giovedì 25 marzo 2010

Un sogno soffocato dalle tenebre

(pubblicato su www.teatro.org)

Partiamo subito dalle note negative, così magari si apprezzano ancor più quelle positive, che sono tante: se è vero che c’è stata un’azione di resistenza, per non favorire la diffusione della conoscenza della storia di Ipazia come di questa performance di Francesca Bianco per la regia di Carlo Emilio Lerici su testo di Massimo Vincenzi, ebbene è uno di quei casi in cui questo diventa automaticamente un merito, perché significa che colpisce dei nervi scoperti evidentemente universali, ed il censore di turno non fa altro che dichiarare la sua assimilabilità a qualunque altro Potere che teme di essere visto nudo.

Perché questo è il concetto, la denuncia di ogni fondamentalismo, e va ben al di là dell’occasione fornita incidentalmente dal vescovo di Alessandria Cirillo, regnante Teodosio nell’impero d’Oriente, nell’anno 415 d.C., dopo la promulgazione di una legge speciale contro i culti pagani. Il cattolicesimo, dopo tanti anni passati a nascondersi nelle catacombe, diventò religione ufficiale dell’Impero, e l’improvvisa posizione di supremazia mise in luce un aspetto purtroppo molto terreno e violento, quale quello evocato da Ipazia stessa: “Loro non sanno quanto sia pericoloso un Dio partorito dal rancore”. Ma forse non immaginava che sarebbe stato pericoloso fino al punto di farla trucidare per non essersi piegata.

E quel Dio sicuramente non era quello vero, lei l’avevo capito bene, come non è un Dio vero nessuno di quelli che vengono invocati da qualsivoglia integralismo religioso, ovunque abiti nel mondo e qualunque etichetta abbia, perché “ogni vero Dio non è quello che ha paura delle parole e che odia i libri”, dice Ipazia, e lo dice dall’alto del suo essere donna, filosofa, astronoma, matematica, scienziata, inventrice del planisfero e dell’astrolabio, insegnante e quant’altro. Diciamolo, questa civiltà che ha saputo rivedere le sue opinioni e creare modelli di uomini e di eroi validi per le generazioni a venire, ancora non ha consegnato il giusto posto a Ipazia fra i martiri che hanno pagato con la vita la loro coerenza in un mondo in cui sottomettere il proprio pensiero significa una sconfitta intollerabile.
Basti dire che nessun testo italiano ha aiutato Massimo Vincenzi, a dimostrazione di uno scarso approfondimento riservato alla filosofa, colmato soltanto grazie a testi inglesi ed a lavori spagnoli. Anzi, proprio gli spagnoli hanno provveduto di recente a girare un film, Agorà di Alejandro Amenàbar (vincitore di 6 premi al XXIV Premio Goya), che in patria ha ottenuto successo e milioni di spettatori, e che dopo (appunto…) un bel po’ di tempo in cui nessuno ne ha acquistato i diritti, qui da noi come in Francia (tecnicamente non si chiama censura, certo, ma le parole hanno tante strade per arrivare al loro significato), fra un mese finalmente arriva anche in Italia, distribuito da Mikado.

Al martirio di Ipazia e delle Idee, allora, aggiungiamo anche questo: dopo quasi milleseicento anni, l’elenco non era ancora finito. Anzi, aggiungiamo anche il suo essere donna, si, perché forse un qualunque Cirillo Vescovo onnipotente, in qualunque tempo vivesse, troverebbe sempre impossibile far convivere la cultura con il Potere, la politica con la P maiuscola con quella con la p minuscola, ed in questo caso, anche se non soprattutto il riconoscimento del suo rango maschile e la minaccia di un inconcepibile contraltare femminile.

La cornice ideale di un Teatro Instabile che fa ascoltare il suono delle parole come attraverso i percorsi delle sue pietre, il rosso-fuoco che avvampa attorno a Francesca Bianco, che si oppone ad esso con il suo vestito candido come una realtà che appartiene solo ai sogni, la luce della notte che trapunta di stelle la scena intorno alla luna, i libri sparsi come membra disfatte da ricomporre nel tentativo di mettere in salvo qualcosa della Biblioteca, l’espressione mai ieratica della Bianco, ma anzi sofferta e colpita dentro da un’ingiustizia che la costringe a diventare un eroe per il suo semplice restare se stessa (“Io non posso stare qui seduta ad aspettare di vedere morire il pensiero“), formano una scena avvolgente intorno a quello che si rivela un classico teatro della parola e delle emozioni.

lunedì 22 marzo 2010

Parole, ad ogni costo.

