lunedì 28 giugno 2010

Mille Napoli in diciotto carati

(pubblicato su www.teatro.org)

La prima sensazione che resta, al termine di Diciotto carati, è che per scriverne bisognerebbe usare mille e mille volte la parola “Napoli” in tutte le sue derivazioni semantiche, nonché scomodare alcuni dibattiti significativi come quello proposto dal personaggio del critico Bizzarro,quando ricorda Domenico Rea e Raffaele La Capria; ma sulla differenza fra napoletanità enapoletaneria torneremo più avanti, dopo esserci soffermati sulla nascita di questo progetto, che forse è anche la chiave per cercare di dipanare i dubbi che conserva lo spettatore.

Diciotto carati è stato commissionato dal Napoli Teatro Festival allo scrittore cileno Esteban Antonio Skàrmeta e successivamente affidato alla regia di Giovanni Sacchetti: paternità ed interpretazione dunque in capo ad artisti che di Napoli hanno vissuto immagini sporadiche e pertanto più facilmente passibili di autoindulgenza, se non di acquarellismo, e tuttavia il risultato finale è impregnato, soprattutto nella traduzione dalla scrittura, nella presenza di battute ad hoc e nelle fasi finali, di elementi pensosi e pungenti che suggeriscono l'idea di averci voluto mostrare in ogni sua parte un affresco anche ironico: è un’impressione supportata dalla presenza del critico Bizzarro, e da un elemento non secondario come è l'ottimo, coinvolgente accompagnamento narrativo delle musiche di scena e delle canzoni di Giulio Fazio e Valerio Sgarra.
La storia incastra elementi tradizionali della napoletanità quali l'emigrazione, la saga delle grandi compagnie di attori del passato, ed il coinvolgimento della parte più popolare della città in un progetto che riscatti (parolona!) qualcosa della loro miseria e dia l'idea del possiamo farcela, possiamo cambiare tutto con la forza della volontà. Ma si!
Vinicio Buontempo (nessun nome sia a caso...), autodefinitosi attore senza nessun talento né espressione, è il nipote dell'ex famoso attore Cosimo, andato via da Napoli per essere stato ferocemente stroncato dalla critica del tempo (un po’ poco, diremmo: se tutti facessero così...); questi gli affida le sue ultime volontà: tornare a Napoli, rilevare il suo vecchio teatro e “vendicarlo”, mettendo in scena uno spettacolo di successo, qualunque esso sia, che ri-nobilitasse infine il suo antico buon nome.
Perché scegli proprio me, il più appassito dei gigli, per sembrare un fiore giallo e splendente?” è la sua domanda, ma è chiaro che tenterà fino in fondo di esaudire l'ultimo desiderio del nonno, sicché fra il tenere il teatro o venderlo, nel continuo dubbio (e nel continuo richiamo, guarda caso, ad Amleto) fra la vendetta e l'abdicazione (“cosa gliene importa a Dio, lassù, della tua piccola storia?”), si ritrova anche a nuotare in un ennesimo luogo comune quale la morale della coscienza sociale e del teatro del popolo. E va avanti, fino all'immaginabile lieto fine, comprensivo perfino di un amore nato sulle assi del palcoscenico. Evviva.
In una bella scenografia a metà fra le pezze di Resina ed i panni stesi nei vicoli, due installazioni video proiettano ininterrottamente i filmati in bianco e nero di Luigi Pingitore, in cui il protagonista si aggira bendato per Napoli, richiamando l'idea dello straniero che giungendo a Napoli, comprende che il miglior modo per sentirne l'anima è quello di ascoltarne suoni ed odori, insomma intuirla coi sensi.
Questo è proprio ciò che deve essere accaduto alla scrittura, nel suo tentativo di percepire la napoletanità, quella ereditata dalle ferite ataviche, senza scivolare nell'esibizionismo delle sue cartoline, nel masochismo del degrado e nella spontaneità senza ironia (ecco la napoletaneria): è un retrogusto che persiste e pone domande sulla riuscita del sottrarsi essa stessa al manierismo ed a quella oleografia che pure denuncia, riuscendoci anche con continui, piccoli movimenti di scena e battute specifiche.
Nel finale, in mezzo ad una “spasa di panni” di notevole effetto che attraversa l’intero teatro, e dopo le… ultime parole famose del critico Bizzarro e la canzone dell'orchestrina Le conseguenze del bancone (“Ho sognato che Napoli diventava il discount più grande del mondo, dal mare all’agro aversano, gestito da cinesi nati a via Baku…”) arrivano però le risposte più inequivocabili: quella che abbiamo visto, è la favola universale dello spaesato che non ha né trova radici, e che cerca la sua patria altrove, un altrove che in quanto napoletano fa acrobazie per evitare l'oleografia di un testo rispettato, ma reinterpretato ed addizionato infine di salvifica ironia.

sabato 26 giugno 2010

Fermarsi a Piazza Garibaldi, ed osservare

(pubblicato su www.teatro.org)


Fermare lo sguardo disattento su tutto ciò che scorre quotidianamente senza quasi più senso, nel riprodursi delle mille ripetizioni di scene ormai non più percettibili a causa della deprivazione di interesse cui le abbiamo relegate: come portare su un palcoscenico questo materiale, conservando un canone che lo nobiliti e gli conferisca l’interesse dell’osservazione? Deve essere stata questa una delle domande che si è posta la compagnia Maniphesta Teatro, avviando il lavoro necessario a portare in scena Napoli Piazza Garibaldi.
Il primo aspetto che risalta, perciò, è quello che non si vede, ciò che sta dietro il palcoscenico, ed è il lavoro di ricerca e produzione, che per mesi ha significato calarsi nel rumore, nella folla, nella massa di azioni e movimenti a prima vista inutili e privi di importanza, fra clandestini, passanti, traffico, lavori perenni in corso, commercianti abusivi e non, etnie, piccole e grandi lotte per la sopravvivenza, oscenità, violenza, episodi di misericordia e sorprendenti azioni di fratellanza: non sarà difficile per nessuno riconoscere in tutto questo la vera Piazza Garibaldi, ma la particolarità è quella di averla saputa riprodurre ed interpretare attraverso una ininterrotta serie di caratterizzazioni che hanno trovato toni interessanti per l’uso della voce e la suggestione delle scene, supportati da rilievi fonici e filmati in stile neorealista che accompagnano la narrazione e formano un contrasto acceso con l’esplosione scenica dei colori: una efficace immersione nella realtà che risponde alla domanda iniziale, e conferisce valore alle mille occasioni di esplorare personaggi e vicende che altrimenti andrebbero perse (come avviene infatti nella realtà), in una ricostruzione cui avrebbe giovato, a nostro parere, anche qualche intreccio narrativo persistente.
La regia di Giorgia Palombi ha lasciato una discreta percentuale di autonomia al lavoro di personalizzazione degli attori sui loro non-protagonisti, che si sono avvicendati con ritmi e tempi a volte quasi ossessivi, segno di concentrazione e convinzione su un progetto a cui hanno saputo conferire gli elementi che la loro poetica del caos richiedeva.

