(pubblicato anche su www.teatro.org)
Al Teatro Nuovo è tornato Giancarlo Sepe con Morso di luna nuova, uno spaccato di quell’estate del 1943 in cui, nel testo di Erri De Luca, si ricompongono i pezzi di una Napoli che sotto i bombardamenti cercava di capire quale fosse la sua identità. La vicenda intreccia le vite di alcuni napoletani nei momenti in cui sono costretti a riparare in un rifugio: il generale fascista a riposo, il giovane appassionato, il balbuziente, lo smaliziato falegname, la mamma popolana con la figlia romantica, il portiere patriota ed il venditore di baccalà segretamente ebreo.

Erri De Luca cita il suo morso come quello «di una città che addenta e insegue fino a sbattere fuori l’occupante intruso; […] ci sono sussulti in cui le singole esistenze spezzano la camicia di forza e inventano la libertà». Forse avrebbe meritato un po’ di spazio e di attenzione in più la parte finale, la terza stanza, il momento in cui la precarietà di un popolo diventa la sua forza e la Napoli “che sta sotto” diventa capace di distruggere la Napoli “che sta sopra”: l’esplosione delle quattro giornate, in quel 27 settembre 1943 in cui il primo quarto di luna si fece appunto strada nel cielo ispirando l’evocazione di De Luca con il ricorrente richiamo alla canzone di Salvatore di Giacomo, Luna Nuova.
Ed una ultima lettura, dal sapore simbolico, potrebbe essere forse quello degli elementi che circondano questi personaggi: la terra sotto cui cercano riparo, come in un culto ctonio così spesso presente nella cultura napoletana, il mare in cui ricercare una libertà sempre presente, come nel tuffo liberatorio della ragazza sotto il bombardamento, ed il cielo, che invece in quei mesi era ormai perso, sotto gli sciami degli aerei che lo annerivano.
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