Tardi si avvede d'un tradimento
chi mai di fede mancar non sa...
E' cominciata la stagione del San Carlo, con la magnificenza del tutto meritata delle celebrazioni del suo rinnovamento, con i giusti elogi per quanto è stato fatto per ribadire la sua importanza assoluta nel panorama mondiale, e con una scelta non facile, ma davvero molto elevata e significativa:
la Clemenza di Tito, con la direzione di Jeffrey Tate, la regia di Luca Ronconi, i costumi di Emanuel Ungaro e la scenografia di Margherita Palli.

La
Clemenza è l’ultima opera di Wolfgang Amadeus Mozart, quel K621 che fa un effetto particolare anche già soltanto nella cifra, essendo così prossimo a quell’ultimo K, il 626, prima della sua scomparsa. E non sarà un’annotazione di sola personale commozione.
Comincerei a guardare tutto l’insieme proprio a partire dal protagonista in teoria principale, Tito.
Il Tito Vespasiano del San Carlo ha una voce avvolgente e senza sbalzi, adatta (o adattata?) proprio al concetto di Clemenza romana che non ha più trovato eguali in altre civiltà; ed offre una interpretazione ed un timbro in chiave “diminutivo”, come probabilmente però richiedeva la stessa mancanza di drammaticità espressiva perfino eccessiva del suo “buonismo”.
Ma di tali sentimenti era connotato anche lo stesso Imperatore, quello per cui Svetonio coniò l’epiteto
Amor ac deliciae generis humani ("Amore e delizia del genere umano")
E credo che tale debba essere stata anche la chiave di lettura della partitura originale, laddove Tito venne creato allo scopo di idealizzare la figura di Leopoldo III, in occasione della sua incoronazione a Re di Boemia.
È fondamentale contestualizzare l'intera opera, e perciò trovarsi in quel luogo ed in quel momento, per capire meglio queste scelte.
Nell’estate del 1791, dagli stati generali boemi provenne un invito pressante a comporre in tutta fretta un'opera seria, per l'occasione della cerimonia dell'incoronazione, e la scelta fu obbligatoriamente indirizzata verso questo testo del Metastasio che ben si adattava sia alla visione apologetica della circostanza, sia al carattere mite del nuovo sovrano.

La data era stata fissata per il 6 settembre, la notizia giunse nell’ultima dimora di Mozart, un alloggio fra i più modesti e disordinati che aveva conosciuto, probabilmente intorno al 15 luglio: già ammalato, in un’atmosfera piena di colori malinconici che lo stavano avvolgendo per molti dintorni della sua esistenza, accettò per 200 ducati oltre 50 di spese, e si mise in viaggio con Costanza per Praga, dovendo così anche scrivere buona parte della partitura nella carrozza, durante il percorso, non tralasciando di delegare la stesura di gran parte dei recitativi al fedele Süssmayer che pure era partito con loro.
Il 6 settembre giunse puntuale la prima a Corte, ma se formalmente l’accoglienza nelle cronache fu buona, in realtà prevalse il disorientamento e la freddezza, ed agli elogi incontrastati si opposero aspettative deluse, a cominciare dagli stessi committenti, se la stessa Regina si lasciò andare ad un commento ingeneroso come “
una porcheria tedesca in salsa italiana”. Solo successivamente il pubblico fece conoscere un sempre crescente successo alla Clemenza, poiché il cambiamento del clima culturale era stato anticipato dalle pagine dell’opera, e così fu naturale che “dopo” avesse maggiore successo che “durante”… ma Mozart non potè andar via da Praga con le stesse beate sensazioni del suo viaggio precedente, ed anzi il mancato successo aggravò il senso di amarezza dell’ultimo periodo.
Bisogna tentare di mettere insieme questi elementi per trovarci quindi le chiavi di lettura di una complessità nella quale confluiscono una serie di temi e di motivazioni spesso confliggenti, che trovano il loro punto principale, credo, nel momento storico particolare del passaggio fra il XVIII ed il XIX secolo.
L’ambientazione scelta per questa edizione napoletana è quella di un ‘800 molto vicino alle atmosfere di quel 1791 che lo annunciava, come del secolo nuovo Mozart anticipò elementi certo ancora poco conosciuti: una scenicità ed un’azione riccamente decorative, la presenza del vero dramma nei recitativi e di intrighi violenti a scuotere la trama, la struttura della macchinazione drammatica e direi anche le idee umanitarie che accendono quest’ultima.

