martedì 23 febbraio 2010

Marisa, e il resto.

(pubblicato anche su teatro.org)



Show! Tutti Insieme Abbondantemente, ovvero un dispiego di luci, colori, costumi, scene, sketch, battute, canzoni, aneddoti e boutade … Marisa Laurito festeggia 35 anni di carriera e porta sul palcoscenico un pot-pourri che vuole essere la rievocazione dei passi più importanti percorsi: dalla gavetta del varietà al teatro di Eduardo e poi di avanguardia, fino al cinema, al teatro ed alla televisione. Tutti i passaggi sono in qualche modo rievocati da una Laurito alla quale si deve riconoscere una verve ed una energia sempre intatte, e che da il meglio di sé nei vari modi che conosce per coinvolgere il pubblico, una sua vera specialità, e nella più classica e riuscita delle forme di Simpatia.

Uso la S maiuscola perché intendo la “simpatia” in senso alto ed ellenico, ovvero l’inclinazione istintiva che attrae (il pubblico) a sé, la capacità di attrarne i sentimenti: ebbene, mentre in sé è una virtù, e Marisa ne ha da vendere, laddove invece intorno non si forma un adeguato sostegno, la differenza si nota un po’ troppo.

Quello che manca allo spettacolo infatti, è proprio una mano che riesca a far “vedere” il tutto con una linea di congiunzione accettabile, tra l’orchestra, il corpo giunonico di cantanti–ballerine, i cambi di scena ed i tempi delle battute, che restano slegate fra le parti, ed a volte come sfilacciati.

Eppure c’è della poesia, in questo immanente senso del precario che diventa stabile; è come se fosse stato involontariamente riproposto il paradigma della vita stessa di un artista, a suggerire che anche quando diventa affermato, forse dentro di sé un artista conserva sempre il senso del transitorio, e che su questo è capace di far girare il suo universo. E di trascinarci dentro il suo pubblico.

lunedì 15 febbraio 2010

La lambada di Pergolesi


Qualcuno forse si sarà chiesto cosa avrebbe pensato Giovanni Battista Draghi, ovvero il Pergolesi, se avesse visto la sua Serpina, con l’iPod, ballare la lambada e la macarena con il servo Vespone sull’aria Sempre in contrasti con te si sta, oppure i musicisti vestiti da pescatori o da folkloristici capresi: questo qualcuno potrebbe essere fra coloro che in questo fine settimana, al Teatro Sancarluccio, hanno assistito a La Serva Padrona, con la regia di Rosa Montano e l’ensemble “Le Musiche da Camera”.

Ebbene, lo dico subito, secondo me Pergolesi se la sarebbe goduta davvero molto, questa Serva.
Si sarebbe divertito, nel vedere una effervescente Minni Diodati, moderna colf-pettegola, circuire e portare alla capitolazione il padrone-pantofolaio Uberto (Giusto D’Auria), ed avrebbe apprezzato la scenografia marinaia di Lello Acampora, dove una rezza diventa l’efficace metafora dell’imbroglio e del buon partito “pescato” da Serpina.

Lo dico per un motivo preciso, e che riguarda tutte le operazioni in cui si vuole interpretare un concetto legato all’essenza stessa del genere, che in questo caso è l’intermezzo buffo, ovvero la composizione creata per essere eseguita durante gli intervalli di un’opera “principale”.
La Serva Padrona infatti, presto diventata il simbolo stesso del suo genere, fu creata come intermezzo in due atti all'opera seria dello stesso Pergolesi Il prigionier superbo, che tuttavia non ebbe mai alcuna fama lontanamente paragonabile, appunto, al suo intermezzo.
Con questo genere era possibile divagare e liberarsi per un po’ dai formalismi musicali, nonché proporre personaggi e situazioni assai realistici e divertenti, gli stessi che si ricordavano nella commedia dell’arte e che poi hanno fatto nascere l'opéra comique in Francia, nella metà del XVIII secolo.