(pubblicato su www.teatro.org)

Una mafia interiorizzata che ascolta la Tosca, prega i santini dei patroni del paese e scoppia di fronte all’intollerabilità di un sorriso, è quella che appare nella scrittura di Mutu di Aldo Rapè al Teatro Elicantropo: nella casa di Saro torna dopo 10 anni il fratello prete Salvuccio (Nicola Vero), scappato dal paese un po’ per incapacità di affrontare quell’ambiente, un po’ per ricercare una strada diversa rispetto a quella inevitabile che gli sarebbe stata richiesta in quanto figlio del boss locale, e ritrova le arie della Tosca, ma anche musiche di un carillon della sua infanzia, oltre ad elementi che dovrebbero caratterizzare un momento di riavvicinamento tra i due, mentre le uniche parole e gli unici gesti sensati che si scambiano sono soltanto quelli che li dividono inesorabilmente.

Saro è diventato il killer che ci si aspettava, Salvuccio un embrione di prete-coraggio che non sa stare zitto, contrariamente a ciò che la mafia esprime attraverso la bocca di Salvo quando, di fronte ad ogni tipo di denuncia o anche soltanto ad una parola fuori posto, non sa fare altro che minacciare: Mutu…!
All’Elicantropo, con la scena che attraversa nella sua stessa dimensione gli spettatori ai bordi, facendone parte quasi integrante, il Teatro entra nelle case e viceversa, ci fa spiare dentro la quotidianità, come stare dietro un uscio socchiuso della stanza affianco, da cui si spiano parole, inutilità, volgarità e miserie... e c’è un carico molto alto di tensione, una tensione qualitativa della coscienza, di quella che si crea quando si incontrano/scontrano due poli opposti, due mondi che si contrappongono come due elettrodi vicini, troppo vicini e contemporaneamente troppo lontani per capirsi o anche solo per scambiarsi una parola, una comunicazione, qualcosa da mettere sullo stesso piano per entrambi.

Man mano, inoltre, si rivoltano realisticamente i ruoli e vengono fuori anche gli aspetti più miserevoli di quella che dovrebbe essere la parte della ragione, quella del prete, anche se resta primario il discorso sulle parole non dette, sull’insegnamento del padre dei due ('a megghia parola è chidda ca nun se dice), e perciò diventa paradossale quanto realistico il fatto che siano le urla, invece, che sovrabbondano, come se le parole non potendo essere pronunciate potessero solo esplodere, e sono urla che somigliano a quelle che si sentono lontano, al buio, quando non si sa da dove vengono, ma si sa per certo che nessuno accorrerà.

Mettere i fratelli in un faccia a faccia così intenso e così disperatamente alla ricerca delle proprie ragioni è operazione assai riuscita, come la rivelazione della presenza immanente dell’episodio-chiave cui è legata la storia calandosi nella realtà: ci sono parole e parole, ed alcune di esse se sono pronunciate sono in grado anche di sconfiggere la mafia, e di sicuro la coscienza del killer-Saro, come quelle di Don Pino Puglisi, che il 15 settembre 1993, nel giorno del suo 56° compleanno, venne ucciso dalla mafia davanti al portone di casa, e quando si avvide di essere circondato dai sicari, non fu nemmeno allora “mutu”, ma disse “Vi stavo aspettando”.
E rimase fermo. Con un sorriso.

domenica 21 marzo 2010

La badante

(pubblicato su www.teatro.org)