Forse uno degli scopi fondamentali della sceneggiatura, nel proporre la Clemenza, deve essere proprio quello di rendere inattesa la Clemenza stessa, per farla appunto venir fuori poi come un dono del Sovrano ancora più prezioso, in mezzo a tanta spietatezza.
L’ambientazione napoletana favorisce esclusivamente l'intimità di questo aspetto psicologico di Tito, e si lega strettamente all’800: "
non si può fare una Clemenza più moderna, perchè oggi non c'è più clemenza" dice Luca Ronconi.
E tuttavia la strada della sua modernità ormai viene costantemente affrontata in chiave moderna, se è vero che nel 2003 e nel 2005 abbiamo visto ambientazioni ben più ardite, se non post-moderne, e perfino al festival di Salisburgo.
Il suo lato settecentesco, invece, rimane ancora inconfondibile nei duetti, non da opera seria, nei loro slanci e nelle tensioni che fanno dimenticare qualunque legame con l’introspezione psicologica, e fanno da vero ponte al dubbio fra l’impianto generale e la godibilità di pagine che restano dei capolavori assoluti.
È difficile trovare un equilibrio, in questa complessità.
Forse giova anche uno sguardo singolo su alcuni dei personaggi: Vitellia anzitutto, ovvero la dominante del potere per come tiene in pugno Sesto e ne vince perfino il senso di fedeltà amicale verso Tito: Vitellia è quanto di più crudele sia mai apparso nelle pagine del Maestro, è la vera protagonista della sceneggiatura, e Teresa Romano le conferisce una presenza scenica molto efficace, sia nella sua crudeltà che nel suo pentimento.
Sesto… ecco la figura più importante, almeno agli occhi nostri e del nostro XXI secolo, quella che offre i più ampi spazi di riflessione psicologica, ed in questo senso Monica Bacelli è stata eccellente, anche dal punto di vista espressivo (come già nel suo precedente Sesto della versione torinese del 2008).
Merita una nota anche Vito Priante, un Publio estremamente convincente e capace di infondere un senso di
sicurezza che si sentiva quasi fisicamente allargarsi a tutta la scena.

E questo Tito di Gregory Kunde, che potrebbe oggi essere quasi “accusato” di buonismo, a mio parere rende giustizia invece al senso più ampio possibile del concetto sotteso all’ideazione della stessa opera, quella magnanimità che i romani, appunto, chiamarono Clemenza, quella stessa che perfino Giulio Cesare conobbe ed esercitò, pur non essendone forse abitato nell'animo.
La sentenza più bella per condensarla viene fornita dal libretto, quando gli fa pronunciare "
E se accusarmi il mondo vuole di qualche errore, mi accusi di pietà, non di rigore!"
Tito sente di essere circondato da un mondo e da uomini deboli. Il suo perdono estremo non è una debolezza, anzi... direi che è invece l’unico atto di forza, perfino di potenza, in mezzo alle debolezze degli atti vili e della crudeltà di cui si è trovato circondato (“
Vediamo se più costante sia l'altrui perfidia, o la Clemenza mia…”).
E’ una pagina di alto
teatro, forse la più alta coeva, apparsa precocemente in un secolo in cui non era stata ancora affrontata fino a tal punto la manifestazione e l’espressione del dramma personale, laddove la riproduzione degli affetti e dei moti dell’animo erano affidati invece all’arte ed alla tecnica eccelsa. Forse varrà di più questa considerazione, se detta da chi invece, come me, proprio nel ‘600 e nel ‘700 ha sempre trovato il suo massimo piacere sia artistico che spirituale.