È interessante anzi ricordare come proprio la prima rappresentazione parigina de la Serva Padrona fece scatenare nientedimeno che la cosiddetta Querelle des Bouffons (“La guerra dei buffoni”), una contesa fra due concetti musicali nata una sera del 1752 in cui vennero eseguite appunto, dapprima la nostra Serva, e subito dopo Acis et Galatée di Jean Baptiste Lully.
Fu impossibile non rimanere subito impressionati dalla differenza.

Da un lato Pergolesi, la melodia, il soggetto realistico e fresco, e dall’altra l'artificiosità e la grandiosità di Lully: in un colpo Parigi si divise in due, e ne venne fuori quasi un vero e proprio caso nazionale, con schieramenti che a prima vista forse sorprenderebbero.
Con Pergolesi erano coloro per cui facilmente potremmo… tifare anche noi oggi: Jean-Jacques Rousseau, Diderot, gli enciclopedisti, menti aperte in grado di apprezzare il punto più avanzato che rappresentava l'opera buffa italiana, mentre con Lully erano i ricchi ed i potenti, i conservatori dell’opera tradizionale francese, coloro che tradizionalmente all'Opéra sedevano sotto il palco del re, mentre i fautori dell’italianità prendevano posto sotto il palco della regina; fu per questo che la “questione di Stato” fu nota anche come Coin du roi, Coin de la reine.

A tutta la sua freschezza e popolarità, insomma, ed al vortice di esuberanza e di vita reale con cui sono animati i due personaggi, al Sancarluccio questa trasposizione moderna forse ha fornito una giustizia significativa, ed anche coeva, dando l’idea di quale messaggio, ed in che modo, doveva forse essere quello autentico, trasmesso dai banchi di un teatro napoletano come quello del San Bartolomeo (l’odierna chiesa omonima) nel 1733.
Merito anche di progetti come questo dell'Intermezzo Ritrovato e della ricerca sulla produzione barocca napoletana, che alimenta l’aspettativa di riscoprire ancora ed in maniera stabile una tradizione tutta nostra ed un patrimonio di produzioni ancora poco rappresentato, da Paisiello a Piccinni, Sarro, Feo, Jommelli, Vinci, Scarlatti, Porpora, in un elenco in cui la cosa più bella è la certezza di averne sempre dimenticato qualcuno.

venerdì 12 febbraio 2010

Ornella e l'Ebreo che non c'è

(pubblicato anche su www.teatro.org)


Marc Chagall, L'Ebreo rosso
Meschinità? Aberrazione? Abiezione? C’è tutto questo, come ampiamente promesso, nella lettura de L’ebreo, eppure non è ancora sufficiente per trovarne la decifrazione. La vicenda descrive un momento storico in cui in Italia, e nel ghetto di Roma in particolare, molti ebrei, per evitare probabili espropri di beni, intestarono le loro proprietà a fidati prestanome. In questo caso, però, il “padrone” dopo tredici anni di deportazione torna a casa: di fronte all’inatteso e sconvolgente pensiero dei protagonisti di perdere d’un tratto una mai guadagnata ricchezza, le strade psicologiche si separano abbastanza nettamente, e si delineano due chiavi di lettura.

Anzitutto, il rapporto fra moglie e marito. Lei, una sorprendente Ornella Muti, è letteralmente terrorizzata all'idea di perdere l’immeritato benessere e di ritornare al rango di tutti coloro che si era ormai abituata a guardare dall'alto in basso ed a disprezzare, con un sentimento talmente eccessivo da far apparire chiaro che il disprezzo è anzitutto nei confronti di sé stessa e della sua essenza di "serva", ovvero ciò che dentro è sempre rimasta. In questo modo il linguaggio usato, un romanesco popolare ed a volte sguaiato, è perfetto anche per immergersi nell’ambiente. Lui, Emilio Bonucci, ha qualche slancio di umanità che potrebbe apparire salvifico, ed a tratti sembra anche provare ad intervenire a fatica nella storia per conferirle un taglio umano, ma alla fine non può andare al di là della sua ignavia, e si fa strumento di un’allegoria che sembra richiamare quella del Serpente, di Eva tentatrice e di un Adamo accidioso e sconfitto in partenza.

