sabato 22 maggio 2010

La vita baroque dei New Trolls


(Pubblicato su teatro.org: recensione ed intervista)

Cosa porta 4 persone, prima ancora che 4 artisti, a tornare insieme dopo 43 anni di storia in cui non si sono fatti mancare nulla, ed anche al di là della storia musicale, hanno attraversato vicende personali e storie anche difficili, a volte dolorose?
La leggenda New Trolls è passata anche per Napoli e ad attenderli c'erano soprattutto (ma non solo) quelli che loro chiamano i vecchi amici, coloro che negli anni 70 hanno seguito l'ascesa e l'originalità di un gruppo che del progressive rock italiano ha scritto molte pagine, che ha cominciato con l'apertura dei concerti italiani dei Rolling Stones ed ha incrociato compagni di strada come Fabrizio De Andrè, Luis Enriquez Bacalov, Sergio Endrigo, Ornella Vanoni, Anna Oxa, Umberto Bindi...
Vedendo oggi i quattro fondatori dei New Trolls, si ha l'impressione che gli anni che si portano addosso rappresentano oggi soprattutto la riconferma della loro passione, un rapporto immutato artistico e personale cui ispirarsi, un’esperienza che permette loro di impreziosire il rapporto con il loro pubblico e di avere una storia sulle spalle come pochi possono vantare, ma anche una capacità
di prendersi in giro con leggerezza, scherzando magari come fa Vittorio De Scalzi con la presenza dei tre “musicisti-badanti” che li accompagnano nel Tour.
L'apertura, come sarà anche la chiusura, è imprescindibile: Una Miniera, che dal 1969 ha probabilmente li ha sempre accompagnati nei concerti; poi Signore, io sono Irish, l'inedita Radio Luxembourg (con una dedica a Nico e l'innesto di quei Beatles che in quegli anni si potevano ascoltare in anteprima, appunto, solo su Radio Luxembourg, magari a bordo di un furgoncino in viaggio...), Letti (portata a Sanremo con Umberto Bindi), e soprattutto la fusione rock-classica dei Concerti Grossi 1 e 2 composti con Luis Bacalov, le versioni personalizzate di Poster di Claudio Baglioni e Il cielo di Renato Zero, il passaggio pop con Che idea, Aldebaran ed il clou con l'universalmente richiesta Quella carezza della sera, vero e proprio marchio impresso ormai nell'immaginario collettivo.
Un impianto musicale complessivo che regge un impatto multiforme di sicuro con una passione che traspare dai volti dei quattro, ma anche con convinzione e con una capacità di mutare generi cui Andrea Maddalone, Ricky Bolognesi e Francesco Bellia conferiscono un supporto molto energico e presente, rafforzando l’idea di quanto all'epoca i New Trolls fossero “avanti” rispetto alla musica coeva.
Poco prima del concerto al Teatro Acacia, incontriamo Vittorio De Scalzi per approfondire conoscere alcuni aspetti sia della loro storia che di questa scelta di ritrovarsi dopo tanti anni;
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Facciamo un piccolo salto indietro in quel 1968 in cui nel Panorama musicale italiano arriva il primo LP dei New Trolls, "Senza orario e senza bandiera", del quale ricordiamo una delle liriche di Fabrizio De André: "Signore, io sono Iris, quello che non ha la bicicletta".
E' anche il primo concept album, e si snoda intorno all'Uomo che va alla ricerca di se stesso, della propria realtà e della propria storia, il protagonista del viaggio che stava cominciando e che i New Trolls hanno fatto fin qui. Siamo a Napoli, il tour arriva al Teatro Acacia: 43 anni sembrano abbastanza per chiedersi cosa hanno trovato su questo cammino, e per avere la risposta parliamo con Vittorio De Scalzi. 

Possiamo dire che il senso della vostra reunion era già nelle stesse parole già scritte nel 1968 da Fabrizio De Andrè e Riccardo Mannerini: "Andrò ancora per le strade del mondo con occhi sinceri"?

Vittorio De Scalzi: Si, è vero, è lo spirito con cui abbiamo fatto e facciamo musica, sia quando si deve crearla che quando suoniamo nei concerti, e se pensi poi che questo è stato scritto 42 anni fa, ha un senso, ed è... è vero!

Hai detto una volta che ognuno di voi nel tempo ha percorso strade diverse, ma avete scoperto che alla fine l'anima vera di ognuno risiede ancora nel sound e nell'atmosfera che create quando state insieme, rimasti ancora gli stessi.

E' successo proprio così, ognuno ha portato dietro la sua esperienza e così abbiamo modo di condividerne di nuove, anche se fatte in maniera a se stante, ma tutto è ritornato all'interno del nostro modo di stare insieme, lo stesso di sempre.