venerdì 25 giugno 2010

Il Coso, il movimento, l'equilibrio

(pubblicato su www.teatro.org)

Come già altre volte è accaduto, negli spazi del Fringe ci accorgiamo spesso che qualcosa dentro e sotto al teatro più celebrato si muove sempre, in una dimensione meno percepita a causa delle minori occasioni e gli spazi che riesce a trovare per esprimersi, come un luogo nel quale farsi sorprendere, a volte, da spettacoli come questo teatro di movimento, col quale si comunicano sensazioni e concetti, presentato nella Sala Körper dalla compagnia Schuko: si tratta di “Coso”, progetto finalista al premio Equilibrio 2010 con la coreografia e l’interpretazione di Francesca Telli, Marta Melucci e Cristiano Fabbri.
Da un buio permeato di materia incerta, emerge il protagonista/persona qualunque fluttuante e mantenuto in precario equilibrio da due elementi/figure nere che lo accompagneranno quasi ovunque, diventandone a volte perfino l'ombra, altre la parte nascosta della materia stessa.
È un personaggio che ispira una ben strana armonia con il circostante: sembra non appartenervi, ed anzi respingerlo, così come viceversa la realtà respinge lui, mal adattandosi l’un l’altro, eppure riuscendo a rimanerci in armonia, appunto, grazie al suo assumere e mantenere in tensione corporea forme che contrastano con le apparenti leggi se non della gravità, sicuramente della logica.
Siamo partiti dalla tradizione del Bunraku, e con molto spazio per l'improvvisazione abbiamo tracciato un percorso in cui il personaggio assume via via la sua identità, così come il rapporto fra lui e le figure: sempre indaffarato lui, anche se non porta mai nulla a termine, definite e precise invece loro, pronte a compiere anche azioni consequenziali”, spiegano i tre danzatori.
E del Bunraku, il teatro giapponese di marionette del XVII secolo, la loro performance ha conservato elementi chiari, oltre che la vera e propria presenza e divisione dei ruoli e degli spazi; gli antagonisti si trasformano in protagonisti, e l’azione avviene sempre conservando due livelli diversi (simmetriche le figure nere e circolare la figura maschile): i tre bravissimi danzatori dissimulano la loro presenza, si "avvertono" più che entrare in contatto, quasi si percepiscono ed influenzano i rispettivi spazi, fino a trovare il punto di intersecazione, il tutto giocato e fatto vivere con un gioco di luci che serve a creare il vuoto ed il pieno in maniera da aumentare i contrasti e destabilizzare la scena.
Nella scenografia, scatole, sedia e tavolo neri con bordi bianchi sono tutte le "cose" della vita quotidiana, uguali ed indistinte fra di loro, incuneandosi in mezzo alle quali si legge a volte anche la sorpresa sul volto di lui, per il sentirsi trascinato dentro e fuori dalle due figure, come se si accorgesse che c'è qualcuno o qualcosa, dall'esterno, che contrasta il suo spaesamento: una felice sintesi di corpo e identità, agita dai tre con grande abilità, e sicura leggerezza.

mercoledì 23 giugno 2010

Il serial killer e la Vergine, in nome del Sangue

(pubblicato su www.teatro.org)

Sono le nove di mattina del 26 ottobre 1440: il Vescovo Malestroi guida un corteo che parte dalla Cattedrale di Nantes verso l'isola di Biesse, dove una forca sta per giustiziare un uomo reo di crimini abominevoli.
Quest'uomo era forse il primo serial killer della storia conosciuta: Gilles de Rais, compagno d'armi di Giovanna d'Arco ed eroe nazionale alla presa di Orléans, ricchissimo grazie al matrimonio con una ereditiere appositamente rapita, nominato maresciallo di Francia già a venticinque anni per le sue frequentazioni della corte del Delfino Carlo (il futuro Carlo VII), divenuto protagonista dopo il rogo della sua eroina di una quantità allucinante di omicidi di bambini, forse duecento, e passato alla letteratura con il nome di Barbablù.
La notte precedente la sua esecuzione viene raccontata dal lavoro affascinante portato al Teatro Elicantropo: Sangue, ideato e diretto da Laura Sicignano, scritto insieme ad Alessandra Vannucci con la supervisione di Franco Cardini e prodotto dal Teatro Cargo di Genova.
In una scenografia (Laura Benzi) che fa sentire sia con i colori che con l'odore di stare chiusi dentro quella cella, dove il terreno rilascia effluvi a metà fra humus e vinaccia, Roberto Serpi e Simona Fasano si fanno interpreti esatti, e con grandissima intensità, di una relazione di opposti fisica e verbale che coinvolge aspetti plurimi: la purezza della Vergine di fronte alla crudeltà spietata del pluriomicida, il padrone-onnipotente di fronte alla serva che si erge a sua redentrice, ed infine Lui assetato di vita e quindi di Sangue, e Lei che alla vita rinuncia per l'estasi religiosa.
Nell'ambiente del XV secolo l'abitudine alla violenza ed alla truculenza era tale da immaginare scenari quotidiani oggi spaventosi, ed è quello in cui Gilles de Rais si muove a suo completo agio, tanto da far sembrare inutile alla coscienza ogni elencazione di tragedie, di fronte alle quali pronunciare con indifferenza “e soprattutto, questo camino non scalda...”; e di questo ambiente i due attori forniscono una convincente ricostruzione, anche interiore.
Perché un assassino dalla atrocità così difficile anche da immaginare, ha bisogno della drammaturgia per avvicinarsi alla morte? Eppure è ciò che accade: Gilles costringe la serva a trasformarsi in attrice per rivivere il significato della sua intima vicinanza spirituale con Giovanna d'Arco, e perciò, come forse in nessun altro momento, la sua vita è messa nelle mani di un altro, qualcuno che gli consenta con il gioco di raccontare a se stesso la sua realtà, prima di essere giustiziato.
Ed infatti non è per nulla un gioco, né soltanto un raccontarsi, ma anche e soprattutto un tentativo estremo di redimersi: dopo le bugie, dopo il terrore disseminato, dopo le idee di tentativi di corruzione e perfino, delirio supremo, una richiesta di Ordalia che dice quanto sia forte l'autoinganno della Innocenza, alla fine soltanto la Santa Vergine che permette al Re Carlo di essere incoronato, può salvargli l'anima, e fargli accettare ciò che si compierà.
Roberto Serpi e Simona Fasano fanno sentire in ogni istante il peso straordinario di una cruda vicenda fisica e psicologica, portando ottimamente sui volti e nelle parole sia lo strazio della vicenda che l'estasi della possibile redenzione.
E se la mattina dopo la forca ed il rogo accolsero lui ed i due servitori complici Henriet Griart e Poitou, quella notte servì per un ultimo colpo di scena, perché grazie alla profonda contrizione che riuscì a dimostrare, sia essa dovuta a pentimento o piuttosto alla mente malata su cui non è possibile fare ulteriori approfondimenti, Gilles morì solo dopo aver commosso la folla intera che non gioì affatto per l'esecuzione, ed avendo ricevuto, ebbene sì, lui, mostro più atroce fra tutti i mostri, l'assoluzione dai peccati da parte di un sacerdote.