L’altro tema, classico per eccellenza, è quello del "convitato di pietra": l’Ebreo non appare mai, nemmeno nel momento in cui dovrebbe essere sacrificato, rendendo tutto il dramma ancora più rivolto all’interno dei personaggi che lo vivono, e con questa sua assenza incombe dentro le loro misere coscienze più ancora che se si fosse manifestato. Forse la definizione preferibile, perciò, sarebbe quella di miserabilità, e questa storia, come avverte anche Lamanna, è davvero quella che va scritta con la “s” minuscola, ovvero lo sfondo personale, intimo ed inconfessabile che così spesso sta al di sotto di quella Storia con la “S” maiuscola che invece si tramanda ai posteri.

mercoledì 10 febbraio 2010

Morso alla luna


(pubblicato anche su www.teatro.org)

Al Teatro Nuovo è tornato Giancarlo Sepe con Morso di luna nuova, uno spaccato di quell’estate del 1943 in cui, nel testo di Erri De Luca, si ricompongono i pezzi di una Napoli che sotto i bombardamenti cercava di capire quale fosse la sua identità. La vicenda intreccia le vite di alcuni napoletani nei momenti in cui sono costretti a riparare in un rifugio: il generale fascista a riposo, il giovane appassionato, il balbuziente, lo smaliziato falegname, la mamma popolana con la figlia romantica, il portiere patriota ed il venditore di baccalà segretamente ebreo.



Rispetto al testo originale, c’è un taglio più simbolico ed evocativo, drammatizzato soprattutto nelle espressioni ed attraverso le posizioni sulla scena. Ed alcune scene corali sono vere e proprie coreografie, come alcune danze dei personaggi con il loro pannello di scena, la fuga iniziale verso il nulla di un ricovero e quella finale verso una rivolta di popolo sempre con l’oggetto-simbolo avvinghiato a sé: una sedia, una valigia od una coperta. È uno sguardo che offre una esposizione molto essenziale delle anime, senza concessioni ad una possibile apertura quasi comica delle situazioni di vita quotidiana napoletana, pure presente nel testo originale, ma anzi trasformandola semmai in uno sporadico sorriso, intimista ed amaro.

Erri De Luca cita il suo morso come quello «di una città che addenta e insegue fino a sbattere fuori l’occupante intruso; […] ci sono sussulti in cui le singole esistenze spezzano la camicia di forza e inventano la libertà». Forse avrebbe meritato un po’ di spazio e di attenzione in più la parte finale, la terza stanza, il momento in cui la precarietà di un popolo diventa la sua forza e la Napoli “che sta sotto” diventa capace di distruggere la Napoli “che sta sopra”: l’esplosione delle quattro giornate, in quel 27 settembre 1943 in cui il primo quarto di luna si fece appunto strada nel cielo ispirando l’evocazione di De Luca con il ricorrente richiamo alla canzone di Salvatore di Giacomo, Luna Nuova.

Ed una ultima lettura, dal sapore simbolico, potrebbe essere forse quello degli elementi che circondano questi personaggi: la terra sotto cui cercano riparo, come in un culto ctonio così spesso presente nella cultura napoletana, il mare in cui ricercare una libertà sempre presente, come nel tuffo liberatorio della ragazza sotto il bombardamento, ed il cielo, che invece in quei mesi era ormai perso, sotto gli sciami degli aerei che lo annerivano.


venerdì 5 febbraio 2010

Tito, tra Clemenza e modernità


Tardi si avvede d'un tradimento
chi mai di fede mancar non sa...

