(pubblicato su www.teatro.org)
Nell’ombra quotidiana creata dalla guerra, Marguerite Duras nel 1945 accese una luce sull’anima di un individuo (lei stessa) e su una vicenda che è un solco scavato inevitabilmente e collateralmente dal dolore disseminato dalle armi, quello di ogni tragica conseguenza che la morte lascia dietro di se.
Nell’ombra quotidiana creata dalla guerra, Marguerite Duras nel 1945 accese una luce sull’anima di un individuo (lei stessa) e su una vicenda che è un solco scavato inevitabilmente e collateralmente dal dolore disseminato dalle armi, quello di ogni tragica conseguenza che la morte lascia dietro di se.

Il dolore che la scrittrice lascia sulla carta, è quel momento dello spirito per il quale, durante il suo permanere, non c’è uno stato migliore o peggiore, nemmeno nel susseguirsi di speranze e delusioni, ma soltanto una linea sorda e muta, con la quale fare i conti ed alla quale, forse, adattarsi (“Morire non sarà raggiungerlo, sarà smettere di aspettarlo”).
La regia e la scenografia disegnano intorno a Mariangela Melato un sostrato di desolazione che non può distrarre dalla scena principale, quella dipinta in realtà soltanto sul volto dell’attrice.
Nulla, tuttavia, sfugge alla difficoltà di tradurre con il linguaggio del corpo e della parola parlata, quella che è nata per essere invece una parola scritta, e nulla è più parola scritta che un diario, e nel caso della Duras, perfino un diario quasi inconsapevole.
E' questa la difficoltà che affronta la Melato, che sebbene supportata da una propria presenza interiore che sembra nata per sublimare le emozioni e restituircele come su un vassoio antico ed intarsiato, deve fare i conti con l’impossibilità di unire due espressioni così diverse: la parola scritta durante il flusso del dolore è quella che è scaturita da una mente ferma, anche fisicamente, mentre il corpo dell’attrice la interpreta, la agita, la smuove dal suo essere completamente interiorizzata, e la differenza si avverte in tutta la sua problematicità.

Si sente allora più forte che mai il senso del lutto, come quello per il genere umano capace di distruggere così disumanamente il suo simile, quello per coloro che non sono tornati ma anche per chi ha riavuto indietro un corpo vivo che tuttavia dentro è, e resterà, un cadavere. Il dolore non può che essere l’unica soluzione, per questa condanna universale che sembra colpire tutti, ciascuno per il suo, giusti ed ingiusti come vittime e carnefici, e copre il senso comune della stessa giustizia.
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