martedì 22 giugno 2010

La Parola scritta, la Parola parlata, la sintesi dell'Attesa.

(pubblicato su www.teatro.org/)

Arriva per l’Attesa il momento di discutere di se stessa, anzi meglio, di dialogare sui suoi obiettivi e sulle sue motivazioni, oltre che sull’esito del progetto, ed al PAN nella conferenza stampa del 18 giugno convergono perciò quasi tutti gli autori dei dieci testi su cui sono state sceneggiate le performance all’insaputa degli spettatori occasionali: insieme a Mario Fortunato, curatore del progetto, ci sono Dacia Maraini, Ivan Cotroneo, Paolo Di Paolo, Elisabetta Rasy, Maria Pace Ottieri, Sandra Petrignani, Pulsatilla, i registi delle performance Sara Sole, Giorgia Palombi, Daniele Russo, Nicola Laieta, Anna Gesualdi, e gli attori delle compagnie coinvolte.
L’affresco che ne viene fuori parte naturalmente dalla fama di vocazione di città eminentemente teatrale di cui Napoli si fregia un po’ ovunque, sottolineata da una citazione di Walter Benjamin secondo cui “a Napoli ogni balcone o finestra è al contempo un palcoscenico ed un loggione”, ma l’occasione dell’incontro va ben oltre una celebrazione concettuale già iper-utilizzata, e si incentra soprattutto su due temi: il rapporto fra gli scrittori italiani ed il teatro, e quello fra la parola parlata e la parola scritta, oltre alle sue conseguenze sugli adattamenti dei testi alla loro possibilità di essere messi in scena.
Un aspetto importante del progetto dell’Attesa è stato quello di aver scelto dieci autori, diversissimi fra loro per tanti aspetti, cui affidare una vera e propria committenza. Usiamo questa parola proprio perché sa un po’ di antico, e nel suo essere desueto forse si incentra anche il nucleo del discorso: gli scrittori italiani non sono affatto abituati a scrivere per il teatro, come emerge chiaramente dal dibattito, e l’ipotesi che viene fuori, molto più semplice di quelle che si potrebbero immaginare in ardite dispute di tecnica della scrittura, è che non lo fanno perché nessuno glielo chiede.
È un dato confermato da tutti i presenti, sul quale sicuramente riflettere, sia per aver constatato l’entusiasmo dei dieci autori nell’affrontare questo aspetto più o meno nuovo, sia perché, come ricorda Dacia Maraini, “nel teatro la parola parlata si deve incrociare con la parola scritta, ed è un’operazione specifica alla quale tuttavia non si è più abituati, perché invece si fa moltissimo teatro di traduzione, o alternativamente teatro che va molto oltre il testo. Ugo Chiti e Dario Fo dovettero ai tempi loro farsi la compagnia da soli, perché nessuno li metteva in scena. È chiaro che mancano progetti specifici.”
L’altro aspetto di grande rilevanza che ha messo in rilievo l’operazione, è stata senza dubbio la cosiddetta messa in scena, o meglio, come è stato definito in una sorta di accordo collettivo spontaneo, la messa in atto dei testi, la loro trasformazione in performance, con la necessaria reinterpretazione, rilettura ed adattamento.
Forse non tutti gli autori erano davvero consci di questo aspetto, che rappresentava in fondo l'obiettivo vero del progetto, e non immaginavano i modi in cui le compagnie lo avrebbero centrato, cosa peraltro accaduta, come abbiamo verificato in molte delle location scelte in giro per la città.
Come conferma Ilaria Ceci, responsabile organizzativa del Progetto giustamente soddisfatta, i passaggi fatti con le compagnie per raggiungere questo obiettivo di produzione “sono stati vari e complessi, e si è scelta la strada di un ampio margine di rielaborazione”, considerando perciò i testi come un piano di lavoro in fieri: “bisognava dare vita a quelle che non erano esattamente delle performance, ma neanche vere e proprie azioni, forse soprattutto scene, qualcosa al confine tra realtà e la finzione, ed in bilico tra la vita ed il teatro”.
Una sfida, insomma, che implica un lavoro impossibile da effettuare a priori, e da ripensare necessariamente sul campo: come ha raccontato la stessa Maraini, ed è l'esempio più calzante per questo tipo di lavoro, il momento in cui ella stessa ha avvertito con più forza la possibilità di una stretta sintesi fra i due momenti ideali, è stato quello in cui le capitò di assistere al lavoro di Vincenzo Cerami su un palcoscenico di Parigi, mentre riscriveva in presa diretta il suo stesso testo durante il confronto, e perché no, nel pieno del combattimento con gli attori che ne tiravano fuori la loro reinterpretazione sulla scorta dell'esperienza di scena: ebbene, se non così partecipata, una sintesi resta inevitabilmente composta di tesi ed antitesi, ed il risultato è testimoniato dai numerosi, inconsapevoli spettatori/attori che hanno contribuito a conferirne il senso.

domenica 20 giugno 2010

Chi non mastica la Mistica...