Tre sipari dividono tre scene cronologicamente alterne, in cui sotto una luce di scena fin troppo chiara ed in un salotto altoborghese affacciato sul lago (ma cosa ci fa un prato dentro casa?) si impongono le ombre interiori di cui ogni personaggio fa mostra.
È quasi un instant-book, questa scrittura di Cesare Levi, perché per lo spettatore è perfino obbligatorio riconoscersi con ciò che con frequenza sempre più alta accade intorno a noi in questo tempo, nelle ore quotidiane: ad un'anziana madre con un principio di Alzheimer, i figli accostano una badante ucraina che subito scatena il suo senso di persecuzione che spesso sconfina nella cattiveria e sempre nel rifiuto della nuova presenza, ed attraverso questa possiamo leggere soprattutto il rifiuto di se stessa e del suo stato di ingabbiata.
Il punto intorno al quale gira la vicenda è il dilemma legato alla “sparizione” di una eredità attesa dai figli e diventata un miraggio dopo la morte, lasciando aperti numerosi interrogativi sugli ultimi accadimenti e sul ruolo della badante nella vicenda.
Le domande da porsi a questo punto, però, scarseggiano, e dell’instant-book viene fuori anche una certa genericità e mancanza di profondità, poiché non viene sostenuta l’indagine nel concetto più sottolineato, quello del rapporto fra una borghesia italiana invecchiata (e dimentica del suo passato di emigrazione), rinchiusa nei suoi ricordi rassicuranti quanto a volte angoscianti, rispetto ad una presenza degli “stranieri” di oggi che a volte ci fanno rivedere aspetti della vita ormai difficilmente riscontrabili sui nostri volti come anche una minore perfidia, oppure al contrario una grande astuzia figlia a volte della necessità.
Il peso del mantenimento della tensione sta tutto sulle spalle (forti) di una Ludovica Modugno molto attenta anche ai particolari, che riesce a presentare un personaggio credibile sia nell’aspetto negativo del primo approccio malevolo alla nuova situazione, sia in quello attivo del rilancio della sua personalità, quando con un vero e proprio riscatto nei confronti e contro il suo passato di figlia e di madre, affida concettualmente e materialmente ciò che resta della sua vita proprio a quella badante in cui vede una rinnovata voglia di vivere ed i principi di cui forse, nella sua vita conservatrice, non si è mai sentita attorniata.

mercoledì 10 marzo 2010

La memoria degli inganni

(pubblicato su www.teatro.org)

Harold Pinter sapeva bene di cosa parlava: il suo biografo Michael Billington spiegò che Tradimenti (‘Betrayal’, 1977) narra della relazione che per sette anni Pinter condusse con la giornalista televisiva Joan Bakewell.
Ma naturalmente andò molto oltre. In Betrayal, infatti, non si parla del tradimento in sé, quanto piuttosto della nostra condizione di vita quotidiana, che ci vede sospesi nel labirinto dell'accettazione del suo rischio, e di come sia difficile per l'anima trattare questo materiale così doloroso.

In modo forse più universale e meno anglosassone di quanto si pensi, i tre (che formano il classico triangolo moglie-marito-suo migliore amico/amante di lei) agiscono per anni ed anni dando della vita il suo spettacolo a prima vista più mortificante, ed insieme probabilmente più comune: una infinita sequenza di imbarazzi, risentimenti, piccole e grandi ferite, atti mancati e parole non dette che formano un silenzio a volte assordante, il cui rumore scuote tutti loro ma non produce mai nessun effetto riconoscibile che sfoci in umano pathos.
Tutti carnefici, e tutte vittime.

La concatenazione di questa visione Pinter la rende in maniera straordinaria, con un effetto a ritroso di nove scene in cui si parte dall’ultimo quadro per rincorrere nella memoria collettiva i momenti salienti in cui si sono feriti, e secondo loro forse anche amati, come se la memoria fosse una sorta di struttura angolare con elementi ad incastro per successive sovrapposizioni… Il risultato è che lo spettatore gode di un punto di vista inconsueto rispetto agli stessi personaggi, perché sa già cosa sarà accaduto nel futuro, e perciò può cogliere i gesti e le espressioni anche minime ed interpretarli anche (e soprattutto?) con le sue aspettative personali.

La regia di Andrea Renzi, molto fedele al testo, ha accentuato il tono inglese di eleganza, anche con una scenografia ed un uso delle luci essenziale ma di grande effetto, ed i tre protagonisti restano molto fermi nella loro esposizione del concetto, sempre così a metà strada fra l’amarezza ed il contenimento, con alcune punte di humour assolutamente delizioso ed estremo a firmare questo stato quotidiano che somiglia alla battuta dell’amico/amante Jerry nell’ultima scena, quando nella corte serrata che le riserva, si presenta ad Emma come “in stato catatonico. Sai cosa significa? Il Principe del regno del non-essere”.

sabato 6 marzo 2010

I padri e i figli

(pubblicato su www.teatro.org)

Non siamo negli anni '70 e non possiamo chiedere di rivedere le stesse facce e di provare le stesse sensazioni; siamo negli anni '10 -ed è già un po' cacofonica l'espressione "anni '10"- e l'emozione del figlio di De Andrè che ripropone Fabrizio è la più grande che possiamo chiedere. E ci viene data.