Dal beat-psichedelico al progressive e all'incontro con Bacalov con gli esperimenti per unificare il rock e la musica classica: come punti di riferimento nella ricerca di strutture musicali più elaborate in quel periodo c'erano i Jethro Tull, i King Crimson, i Genesis... possiamo inserire anche il Concerto for Group and Orchestra, l'album live dei Deep Purple del 1969 realizzato con la Royal Philharmonic Orchestra di Londra?
 

Si, però da quegli esperimenti che per primi misero insieme il rock e la musica classica io tendo a staccarmi un po', e ti spiego il motivo: la peculiarità del Concerto Grosso è quella dell'interazione fra musica di una band di rock progressive ed una orchestra di musica classica che fa il barocco, e non un orchestra che accompagna le nostre canzoni.
Ed è una differenza fondamentale: nei Deep Purple come in altri esperimenti, c'era soprattutto interazione della band con l'orchestra, invece noi, insieme con Bacalov, abbiamo sviluppato direttamente la musica con un senso proprio, cercando di entrare direttamente nella musica barocca con i nostri strumenti, non abbiamo usiamo l'orchestra per accompagnare ad esempio Miniera, come avremmo anche potuto...

 
Quali sono le differenze fra i Concerti Grossi?

Per me è soprattutto un discorso che continua, il primo certo rimane “il primo” perché storicamente lo è stato, quindi, per la memoria legata alla ricerca e per l'originalità; il secondo forse era meno efficace del primo, ma c'erano elementi di novità perché cominciavamo anche ad inserire i primi sintetizzatori, e c'era un po' più di coralità; nel terzo (che non è il Concerto Grosso n. 3, ma quello fatto con Nico, the Seven Seasons) abbiamo cercato degli spazi più ampi, ed è stato un nostro avventurarci in terreni anche al di là del barocco, abbiamo cercato di usare di più l'orchestra per avere anche più spazio per suonare, perché in un Concerto Grosso ci sono 3 movimenti, ovvero dura circa un quarto d'ora, dopo di che il concerto live è difficile da continuare a sostenere, e questo terzo invece ci lascia molto più spazio. Invece devo dire che ad esempio abbiamo suonato molto di più il terzo Concerto Grosso in Giappone ed in Corea, perché lì hanno molta propensione all'ascolto di questo tipo di musica, ed infatti pensa che là facevamo esclusivamente questo, con grandi orchestre giapponesi e coreane.

L'arrivo del Concerto Grosso a Napoli capita durante un periodo lungo e pieno di iniziative chiamato “ritorno al barocco”...

Si, questa è una terra, come la Sicilia, che sente molto questo legame con il barocco, e ci auguriamo perciò di essere sentiti anche come una parte di questo discorso così importante.

Partendo da un bagaglio così ricercato, con quanto piacere in un concerto si ripercorrono gli anni in cui c'è anche Aldebaran, così come altre canzoni che il pubblico "chiede" più di quello che magari vi è costato maggiore ricerca, studio ed azzardo...?

Certo, il pop! Ma il fatto che ci siamo riuniti dopo tanti anni, ci permette di fare tutto, adesso... noi facciamo questo percorso di 40 anni di musica senza problemi, e riusciamo a passare dal prog al pop con estrema facilità, semplicemente perché facciamo il percorso nostro, per cui se abbiamo fatto Poster di Claudio Baglioni con le sole nostre voci, che è una cosa lontanissima dal Concerto Grosso, lo facciamo perché stiamo qui a presentare 40 anni di noi stessi.

È ancora possibile indicare ai giovani orizzonti se non nuovi, almeno alternativi?

Certo, è difficile, oggi i giovani quasi sempre si guardano indietro, per proiettarsi in avanti, e molti guardano anche a quello che abbiamo fatto noi, il che ci rende anche orgogliosi di aver potuto lasciare un segno.

Dopo 40 anni, qual è la differenza di un concerto “visto da lassù”? Ovvero, dal punto di vista di chi sta sul palco, come si è trasformato il pubblico dagli anni 70 ad oggi?

Non c'è grande differenza, se non nel fatto che vediamo molti giovani che vengono a sentirci e sono quelli che si sentono più vicini alla nostra parte progressive, mentre gli altri sono dei vecchi amici che reincontriamo dopo 40 anni.

Molti di coloro che hanno partecipato al progressive sono stati via via dimenticati, forse perché rimasti fermi su quella che potremmo definire una strada più concettuale, mentre i New Trolls hanno saputo mantenere un contatto col pubblico sempre costante e leggibile, nonostante la chiara impronta alternativa: come ci sono riusciti?