(pubblicato su www.teatro.org)


Per la rassegna Corpus -Arte in Azione-, al MADRE è stata inscenata una performance di Xena Zupanic, ideata da Sebastiano Deva, che nelle intenzioni programmate voleva prendere spunto da tradizioni simil-religiose, promettendo “una folgorazione divina, punto d'arrivo di un viaggio psichedelico denso di interferenze sonore, una visione estatica che si compone fino allo spasmo finale al fine di raggiungere il centro significante di alcune immagini sacre”.
Nei giorni scorsi è stata regalata a questa serata una pubblicità involontaria a causa della decisione del Sindaco di Napoli di rimuovere i cartelloni che promuovevano questo spettacolo, creando così un clamore con cui è stato consegnato alle cronache un cosiddetto evento, attirando anche il tradizionale pubblico che si lascia trascinare dalla mera curiosità.
Per creare questa performance, sono state scomodate Sante come Angela da Foligno, Teresa d'Avila, Maria Maddalena dei Pazzi, Maria Valtorta e Veronica Giuliani, e questo ardimento è forse l’unica cosa “notevole” dell’operazione.
Una performance di questo tipo dovrebbe avere l'intento di simboleggiare l'annullamento dell’Io e dello stesso ruolo attoriale, per un “making art” che si sublima nell’opera stessa e che il più delle volte rappresenta un suo essere 
in progress come finalità intrinseca ed appartenente ai suoi principali significanti. Ed invece è proprio su questo aspetto, che fallisce sia nell’espressione che nella trasmissione: il significante proprio non parte e non arriva.
Luci e musica ossessive, voce stridente ed urlante a volte al limite della tollerabilità, lampi e tuoni di “Annegami!”, “Strozza la sposa!” ed un atteggiamento sporadico quanto poco convinto di simul-battente, simulazioni di riti di autolesionismo assolutamente vaghe, uova in bocca da vomitare, un bagno nel latte, il taglio di capelli finti, la composizione in terra di una croce con le perle della collana strappate, un corpo di fuori vestito quasi da sposa ed un corpo di dentro nè provocante nè estatico, ma pseudo-seduttivo… tutto questo, senza concedere nulla a quella tensione mistica che invece era l’obiettivo principale: semplicemente, non c’era.

Non basta inseguire simbolismi arcani troppo ambiziosi, oltre che poveri, malintesi e rarefatti, per creare il pathosdella Mistica. Le Sante invocate invano, forse avranno modo di esercitare la loro pietas.
Paradossalmente, il momento in cui si potrebbe percepire un’impressione significativa è quello dopo la fine, quando tutti se ne vanno, e si resta a guardare i resti lasciati sparsi in terra, con le luci accese dietro, quasi come un set abbandonato, ma anche qui prevale invece un pensiero ed anzi una speranza: che il latte ed il sale non abbiano rovinato i circa 10 mq di parquet su cui sono stati inutilmente versati.
Nel finale vero, invece, la mancata Santa scompare rantolando nel retro, mentre i fumogeni imperversano inesorabilmente sulla platea, ammorbando l'aria per un quarto d’ora: forse soltanto addizionandoli con qualche sostanza allucinogena ci sarebbe stata qualche speranza, per il pubblico, di cogliere anche qualche tensione Mistica.

lunedì 14 giugno 2010

Un Frankenstein, anzi due, ma soprattutto uno...



Bisogna sempre accogliere con grande favore un’operazione con cui si mette in scena una storia che rispetta con grande fedeltà quella originale: chi ha letto The Strange Case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde di Robert Louis Stevenson sa cosa intendo, e cioè che la quasi totalità della produzione soprattutto cinematografica, oltretutto vastissima, non ha mai tenuto in troppa considerazione il testo, cercando di esso soprattutto gli aspetti che riteneva più “spettacolari”; è una scelta legittima, ma induce ad un grande respiro di approvazione quando arriva appunto una piece come questo Frankenstein di Gustavo Tambascio (il curatore de La Partenope della edizione 2009 del Festival) visto nell’ex birreria di Miano.
Anzi, diciamolo meglio: il Frankenstein, o il moderno Prometeo di Mary Shelley, appunto, in cui far accadere quasi tutto ciò che la Shelley aveva ideato, ovvero sviluppi assai diversi da quelli a cui hanno abituato i numerosi film, dal cortometraggio muto del 1910 di J. Searle Dawley in poi.
Non è corretto, però, dire soltanto “accade”, perché ci sono due diversi livelli che sono stati concepiti da Tambascio: oltre all’evoluzione degli avvenimenti, sul palcoscenico si susseguono personaggi che spiegano parti del testo e ne dibattono, perfino disputandosene la paternità semantica e filosofica con accanimento ed in presenza della stessa Shelley, una trovata che lascia perplessi perché sia lei stessa, sia i disputanti (un anarchico-materialista storico, un conservatore, una femminista e il dottor Polidori) hanno un effetto didascalico che sembra riprodurre soltanto il reading di un circolo progressista, più che intersecarsi con l’azione.
Questo espediente è utile però per citare con una certa precisione Jacques Vaucanson e Nicolas le Cat, Milton, Condillac, Godwin, da Locke, Ann Radcliffe, Madame de Genlis  e Gregory Lewis, tutti riferimenti letterari e scientifici che sul romanzo della Shelley ebbero un peso indiscusso.
Seguendo questa ispirazione autodescrittiva, anche in scena appaiono perciò non uno, ma due mostri di Frankenstein: quello estremamente evocativo della Creatura orripilante (“un uomo fatto di morte creato da un uomo che vuole sconfiggere la morte”, impersonata da Javier Botet, già una leggenda nell’horror per aver impersonato una delle creature più spaventose del genere, la Niña Medeiros Di REC: diciamo soltanto che non ha bisogno di trucco, come potrete constatare qui a lato...) e quello evoluto, parlante e filosofico che racconta al Dottor Frankenstein cosa sia stata la sua vita dopo il suo abbandono, gliela illustra, ed innesta i crimini in serie per aver scoperto il differenziale fra le sue buone ispirazioni e la realtà che lo circonda e lo discrimina (“Vedo felicità ovunque, e solo io ne sono escluso…”).
Le scenografie di Ricardo Sánchez Cuerda non risparmiano trovate in serie, ed attingono a numerose e diverse ispirazioni, girando spesso intorno al tema avventuroso del viaggio in nave verso quel Polo Nord in cui comincia e termina l’ambientazione, una eredità che viene direttamente dall’influenza che sulla Shelley ebbe la tanto amata Ballata del vecchio marinaio di Samuel Taylor Coleridge, e la crudità e la potenza delle evocazioni e delle prove attoriali di Victor Frankenstein  e delle due Creature lasciano con la suggestione che forse il Prometeo a cui si riferiva il titolo del romanzo, più ancora che il titano ribelle che rubò il fuoco dall'Olimpo per farne dono al genere umano, sia quello delle Metamorfosi di Ovidio, in cui egli plasmava gli esseri umani direttamente dalla creta.