Trovare, in questa come in altre occasioni, le facce di quegli anni invecchiate di altri trenta, con i figli cui insegnare qualcosa della loro epoca, sta diventando già un appuntamento fisso, quasi fosse ormai l’unico, o almeno uno degli ultimi, possibili terminali di comunicazione di un’epoca intera, momenti in cui tentare una trasmissione generazionale che spieghi a questa povera generazione bombardata dall’azzeramento culturale, che prima era diverso, e che si andava a sentire uno come Fabrizio perché nulla voleva insegnarci, ma che per questo forse tutti noi ogni giorno ancora ricordiamo nelle cose quotidiane le sue parole, le ritroviamo, e ce ne facciamo emozionare.

E sentirle scandire con tanta bravura da chi ne ha vissuto la loro stessa creazione, quando magari a 7-8 anni spiava di notte il padre mentre le faceva uscire dalla sua mente e dalle sua mani di poeta, beh, è qualcosa che aggiunge, aggiunge, aggiunge... c’è memoria e stile, ci sono respiri e fogli bianchi su cui per qualche istante sembra possibile continuare a scrivere, nell’illusione di una sera...

Fa un certo effetto vivere questo doppio padre/figlio: dal punto di vista artistico, grazie anche agli arrangiamenti di Luciano Luisi che hanno unito le loro corde vocali, e da quello umano, perché indubbiamente era qualcosa che dove accadere, prima o poi; dopo tutti gli omaggi avuti in questi anni, mancava quello principale, che desse il senso alle parole scritte e fatte non soltanto di poesia, ma anche della vita vissuta dall’uomo, riproposta appunto da Cristiano e dal suo esserci stato.

Anche per questo, al Palapartenope c'era perfino qualcosa di quel concerto del 14/2/1998 al Teatro Brancaccio, l’ultimo, quando Fabrizio era sul palco insieme ai figli Cristiano e Luvi: qualcosa da ricordare, anziché con le tante sue, con le parole di uno dei pochi che possono prendere parte a questa serata, Ivano Fossati: "La disciplina della Terra sono i padri e i figli, i cani che guidano le pecore, tutti quei nomi dimenticati sotto la mano sinistra del suonatore".

lunedì 1 marzo 2010

Amleto, lo spettro del sé.


(pubblicato su www.teatro.org)


Quando si affrontano classici come l’Amleto, si deve scegliere soprattutto fra due diverse possibilità: l’attenzione alla scrittura, oppure la visione personale che cerca di metterne in luce aspetti particolari, ed è questo il caso della convincente edizione presentata al Ridotto del Mercadante da Alfonso Benadduce.

La sua scelta ed il suo stesso rappresentarsi in Amleto, fa di questo principe di Danimarca non il protagonista, ma il Regista di ogni scena, come se di ogni vicenda che scorre sulle tavole del palcoscenico conoscesse già in anticipo ogni risvolto, quasi ne fosse anche il narratore ed il commentatore (ed in questo senso va forse anche il titolo di Studio).

C’è uno sguardo amletico immanente, "laterale", che pesa e conferisce ad ogni circostanza una luce impalpabile ma estremamente forte, e più ancora c’è la sublimazione di tutti gli elementi-chiave dei personaggi di Shakespeare, con Ofelia che si riduce spesso ad un corpo fluttuante ed il Re Claudio che non dicendo una sola parola esterna una rabbia simbolicamente efficacissima; per non dimenticare le interpretazioni psicanalitiche andate di moda per decenni sul suo complesso d’Edipo, inoltre, la madre Gertrude lo bacia in bocca platealmente, e così via, riempiendo di senso quello sguardo laterale racchiuso nella sua citazione "Il sole, se accarezza un cane morto, genera vermi".


Ma la caratteristica ancora più incisiva, è che Benadduce ricompone, o meglio decompone e presenta la versione spettrale, quasi cadaverica di ogni personaggio, come se a recitare fosse la loro parte già morta, e ad avvicendarsi sul palcoscenico fossero le loro salme, che appaiono per rincorrersi, fino ad essere tutti ricompresi in quel lamento di Amleto in cui si definisce “morto, e senza averne il bene".