lunedì 15 febbraio 2010

La lambada di Pergolesi


Qualcuno forse si sarà chiesto cosa avrebbe pensato Giovanni Battista Draghi, ovvero il Pergolesi, se avesse visto la sua Serpina, con l’iPod, ballare la lambada e la macarena con il servo Vespone sull’aria Sempre in contrasti con te si sta, oppure i musicisti vestiti da pescatori o da folkloristici capresi: questo qualcuno potrebbe essere fra coloro che in questo fine settimana, al Teatro Sancarluccio, hanno assistito a La Serva Padrona, con la regia di Rosa Montano e l’ensemble “Le Musiche da Camera”.

Ebbene, lo dico subito, secondo me Pergolesi se la sarebbe goduta davvero molto, questa Serva.
Si sarebbe divertito, nel vedere una effervescente Minni Diodati, moderna colf-pettegola, circuire e portare alla capitolazione il padrone-pantofolaio Uberto (Giusto D’Auria), ed avrebbe apprezzato la scenografia marinaia di Lello Acampora, dove una rezza diventa l’efficace metafora dell’imbroglio e del buon partito “pescato” da Serpina.

Lo dico per un motivo preciso, e che riguarda tutte le operazioni in cui si vuole interpretare un concetto legato all’essenza stessa del genere, che in questo caso è l’intermezzo buffo, ovvero la composizione creata per essere eseguita durante gli intervalli di un’opera “principale”.
La Serva Padrona infatti, presto diventata il simbolo stesso del suo genere, fu creata come intermezzo in due atti all'opera seria dello stesso Pergolesi Il prigionier superbo, che tuttavia non ebbe mai alcuna fama lontanamente paragonabile, appunto, al suo intermezzo.
Con questo genere era possibile divagare e liberarsi per un po’ dai formalismi musicali, nonché proporre personaggi e situazioni assai realistici e divertenti, gli stessi che si ricordavano nella commedia dell’arte e che poi hanno fatto nascere l'opéra comique in Francia, nella metà del XVIII secolo.

È interessante anzi ricordare come proprio la prima rappresentazione parigina de la Serva Padrona fece scatenare nientedimeno che la cosiddetta Querelle des Bouffons (“La guerra dei buffoni”), una contesa fra due concetti musicali nata una sera del 1752 in cui vennero eseguite appunto, dapprima la nostra Serva, e subito dopo Acis et Galatée di Jean Baptiste Lully.
Fu impossibile non rimanere subito impressionati dalla differenza.

Da un lato Pergolesi, la melodia, il soggetto realistico e fresco, e dall’altra l'artificiosità e la grandiosità di Lully: in un colpo Parigi si divise in due, e ne venne fuori quasi un vero e proprio caso nazionale, con schieramenti che a prima vista forse sorprenderebbero.
Con Pergolesi erano coloro per cui facilmente potremmo… tifare anche noi oggi: Jean-Jacques Rousseau, Diderot, gli enciclopedisti, menti aperte in grado di apprezzare il punto più avanzato che rappresentava l'opera buffa italiana, mentre con Lully erano i ricchi ed i potenti, i conservatori dell’opera tradizionale francese, coloro che tradizionalmente all'Opéra sedevano sotto il palco del re, mentre i fautori dell’italianità prendevano posto sotto il palco della regina; fu per questo che la “questione di Stato” fu nota anche come Coin du roi, Coin de la reine.

A tutta la sua freschezza e popolarità, insomma, ed al vortice di esuberanza e di vita reale con cui sono animati i due personaggi, al Sancarluccio questa trasposizione moderna forse ha fornito una giustizia significativa, ed anche coeva, dando l’idea di quale messaggio, ed in che modo, doveva forse essere quello autentico, trasmesso dai banchi di un teatro napoletano come quello del San Bartolomeo (l’odierna chiesa omonima) nel 1733.
Merito anche di progetti come questo dell'Intermezzo Ritrovato e della ricerca sulla produzione barocca napoletana, che alimenta l’aspettativa di riscoprire ancora ed in maniera stabile una tradizione tutta nostra ed un patrimonio di produzioni ancora poco rappresentato, da Paisiello a Piccinni, Sarro, Feo, Jommelli, Vinci, Scarlatti, Porpora, in un elenco in cui la cosa più bella è la certezza di averne sempre dimenticato qualcuno.

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