L'Avaro, anche di Molière

(pubblicato su www.teatro.org)


L Avaro, anche di Molière
Una luce molto brillante costruita su un contrasto con uno sfondo cupo segue i personaggi, con un effetto aumentato da un trucco bianco molto acceso, di sapore mimico e seicentesco: El Avaro di Molière, adattato da Jorge Lavelli e José Ramón Fernández, si presenta con l'allestimento deciso e di non certa ambientazione di Ricardo Sánchez Cuerda (scenografo de La Partenope di Tambascio del Festival 2009), con elementi semoventi di 6 porte ed un ingresso che si compongono e scompongono, mantenendo sempre in vista la loro essenza di apertura improvvisa ad ingressi e sorprese, che si confanno ad un testo in cui si susseguono soprattutto scambi di battute e ritmo veloce degli eventi, e pochi momenti di riflessione.
Dietro quelle porte, sugli usci e perfino sopra di esse, non solo Arpagone ma l'intera serie di personaggi si spiano, tramano ed appaiono coinvolti in un'inestricata alternanza di vizi, dall'ipocrisia di Valerio all'avidità di Frosina e Saetta, non risparmiando nemmeno Cleante e quel Mastro Giacomo che apparentemente tenta di ricondurlo alla ragione (come accade in più di una commedia di Molière), ma che è comunque spinto da un misto di pavidità ed invidia.
Tutto gira intorno al dio denaro, un dio invisibile e perfino nascosto fisicamente, sottoterra nel giardino, capace di generare in Arpagone una idolatria tale da meritarsi l'unica scena psicologicamente d'effetto, alla fine del quarto atto, quando parlando nel buio si esprime come un innamorato (“mon pauvre argent, mon pauvre argent, mon cher ami, on m'a privé de toi; j'ai perdu mon support, ma consolation, ma joie, tout est fini pour moi, et je n'ai plus que faire au monde. Sans toi, il m'est impossible de vivre...”), e rivolgendosi all'altro buio, quello della platea, chiede di essere "resuscitato".
In quello che corrisponderebbe al quinto atto, le luci si fanno quasi abbaglianti, a supporto di un deus ex machinavolutamente consolatorio ed esageratamente stucchevole, come Molière cominciò a volere già nel Tartuffe, con quelle soluzioni ardite di personaggi ritrovatisi a sorpresa dopo molti anni, all'interno di un canone che ai nostri tempi corrisponde perfino ad un codice di massa da Carramba, che sorpresa!
La produzione esprime una buona prova di forza complessiva, ed a partire da Juan Luis Gallardo, gli attori si esprimono con convinzione e con un ritmo preciso, e tuttavia rimaniamo delusi di fronte alla scelta di un Arpagone vigoroso e quasi soltanto irascibile, e non piuttosto viscido, gretto, subdolo come un Mario Scaccia, o come sarebbe risultato da una lettura più vicina a quell'esprit de jouer, quel senso delle simmetrie e meccanizzazioni ereditato dai giochi della Commedia dell'Arte e dagli equivoci che Jean Baptiste Poquelin, detto Molière, in occasione di questa commedia aveva tratto perfino da Plauto, ed il risultato è stato quello di riscuotere magari un certo successo, ma non più di qualche sorriso.

domenica 13 giugno 2010

Raskol'nikov errante nei quartieri

(pubblicato su www.teatro.org)


Raskol nikov errante nei Quartieri


Al Teatro Nuovo e per i vicoli dei Quartieri Spagnoli, dalle tavole di una trattoria al rifugio di largo Barracche, fin dentro l'androne di un palazzo d'epoca e fra i passanti occasionali, è “apparso” il Delitto e Castigo di Dostoevskij, adattato e suddiviso in due parti ed in due serate da Gaetano Ventriglia e Silvia Garbuggino. L'operazione intende far calare in questa atmosfera di bassifondi il romanzo, cercando di rievocarne, nei vicoli napoletani, la Pietroburgo dell'800 in cui Raskol'nikov decide di sottoporre la sua vita ad un'azione “eroica” quale quella di uccidere una vecchia, avida usuraia, e poi, per eventi occasionali, anche la sorella.
È la storia di uno scisma, quello che avviene tra l'individuo ed il genere umano, il desiderio di un bene superiore e di un male inevitabile (“Napoleone se avesse trovato di fronte una vecchia da uccidere per fare la sua carriera e grandi imprese, si sarebbe pentito?”), e della successiva incapacità di trasformare il male in bene, finché si traccia un percorso di rigenerazione quando Raskol'nikov capisce che anche se un essere umano è straordinario, non è infine differentedagli altri uomini, non può sfuggire alle conseguenza di quello che comunque resta un crimine, e che per questa sua appartenenza al genere umano deve pagare un prezzo aspro, per comprare la sua stessa vita (“Perché se gli altri sono stupidi, io non riesco a fare una cosa più intelligente degli altri? Io volevo solo Osare...”).
Accompagnati nella scenografia itinerante dalla voce di Ilaria Graziano che crea atmosfere sempre avvolgenti, Raskol'nikov e Marmeladov entrano nella taverna in cui, la prima sera, li aspettano i primi spettatori: sentirli parlare così dovrebbe servire a vivere la scena anziché osservarla, ed in questo senso osiamo andare oltre, e pensare che l'ideale sarebbe stato che tutti continuassero a mangiare e bere, ed ascoltare solo distrattamente i due, anziché voltarsi e diventare spettatori.
Già qui, però, viene da interrogarsi sul calcolo dell'operazione, perché si ha la sensazione che l'ambizione del progetto prevalga troppo sull'esito: gli spezzoni del romanzo si risolvono soprattutto in monologhi isolati in cui si perde l'evoluzione, se non se ne ha già una padronanza forte, alcuni aspetti dilettanteschi nei personaggi minori sono imbarazzanti, le parti sono molto slegate e si sente la mancanza di rapporti dialogici, oltre che una difficile gestione dell'alternanza di troppi personaggi in capo ad una sola attrice, scelta poco efficace che li ha resi infine monocordi, poco distinti e distinguibili; da ricordare l'inserimento, in tema di vinti, per l'Hotel Supramonte di Fabrizio De André al funerale dell'usuraia.
Nel secondo giorno sono stati inseriti i dialoghi più significativi: il delirio dell'interrogatorio e soprattutto il confronto/rapporto con Sonia, che lo spinge al tormento sulla divina provvidenza, fino all'angoscia del sentire che l'Opera non era stata compiuta, perché anche se aveva Ucciso, infine era rimasto dall'altra parte, non avendo varcato la soglia che gli impediva il rimorso.
La partecipazione che forse si poteva ipotizzare nei Quartieri rimane occasionale se non episodica, come quando escono gli abitanti dall'androne del palazzo e la scena ingloba anche loro, interagendo e facendoli partecipare per qualche secondo al dialogo, e rimane la sensazione che si sarebbe potuto e dovuto osare di più, e soprattutto scegliere di stare più decisamente una parte o dall'altra; aggiungiamo anche l'incertezza dell'esordio, ma restiamo soprattutto molto perplessi sul suo stesso obiettivo, a metà fra una rappresentazione di genere, alternativa piuttosto che sperimentale, ed il suo dover essere una tappa di cartello, ovvero posizionata in un segmento in cui ci si attende una maggiore osservanza dei canoni della drammaturgia.
Per la conoscenza che abbiamo di Ventriglia, soprattutto ricordando lo straordinario Otello, alzati e cammina, vera rivelazione della scorsa edizione, riteniamo che lo spaesamento e la mancanza di punti di riferimento precisi, conferiti anche dalla fisicità della sua interpretazione dei deliri interiori che si esplicano con rabbia e movimenti e ritmi a volte ossessivi, siano tutte precise scelte, davanti alle quali porre tuttalpiù una questione di aspettative, come quando ci si siede in un ristorante à la page e ci viene servito uno spiedino di lucertola: se qualcosa non va, o è nel menu, o è nell'arredamento.