E' cominciata la stagione del San Carlo, con la magnificenza del tutto meritata delle celebrazioni del suo rinnovamento, con i giusti elogi per quanto è stato fatto per ribadire la sua importanza assoluta nel panorama mondiale, e con una scelta non facile, ma davvero molto elevata e significativa: la Clemenza di Tito, con la direzione di Jeffrey Tate, la regia di Luca Ronconi, i costumi di Emanuel Ungaro e la scenografia di Margherita Palli.

La Clemenza è l’ultima opera di Wolfgang Amadeus Mozart, quel K621 che fa un effetto particolare anche già soltanto nella cifra, essendo così prossimo a quell’ultimo K, il 626, prima della sua scomparsa. E non sarà un’annotazione di sola personale commozione.

Comincerei a guardare tutto l’insieme proprio a partire dal protagonista in teoria principale, Tito.
Il Tito Vespasiano del San Carlo ha una voce avvolgente e senza sbalzi, adatta (o adattata?) proprio al concetto di Clemenza romana che non ha più trovato eguali in altre civiltà; ed offre una interpretazione ed un timbro in chiave “diminutivo”, come probabilmente però richiedeva la stessa mancanza di drammaticità espressiva perfino eccessiva del suo “buonismo”.
Ma di tali sentimenti era connotato anche lo stesso Imperatore, quello per cui Svetonio coniò l’epiteto Amor ac deliciae generis humani ("Amore e delizia del genere umano")
E credo che tale debba essere stata anche la chiave di lettura della partitura originale, laddove Tito venne creato allo scopo di idealizzare la figura di Leopoldo III, in occasione della sua incoronazione a Re di Boemia.
È fondamentale contestualizzare l'intera opera, e perciò trovarsi in quel luogo ed in quel momento, per capire meglio queste scelte.

Nell’estate del 1791, dagli stati generali boemi provenne un invito pressante a comporre in tutta fretta un'opera seria, per l'occasione della cerimonia dell'incoronazione, e la scelta fu obbligatoriamente indirizzata verso questo testo del Metastasio che ben si adattava sia alla visione apologetica della circostanza, sia al carattere mite del nuovo sovrano.
La data era stata fissata per il 6 settembre, la notizia giunse nell’ultima dimora di Mozart, un alloggio fra i più modesti e disordinati che aveva conosciuto, probabilmente intorno al 15 luglio: già ammalato, in un’atmosfera piena di colori malinconici che lo stavano avvolgendo per molti dintorni della sua esistenza, accettò per 200 ducati oltre 50 di spese, e si mise in viaggio con Costanza per Praga, dovendo così anche scrivere buona parte della partitura nella carrozza, durante il percorso, non tralasciando di delegare la stesura di gran parte dei recitativi al fedele Süssmayer che pure era partito con loro.
Il 6 settembre giunse puntuale la prima a Corte, ma se formalmente l’accoglienza nelle cronache fu buona, in realtà prevalse il disorientamento e la freddezza, ed agli elogi incontrastati si opposero aspettative deluse, a cominciare dagli stessi committenti, se la stessa Regina si lasciò andare ad un commento ingeneroso come “una porcheria tedesca in salsa italiana”. Solo successivamente il pubblico fece conoscere un sempre crescente successo alla Clemenza, poiché il cambiamento del clima culturale era stato anticipato dalle pagine dell’opera, e così fu naturale che “dopo” avesse maggiore successo che “durante”… ma Mozart non potè andar via da Praga con le stesse beate sensazioni del suo viaggio precedente, ed anzi il mancato successo aggravò il senso di amarezza dell’ultimo periodo.