È vero, e sarebbe stato anche più facile forse rimanere fedeli ad un genere, perchè se ti arrocchi sulle tue posizioni e diventi un... talebano della musica, fai un'operazione più facile, perchè i tuoi fan sono esclusivamente i tuoi, come uno zoccolo duro, ed è una cosa che ha i suo lati sia positivi che negativi: il fatto di aver abbracciato generi diversi per noi è stata una scelta dovuta a vari motivi; anzitutto per una questione anche economica, come capita a chi deve esserci per farsi conoscere, ma poi, finito il periodo dei primi successi, ci siamo accorti che il mondo stava cambiando, ed allora ci siamo detti che avevamo delle qualità per affrontare anche musica diversa, e l'abbiamo fatta, per fortuna o per sfortuna, con successo.

 
Ci raggiunge Giorgio D'Adamo, al quale chiediamo il suo punto di vista sulle strade diverse percorse individualmente e sullo spirito di gruppo.

Giorgio D'Adamo: Il senso di ritrovarci dopo le esperienze personali è stato sia quello dell'arricchimento che ritrovare lo spirito d'insieme. Ognuno di noi ha percorso strade diverse perchè evidentemente ne aveva bisogno, io anche al di fuori del campo musicale; poi il fatto che alla fine ci si sia riportati tutti allo stesso punto è stato come la chiusura di un cerchio, e probabilmente era proprio la strada che ci voleva, quella di farci tornare insieme, ed è stata una cosa che abbiamo fatto anche con qualche pensiero: all'inizio, parlandone, era naturale che non fossimo perfettamente convinti, ma lo siamo stati nel momento stesso in cui ci siamo rimessi a suonare insieme: finché si parlava, venivano fuori soprattutto progetti, ma quando ci siamo messi in una sala prove a suonare, abbiamo capito subito che era la strada giusta.

mercoledì 5 maggio 2010

La voce del Dolore

(pubblicato su www.teatro.org)


Nell’ombra quotidiana creata dalla guerra, Marguerite Duras nel 1945 accese una luce sull’anima di un individuo (lei stessa) e su una vicenda che è un solco scavato inevitabilmente e collateralmente dal dolore disseminato dalle armi, quello di ogni tragica conseguenza che la morte lascia dietro di se.

La Duras in quei giorni vagava per Parigi in attesa del ritorno di Robert Antelme, marito e compagno di lotta, imprigionato nel lager di Dachau, scrivendo qualcosa di simile ad un diario: due quaderni che poi lasciò dimenticati per anni; lei stessa poi, avendoli ritrovati, fece fatica a ricordare di aver scritto, e si sorprese a rileggerne quella “calligrafia minuta, straordinariamente regolare e calma”.

Il dolore che la scrittrice lascia sulla carta, è quel momento dello spirito per il quale, durante il suo permanere, non c’è uno stato migliore o peggiore, nemmeno nel susseguirsi di speranze e delusioni, ma soltanto una linea sorda e muta, con la quale fare i conti ed alla quale, forse, adattarsi (“Morire non sarà raggiungerlo, sarà smettere di aspettarlo”).

La regia e la scenografia disegnano intorno a Mariangela Melato un sostrato di desolazione che non può distrarre dalla scena principale, quella dipinta in realtà soltanto sul volto dell’attrice.
Nulla, tuttavia, sfugge alla difficoltà di tradurre con il linguaggio del corpo e della parola parlata, quella che è nata per essere invece una parola scritta, e nulla è più parola scritta che un diario, e nel caso della Duras, perfino un diario quasi inconsapevole.

E' questa la difficoltà che affronta la Melato, che sebbene supportata da una propria presenza interiore che sembra nata per sublimare le emozioni e restituircele come su un vassoio antico ed intarsiato, deve fare i conti con l’impossibilità di unire due espressioni così diverse: la parola scritta durante il flusso del dolore  è quella che è scaturita da una mente ferma, anche fisicamente, mentre il corpo dell’attrice la interpreta, la agita, la smuove dal suo essere completamente interiorizzata, e la differenza si avverte in tutta la sua problematicità.

Se guadagna in spettacolarità, insomma, perde in interiorità, quella che può essere percepita soltanto dalle pagine del libro che si sfogliano e che conservano quella linea sorda e muta. E' l'inevitabile gioco della trasposizione, e viene risolto quando via via ci si spoglia di questa bipolarità: è l’Attrice, che conferisce al dolore stesso una linfa diversa ed inietta nelle parole la sua dote di lacrime naturali, versate sul terreno su cui posavano i corpi senza vita delle stragi naziste.