giovedì 10 giugno 2010

L'Attesa: storie di (stra)ordinaria partecipazione.


(pubblicato su www.teatro.org)

Si è parlato molto del progetto dell'Attesa, una delle novità più interessanti di questa edizione del Teatro Festival: oltre all'idea di mettere “in scena” le storie direttamente in mezzo alla gente, l'aspettativa era maggiore proprio per la scelta di realizzarle a Napoli, luogo per eccellenza nel quale (chiunque può verificarlo semplicemente scendendo in strada) la partecipazione alle cose che accadono, ovunque ed a chiunque accadano, è normalità assoluta, e rende quasi impossibile, come anticipato da Renato Quaglia, capire quale sia il limite, oltrepassato il quale, ci si possa convincere di trovarsi di fronte a degli attori e ad una finzione, piuttosto che rimanere all'interno della costruzione di una propria drammaturgia di invenzione.

Questa non-differenza fra i “fatti nostri” ed i “fatti loro”, vissuta in questa dimensione quotidiana, mi fa scomodare l'etimologia più nobile del concetto stesso di comunicazione: il latino communicare significa rendere comune, far partecipi gli altri di una cosa. A Napoli, ciò che avviene nello spazio pubblico è proprio questo: si mette in comune quello spazio, proprio come se le distanze fisiche interpersonali, anziché creare isolamento e disgiunzione fra gli individui, fossero ancora considerate come spazi aperti al contributo, all'interessamento ed alla partecipazione fra quanti, in quel momento, intendano entrarvi.


Stavolta però sarà un'osservazione esterna dell'interno: seguiamo le prime Attese confondendoci tra la gente in fila o per strada, a cominciare da via Roma, nella zona della funicolare Centrale, e fra il Vomero ed il Parco Margherita, scendendo per la funicolare di Chiaia.
La prima delle narrazioni inscenate è Assenti di Ivan Cotroneo, nella quale agiscono due personaggi “non-vivi”, chiamiamoli pure fantasmi, dall'aspetto molto démodé, in contrasto fra di loro a causa della ostinazione di lei (Alessandra Di Castri) a rimanere ancorata in qualche modo fra i vivi, per continuare a “viversi” il suo amore per un ragazzo (Francesco Testa) invece molto vivo; lui (Ivan Marcantoni) la seguirà nella sala d'attesa della funicolare, e cercherà di convincerla a ragionare ed a considerare assurdo il suo attaccamento ad un amore impossibile di cui resta traccia soprattutto in un ritratto del ragazzo che lei ossessivamente continua a disegnare.


L'aspetto dei due già provoca, per strada, alcuni sguardi curiosi che si voltano per seguirli; lei si siede al tavolino di un bar ma non ascolta il cameriere (non può, non appartiene a questo mondo), e così ricomincia a disegnare il volto del ragazzo, finché si rialza e se ne va, seguita dall'esclamazione “E già, e chella po', nun vuleva niente: vuleva disegnà...!

Nel bar dove per il terzo giorno lei entra, chiede un cappuccino e poi lo lascia sul bancone intatto e se ne va, ormai le viene servito uno a metà, senza aspettare nemmeno la richiesta, e con un gesto molto indispettito del barman, forse irritato per lo spreco: “Ma se po' sapè, 'o vuo' o nunn'o vuo'?

Da domani, infatti, dovrà cambiare bar...

Nella sala d'attesa, lei sta di fronte al ragazzo, continua a disegnare, e quando si allontana una signora lo avvicina: “
Guagliù, ma l'avete vista? Quella signora, stava disegnando proprio a voi!!!

Entrano nel vagone, la discussione continua finchè entrambi non escono, lasciando solo il ragazzo.

E naturalmente, si apre il dibattito...

Ma vuje l'avite visti, a quelli? Comm'erano strani!

'a verità, lui era così bravo, ma c'era quella che chissà che vuleva, ma 'sti giovani che vanno trovando...

Sentite, secondo me stavano facendo finta, che ne so, una specie di recita...

E perchè po'? Mah, non mi pareva...

Interviene convinto un giovane che cerca di persuadere due passeggeri perplessi: “
Guardate, secondo me era tutto vero, non stavano recitando affatto...” gli chiedo perchè ne fosse così convinto, e lui “beh, li ho osservati un po', sono un tecnico della cinematografia...

