…

Ma leggiamone anche un’altra, di Lettera al padre: è del 3 novembre 1781, giorno del suo onomastico, ed è quella in cui inventa la parolina magica: "Alle 11 di sera ricevetti l’omaggio di una “serenata” (Nachtmusik) per 2 clarinetti, 2 corni e 2 fagotti. E di una serenata di mia composizione! Questa musica l’avevo composta il giorno di Santa Teresa (15 ottobre) per la cognata del signor Von Hickel, nella cui casa venne infatti eseguita per la prima volta. I sei esecutori sono dei poveri diavoli, che tuttavia suonano molto benino insieme, specialmente il primo clarinettista e i due cornisti. Ma il motivo principale per cui l’avevo composta era quello di far sentire qualcosa di mio al signor von Strack che frequentava quotidianamente quella casa. Perciò l’ho scritta con un certo criterio, ed infatti ha avuto molto successo. La notte di Santa Teresa l’hanno eseguita in tre luoghi diversi: appena finita di suonarla in un posto, gli esecutori andavano altrove, ricominciavano e venivano pagati. Quei signori, fattisi aprire le porte di casa mia, si sono sistemati in cortile, e proprio mentre stavo per svestirmi, mi hanno molto piacevolmente sorpreso con il primo accordo in mi bemolle".

La nachtmusik offerta questa sera dalla Scarlatti, è la Serenata per fiati in do minore dell’estate del 1782, arrivata in un mese, quello di luglio, pieno di avvenimenti nella sua vita: il felice debutto del Ratto del Serraglio, il trasloco nella nuova casa di Roten Saben alla Hohe Brucke, il matrimonio con Constance Weber...
Ma l’atmosfera turbata di questa nachtmusik non sembra rievocarne alcuno, anzi: quattro tempi di sentimenti tragici ed appassionati, malinconici e contemplativi che non sembrano appartenere che a qualcosa di più intimo, ma che non ci è dato di conoscere, di quello stato d’animo.
E contemporaneamente, potrebbe anche essere vista come uno sradicamento assai raro dall’intera tradizione di genere, mai così complessa e strutturata come in questa occasione.
Una sorpresa, come spesso accade. Una pietra preziosa di un colore diverso rispetto alle gemelle contenute nello stesso astuccio in cui per anni erano state posate.

Tra il febbraio e l’aprile dell’anno precedente, invece, arriva quella pagina che è forse il tour de force più sorprendente per gli strumenti a fiato mai concepito, la Serenata in Si bemolle maggiore n. 10 per tredici strumenti "Gran Partita".
È il periodo in cui Mozart si trasferisce in quella Vienna che vedeva come “il miglior luogo del mondo” per il suo mestiere, e concepisce un’altra serenata lontana dai canoni della tradizione, stavolta quanto un cielo stellato notturno dalle prime ore della sera.

L’Ensemble zefiro si cala in questa notte con strumenti ed esecuzioni ai quali, per completare il quadro, mancherebbe soltanto il rumore discreto della ghiaia sotto ai piedi di un giardino viennese, magari di quel giardino del dott. Mesmer nella Landstrasse che piacque anche al Maestro… e magari nei bis concessi ci saranno regalati anche due entusiasmanti arrangiamenti da Harmonie puri, come “Non più andrai, farfallone amoroso” (Le Nozze di Figaro) e l’ineffabile “Là ci darem la mano” (Don Giovanni)