Si sente allora più forte che mai il senso del lutto, come quello per il genere umano capace di distruggere così disumanamente il suo simile, quello per coloro che non sono tornati ma anche per chi ha riavuto indietro un corpo vivo che tuttavia dentro è, e resterà, un cadavere. Il dolore non può che essere l’unica soluzione, per questa condanna universale che sembra colpire tutti, ciascuno per il suo, giusti ed ingiusti come vittime e carnefici, e copre il senso comune della stessa giustizia.

lunedì 3 maggio 2010

e Icaro volò su Roma

(pubblicato su teatro.org)

La storia di Lauro De Bosis è una di quelle dimenticate dalla Storia con la S maiuscola, prima per volontà di regime che l’ha tenuta nascosta per ovvi motivi e successivamente per motivi ignoti, o forse perché le analoghe imprese di D’Annunzio prima e Bassanesi poi furono ritenute più “consone” all’epica bellica.

Lauro De Bosis era un poeta-patriota (l'unico lavoro che ha lasciato porta un titolo che è quasi un presagio: Icaro) oppositore del regime fascista fin dalla marcia su Roma, che il 3 ottobre 1931, da una campagna vicino Marsiglia partì con un piccolo aereo da turismo (un Klemm L25) alla volta di Roma, dove riuscì a lanciare 400.000 volantini ostili alla dittatura proprio nella zona di Palazzo Venezia e di Palazzo Chigi, e sulla via del ritorno, rimasto privo di carburante, precipitò nel Tirreno.

Il Poeta volante vuole essere un sussulto di teatro civile, di storia associata all'emozione del suo riviverla sotto forma di narrazione indiretta, e tuttavia sotto alcuni aspetti l'argomento resta alquanto staccato dal modo in cui si è pensato di offrirlo: se risulta efficace far sedere subito lo spettatore tra i volantini sparsi in terra e sulle sedie, così come una scenografia essenziale che richiama l’idea di tante possibili piste di decollo, bisogna dire che Pignatelli mostra spesso una eccessiva tensione proiettata a passare da un ricordo all'altro, e che le parodie varie di Mussolini, del Re, della Regina, di una Lili Marleene che canta in inglese, rimangono molto esterne alla narrazione, non aiutando quel senso di poetica della libertà che era la parte più alta del lavoro.
Lo stesso dicasi per gli intermezzi con cortometraggi anni '30, un po' generalistici, tranne l'ultimo, assai fortemente evocativo, dell'uomo che entra nell'acqua con un sorriso beffardo, ed il suo cappotto indosso.
Il mondo nel quale ci si immerge, invece, è di primo piano, e tocca il senso stesso della poetica secondo De Bosis, ovvero quella che coincide con la coscienza della libertà stessa: il poeta sor-volante sulle teste, sui discorsi e soprattutto sui proni conformismi e sul silenzio, come unico ed ultimo baluardo contro una tirannia che possiamo eleggere ad assoluto, per lo stesso principio secondo il quale alcuni simboli devono necessariamente essere universali, che richiama la strenua, millenaria lotta di Ipazia proprio in questi giorni tornata alla ribalta...
Se si studiano le carte dell'aviazione civile tedesca e si ricostruiscono con attenzione i pensieri di coloro che in ogni forma ne presero parte aiutandolo a prendere infine il volo, si scopre che vi sono prove quasi certe della consapevolezza del suo sacrificio, oltre che lo stesso testo da lui scritto prima di partire: Storia della mia morte.

Mezzi scarsi ed indisponibilità di adeguati finanziamenti (“Anche la modesta impresa di guadagnarsi il pane è cosa ardua, per un poeta”), superficialità, impreparazione tecnica, inadeguato addestramento e forse anche fretta e fato: ci sono infiniti dettagli tecnici, anche attraverso la lettura che possiamo leggere di Gaetano Salvemini, che precostituirono il fallimento dell'organizzazione tecnica.
Ma il punto era proprio questo: Lauro De Bosis sapeva, si, che aveva quasi nulle speranze di tornare indietro, ma per lui la riuscita dell'Impresa non era salvare la vita di un eroe, quanto piuttosto dare l'Esempio, e portare a termine il lancio dei 400.000 volantini con cui si era stipato il velivolo.
Il resto, contava poco. Anzi, come scrisse egli stesso, immolarsi sarebbe stato infine un successo ancora più alto da annoverare nella riuscita:
Dopo tutto, si tratta di dare un piccolo esempio di spirito civico. […]Mentre, durante il Risorgimento, i giovani pronti a dar la vita si contavano a migliaia, oggi ce ne sono assai pochi. […] Varrò più da morto, che da vivo.