Prendo questo complimento, lo giro ai tre attori che intanto sono scomparsi nella folla, e continuo a confondermi tra la gente nella funicolare di Chiaia: qui la cornice è ancora più scenografica, i due attori sono vestiti apparentemente per uno sposalizio, scendono la scalinata e camminano per tutto il tempo con una
lentezza assoluta che già da sola provoca numerose reazioni di ogni tipo, ma soprattutto hanno una espressione completamente assente, appunto, con uno sguardo fisso che fa dire alla prima signora accanto a me “Uh marò, ma chella se sente bbuono?”, e poi via via, nel vagone:


Pensavo che fosse un matrimonio, ma chist'è 'nu funerale...

Forse è una scena... ma di cosa?

E se fosse che stanno facendo questa cosa per vedere le nostre reazioni? In questo caso, gli attori saremmo noi...

Sentite, se ci fosse una cosa da girare, se a qualcuno serve un attore, lo faccio io, a disposizione, io so' pure bravo...

Scusate, ma avete visto che non ci sta la telecamera, non ci stanno i fotografi... allora è overo! Questi veramente fanno...

Lei (Maria Mentana) esce lentissima all'aperto e si avvicina ad un lampione del Parco Margherita mentre lui (Ciro Arancini) la protegge dal sole con un ombrello, conservando una fissità assoluta. Depositano una corona di fiori con un biglietto dedicato ad uno dei martiri della Repubblica Partenopea del '99.

Mi avvicino ad una signora che sta ferma a guardare tutta la scena, ma non faccio neanche in tempo a chiederle cosa stesse accadendo, fa tutto lei: “
Guardate là. La vedete a quella? Viene ogni giorno perchè là è morto il fidanzato in un incidente, e allora lei gli porta i fiori e lo pensa sempre, che bel gesto però, eh? Oggi quando la vedete più, a gente così, qua nessuno gliene frega niente di quello che succede agli altri...

Signò, ma che state dicendo? Un incidente qua sotto? Ma scusate, comm'è, quello io abito proprio in questo palazzo, e nunn'agg'mai visto niente... Com'è possibile?

All'anima, ma non ho capito, e voi davanti a una scena così, che quella la signora tiene questa sensibilità di venire qua tutti i giorni, una scena d'amore, vi preoccupate soltanto che voi non sapete qualche cosa che è successo? Ma lo vedete com'è, la gente, signore, quella nientedimeno pensa solo a sapè che è successo e non guarda la cosa più bella... ma dove siamo arrivati...

Insomma, si sfiora la rissa. Verbale, almeno.

Continua così, per tutto il percorso, si torna a salire in collina, termina la scena ma non terminano i commenti, che seguono gli attori come in una scia verbale ed emotiva.

Alla Stazione Centrale è più importante mantenere la scena con la Parola, alla funicolare conta di più l'azione – dice Ivan Marcantoni – ma ciò che risalta è che spesso il potenziale performativo che offre Napoli spontaneamente è addirittura più forte del nostro”.

Ogni volta, depositando i fiori, cambiamo l'omaggio per uno dei martiri del '99 – così Maria Mentana -. Ieri, risalendo in funicolare, mi sono emozionata quando, dopo la scienza di una signora che, in silenzio come noi, ha insistito tanto per farmi sedere, ho avuto la percezione che qualcosa fosse accaduto davvero quando ho sentito, tutto intorno, la gente parlare di Mario Pagano...

mercoledì 9 giugno 2010

Penelope, ovvero la guerra infinita

(pubblicato su www.teatro.org)

Dopo l'anteprima al Kunsthaus Tacheles di Berlino il 5 dicembre 2009, giunge al Fringe la Penelope in Groznyj di Marco Calvani, ovvero la trasposizione del mito omerico nella Cecenia di oggi, e dire Cecenia è una garanzia di pensiero che va alla guerra, alla tortura, ad esecuzioni sommarie e corruzione diffusa: un vero terreno di conquista, per ciò che il male rappresenta in un immaginario collettivo che tuttavia, dalle nostre parti, forse è già dimentico della memoria che accomuna qualunque popolo abbia attraversato nella sua storia una simile sventura. E già questo potrebbe essere un motivo sufficiente per accogliere una memoria come questa.
Già entrando in sala si incontrano, in platea, figure che si aggirano come fantasmi, così come accadrà spesso con ingressi ed uscite che adoperano spesso lo spazio tra gli spettatori per sparire e riapparire, portando in alto e quasi trascinando perciò fisicamente sul palcoscenico le scene di ordinaria disperazione di chi ha il problema di trovare ogni giorno da mangiare, come in ogni guerra.
Fra gli altri, si alternano e si sfidano, anche come personaggi contrapposti, un Telemaco molto combattivo (“Noi sappiamo perché stiamo combattendo”), una Euriclea rassegnata alla mera sopravvivenza (“Questa è una guerra cattiva, non è come le altre, qui ognuno è contro tutti, e nessuno è con noi”) ed una splendida Elena che tenta (inutilmente) di sovvertire i ruoli di vincitori e vinti.
Ed è davvero un Caucaso che soffoca nella disperazione, quello di Calvani, nel quale i Proci hanno la faccia cinica delle figure di Autorità, quelle che mascherano i suicidi dei propri soldati con la formula “attacco cardiaco”, e pasteggiano e discutono attorno ad una tavola su cui giace una donna qualunque, svenuta, che scopriamo poi essere Penelope, deportata in un cosiddetto “punto di filtraggio temporaneo”, moderna versione di una camera di tortura nella quale subito si centra l'intera scena, per non uscirne mai più.
Questa è però anche la nota che sa di eccesso, sebbene di certo concepita appositamente con un forte senso claustrofobico: le scene dentro quello spazio, angusto quanto ineluttabile, sono rappresentate con una crudezza estrema ed una certa veridicità, anche attraverso una molteplicità di corpi quasi sempre nudi e straziati non comune, e con un susseguirsi di movimenti striscianti che probabilmente tendono ad elevare il senso di pesantezza e di angoscia.
L'accostamento con Pasolini, evocato nella presentazione del lavoro, può stare forse nel senso del macello, dell'orribilmente e lucidamente sporco, e della Divina Ingiustizia che colpisce i vinti, anche se Penelope, archetipo di donna prima che di moglie, e di mortale prima che di tessitrice, vive rinchiusa ma non definitivamente vinta nella dignità, grazie alla sua possibilità di esistere nonostante tutto, creandosi tale medesima possibilità “tessendo”, ovvero dando un senso al tempo, ed una continuità, un’immortalità, al tempo stesso.
Nel finale, il Boia ed i corpi esangui formano un unico balletto degno del psicosociopatico Alex di Arancia Meccanica, reso ancora più evocativo grazie alla scelta della colonna sonora: il Valzer dei fiori – la suite dallo Schiaccianoci di Cajkovskij – nella quale trionfa una follia collettiva della guerra che travolge ogni residua dignità.