Bisogna tentare di mettere insieme questi elementi per trovarci quindi le chiavi di lettura di una complessità nella quale confluiscono una serie di temi e di motivazioni spesso confliggenti, che trovano il loro punto principale, credo, nel momento storico particolare del passaggio fra il XVIII ed il XIX secolo.
L’ambientazione scelta per questa edizione napoletana è quella di un ‘800 molto vicino alle atmosfere di quel 1791 che lo annunciava, come del secolo nuovo Mozart anticipò elementi certo ancora poco conosciuti: una scenicità ed un’azione riccamente decorative, la presenza del vero dramma nei recitativi e di intrighi violenti a scuotere la trama, la struttura della macchinazione drammatica e direi anche le idee umanitarie che accendono quest’ultima.
Forse uno degli scopi fondamentali della sceneggiatura, nel proporre la Clemenza, deve essere proprio quello di rendere inattesa la Clemenza stessa, per farla appunto venir fuori poi come un dono del Sovrano ancora più prezioso, in mezzo a tanta spietatezza.
L’ambientazione napoletana favorisce esclusivamente l'intimità di questo aspetto psicologico di Tito, e si lega strettamente all’800: "non si può fare una Clemenza più moderna, perchè oggi non c'è più clemenza" dice Luca Ronconi.
E tuttavia la strada della sua modernità ormai viene costantemente affrontata in chiave moderna, se è vero che nel 2003 e nel 2005 abbiamo visto ambientazioni ben più ardite, se non post-moderne, e perfino al festival di Salisburgo.
Il suo lato settecentesco, invece, rimane ancora inconfondibile nei duetti, non da opera seria, nei loro slanci e nelle tensioni che fanno dimenticare qualunque legame con l’introspezione psicologica, e fanno da vero ponte al dubbio fra l’impianto generale e la godibilità di pagine che restano dei capolavori assoluti.

È difficile trovare un equilibrio, in questa complessità.
Forse giova anche uno sguardo singolo su alcuni dei personaggi: Vitellia anzitutto, ovvero la dominante del potere per come tiene in pugno Sesto e ne vince perfino il senso di fedeltà amicale verso Tito: Vitellia è quanto di più crudele sia mai apparso nelle pagine del Maestro, è la vera protagonista della sceneggiatura, e Teresa Romano le conferisce una presenza scenica molto efficace, sia nella sua crudeltà che nel suo pentimento.

Sesto… ecco la figura più importante, almeno agli occhi nostri e del nostro XXI secolo, quella che offre i più ampi spazi di riflessione psicologica, ed in questo senso Monica Bacelli è stata eccellente, anche dal punto di vista espressivo (come già nel suo precedente Sesto della versione torinese del 2008).
Merita una nota anche Vito Priante, un Publio estremamente convincente e capace di infondere un senso di sicurezza che si sentiva quasi fisicamente allargarsi a tutta la scena.

E questo Tito di Gregory Kunde, che potrebbe oggi essere quasi “accusato” di buonismo, a mio parere rende giustizia invece al senso più ampio possibile del concetto sotteso all’ideazione della stessa opera, quella magnanimità che i romani, appunto, chiamarono Clemenza, quella stessa che perfino Giulio Cesare conobbe ed esercitò, pur non essendone forse abitato nell'animo.
La sentenza più bella per condensarla viene fornita dal libretto, quando gli fa pronunciare "E se accusarmi il mondo vuole di qualche errore, mi accusi di pietà, non di rigore!"
Tito sente di essere circondato da un mondo e da uomini deboli. Il suo perdono estremo non è una debolezza, anzi... direi che è invece l’unico atto di forza, perfino di potenza, in mezzo alle debolezze degli atti vili e della crudeltà di cui si è trovato circondato (“Vediamo se più costante sia l'altrui perfidia, o la Clemenza mia…”).

E’ una pagina di alto teatro, forse la più alta coeva, apparsa precocemente in un secolo in cui non era stata ancora affrontata fino a tal punto la manifestazione e l’espressione del dramma personale, laddove la riproduzione degli affetti e dei moti dell’animo erano affidati invece all’arte ed alla tecnica eccelsa. Forse varrà di più questa considerazione, se detta da chi invece, come me, proprio nel ‘600 e nel ‘700 ha sempre trovato il suo massimo piacere sia artistico che spirituale.