martedì 27 aprile 2010

Si prega di non spegnere i telefoni cellulari.

Avete chiuso da poco Facebook. Cento, mille, cinquemila “amici” (chiamiamoli col loro nome: contatti, al massimo) vi hanno lasciato qualche centinaio di messaggi, inviti e robe varie nelle caselle qua e là, magari nemmeno fate più in tempo a leggere o ripassare velocemente la rassegna quotidiana. Bah, fa niente, tanto stasera poi chi si muove, c’è questa sottile pioggia londinese che ispira l’apertura di una bottiglia di Amarone qui a casa e perchè no, anche da soli.
Leggere? Mah, per ora forse nemmeno, meglio la musica. State quasi riuscendo a sedervi, ma squilla il cellulare.
Suoneria personalizzata, almeno già sapete chi è, e potete decidere se vi va di rispondere. Potete sempre scegliere di non farlo, giusto? Ma si... E così lasciate indietro un bel po' di comunicazioni col mondo, ma già questo significa qualcosa: significa uscire da qualcosa, ovvero essere automaticamente inseriti in una rete che prevede, ed a volte pretende, la vostra presenza al suo interno, significa esserne una parte senza la quale qualcuno si accorge presto della mutilazione. Con conseguenze.

Dove si è spostato il limite del consentito, quando sottraendo spazio e tempo all’entropia assurda del contatto esterno obbligatorio, si vuole trovare dello spazio e tempo per se stessi, quel se stessi che prevede di essere, perfino, volendo, perchè no, irraggiungibili?
Chi non ha rimpianto qualche volta quel tempo in cui, poco più di una quindicina di ani fa, non esistevano i telefoni cellulari, ed internet era confinato a pochi privilegiati, e quotidianamente si viveva in un modo che adesso sembrerebbe un vero inferno?
Si usciva con un appuntamento già fissato, prbobabilmente con una telefonata che oggi si chiamerebbe fisso-fisso, e tutto ciò che accadeva per strada diventava un ostacolo insormontabile ed ineluttabile, la percentuale di probabilità che le cose accadessero per caso era estremamente elevata per mancanza di riferimenti in tempo reale, così come le notizie le ricevevamo un paio di volte al giorno dal telegiornale, la posta ci metteva giorni a raggiungerci, e così via.

Sono il primo ad ammettere essere del tutto interet-dipendente, e di esserlo da quando ancora doveva anche diffondersi; ricordo che con amici studenti di ingegneria, 20 anni fa ci si collegava di notte con le reti americane per capire cosa fosse quella nuova realtà di cui si parlava, ed oggi metto la mia bandierina sulla posizione di assoluta presenza di ogni suo aspetto nella vita quotidiana, così come credo di aver dimenticato un telefono cellulare a casa solo una o due volte negli ultimi dieci anni, eppure quante volte… quante volte capita di desiderare di essere irraggiungibili, senza che questo sembri oggi, ormai, a scelta: insensibilità, strano modo di trattare la gente, assurdità (hai il telefono e lo tieni spento?!?), tentativo di nascondere qualcosa a qualcuno, selezione quasi snobistica dei contatti, o addirittura un’offesa?
Insomma, quanto siamo liberi di essere assenti?
Sarebbe facile dire che lo si può sempre fare, eppure io credo che non lo siamo più quasi per nulla, perché il dito può sempre spegnere il telefono e non rispondere ai messaggi (e magari nemmeno leggerli), la mano può non alzare la cornetta anche a casa, e così via, ma a costo di cosa?

Come minimo, a quello di doverci inevitabilmente giustificare.
Mettiamo, dopo un paio di giorni di isolamento che ci siamo dedicati, con qualcuno sicuramente accadrebbe. Tutti avrebbero qualcuno, più di uno, cui dover dare spiegazioni.
È questo, lo spazio che modifica la percezione della libertà, e la relazione obbligatoria che si è costruita con i rapporti circostanti.
Possiamo farlo, certo, ma saremo percepiti come fuori da un contesto che sta, e va altrove, come tutto ciò che accade al di fuori di un’abitudine, sulla quale però nessuno è mai disposto a farsi troppe domande. “È così, che ci vuoi fare”. Qualcosa in verità ci vorrei fare, ma un ingranaggio non si modifica per un anello che non vorrebbe combaciare alla perfezione.
Qualche giorno fa Milana Runjic sull’Internazionale ricordava in proposito una canzone dei Depeche Mode, la trovo anch’io adatta e la regalo qui, in cima a quello che oggi è uno dei simboli più potenti del silenzio, l'ex World Trade Center:



Quanto alla questione se possiamo permetterci il nostro silenzio, la risposta più facile sarebbe un “praticamente no”, a meno di non scegliere quella che anch’essa ormai sarebbe una violenza, ovvero fregarsene di tutti coloro che non capirebbero. Ma mi sembra appunto che inevitabilmente questa soluzione, tranne casi di pronto soccorso da esaurimento di energie da disperdere nell'entropia, debba contenere la stessa forma di violenza di quella forza fisica che mantiene all'interno della rete tutti i suoi anelli in concatenazione. Come uno strappo, una dichiarazione. Al momento, tuttavia, sembrerebbe l'unica alternativa, a meno di non restare con l’idea della possibilità di crearci un microcosmo di relazioni costruito con mattoncini che anche, se ardui a trovare ed a mettere uno sull'altro, ci consenta di riuscire a regalarci perfino questo. Un po’ di silenzio.

1 commento:

  1. un po' di silenzio. e' possibile e dobbiamo permettercelo. e non è una violenza verso gli alri. è solo il rispetto dei propri spazi e del proprio diritto a stare da soli. senza doversi giustificare.con nessuno.la tecnologia deve essere un'opportunità, un mezzo, un'utilità non può diventare un vincolo.e chi se ne frega di chi non ti capisce. io tutelo il mio diritto a stare da sola.. quando voglio e quando ne ho bisogno.

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