lunedì 7 giugno 2010

Acrobazie e violenza: Öper Öpis e Romeo and Juliet

Nella instabilità magari si respira meglio, e molti dovrebbero imparare a trovarcisi più spesso: potrebbe rimanere questo messaggio, da un lavoro come Öper Öpis, nel quale gli acrobati, i funamboli ed i clown diretti da Zimmermann & De Perrot fanno sì che tutti gli elementi materiali perdano le loro identità spaziali.
La scena si struttura con un crescendo continuo di addizioni spaziali che riempiono anche un'ampiezza metafisica, grazie soprattutto all'assenza di punti di riferimento gravitazionali, e richiamando anche un'evoluzione dell'uomo ed una interpretazione dei gesti quotidiani che potrebbe stare a metà fra 2001 Odissea nello spazio e Tempi moderni.
La sincronia dei corpi è molto precisa, e la sapienza del gioco scenico, ottenuto con una semplicità di elementi fatta soprattutto di pannelli e base basculante, dimostra quanto un'Idea ed una Tecnica siano in grado di dire e di dare, e soprattutto di prevalere. Il dee-jay segue in diretta, spesso “scratchandole” con i suoi LP, le performance che tendono a trasformare in gioco anche piccole tragedie quotidiane, e contrapposizioni sia ideali che materiali dei corpi, come l'atletico/magro ed il potente/possente, e sia nel rapporto uomo-uomo che in quello uomo-donna, nella continua perdita di orizzonti di orientamento immediatamente riconoscibili, che rimane il motivo principale dell'intero lavoro.
Il finale è un'affascinante sospensione assoluta nello spazio, in cui le stelle si fondono con elementi di fisica e di surrealtà.

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ROM-eo and Juliet, invece, potrebbe avere la sua cartolina nel momento in cui il Teatro si apre alle spalle, ovvero quando la scena fisica letteralmente apre una porta sulla strada alle spalle del Mercadante, in piazzetta dei Francesi, facendo trovare il pubblico di fronte al vicolo, una metafora dell'ennesimo aprirsi di uno Shakespeare al tempo moderno, ed è così che Capuleti e Montecchi si ritrovano a vivere tra i cosiddetti extracomunitari di un qualunque sobborgo metropolitano dei giorni nostri.

Il Teatro è nudo, e le pareti del retro-scena col suo cemento privo di pannelli e colori, sono grigie come il senso che si vuole dare all'atmosfera ed agli accadimenti.
E', però, un grigio che pervade un po' troppo, e penetra anche in una incertezza generale ed in dialoghi poco comprensibili, fatto salvo un Mercuzio/punk sempre molto efficace, al contrario del Benvolio/musulmano, per non dire di Tebaldo.
Via via si perde inoltre un po' tutto il senso post-moderno, come se i personaggi rimanessero ad inseguire un testo classico con un certo spaesamento, anche da parte del pubblico, e con l'innesto di un doppio nudo molto esplicito, ma non so quanto utile. Molto bella, invece, la scena finale con un enorme sudario che ricopre ogni cosa, sebbene inaspettatamente priva della scena-clou del di lei suicidio.
Però, però... c'è qualcosa di molto convincente, in questi Capuleti e Montecchi, che fa risaltare bene la differenza fra la Luce (la guerra dei clan, la faida infinita) ed il Buio (nel quale è relegato l'amore tragico, un vero ossimoro impossibile da risolversi se non con la morte), ed è la sensazione di aver trovato, finalmente, la giusta dose di brutalità in una tragedia epica famosa per un amore mitico nel quale invece è stata spesso sottovalutata, appunto, quella violenza che domina molto più la storia e l'atmosfera, di quanto non faccia invece il romanticismo di cui, volontariamente o meno, Giulietta e Romeo sono stati inondati fino all'annegamento.

sabato 5 giugno 2010

Speranze in Attesa




(pubblicato su www.teatro.org)

Una signora della scrittura scende per strada fra la gente in fila, entra nell'Attesa fra sguardi pazienti ed impazienti, fra l'indugio e quella breve sospensione del tempo che si vive in una fila a teatro come alle poste, ad una biglietteria come ad una fermata di metropolitana, ed inserisce in quello spazio i suoi personaggi come se fossero semplici appartenenti a quella stessa fila, crea qualche minuto di sovrapposizione della letteratura alla realtà tale che molti forse restano col dubbio che quei personaggi non siano tali, ma compartecipi della stessa Attesa.
Quella signora è Sandra Petrignani, madre napoletana e padre romano, una vita trascorsa ad affrontare ogni possibile genere letterario, autrice di Grandi speranze, una delle rappresentazioni a sorpresa che saranno "messe in scena" senza altra scena che la gente fra cui saranno amalgamati gli attori.
La incontriamo pochi giorni prima di questo esperimento del Teatro Festival, sentendoci quasi come in attesa dell'attesa, e proviamo a tracciare il percorso che l'ha portata ad immaginare la sua scena. 

Quale rapporto ha con la scrittura drammaturgica, e come la colloca rispetto alla narrativa?
Mi piace molto e in qualche modo mi rilassa. Dal punto di vista della costruzione per me la narrativa equivale a un grossa architettura, mentre la scrittura drammaturgica richiede l’invenzione di un “interno”. Mi diverte anche molto. E mi costringe a un più diretto confronto con la realtà quotidiana. 

Il senso dell'Attesa: quali potenzialità nasconde questa sensazione, e come l'affronta nella sua scrittura?
Ho legato l’idea al luogo che ho scelto: il foyer di un teatro, quel tempo morto che passa fra il nostro arrivo in teatro e l’inizio della rappresentazione. Nella mia pièce, per uno scherzo della vita, il tempo morto si trasforma in un tempo decisivo che mette il protagonista ai ferri corti col passato e con l’immediato futuro. Incontra il grande amore dei suoi vent’anni che, in un momento cruciale della sua giovinezza, l’aveva lasciato solo a scommettere sulla sua vocazione umanitaria prima condivisa. I due destini si confrontano di nuovo in quel foyer e fanno conti impossibili col presente sotto la minaccia di un terzo personaggio, la moglie di lui, inevitabilmente gelosa e ignara di cosa realmente stia accadendo. Il tutto sotto un’altra comune minaccia: l’attesa è breve e bisognerà decidere rapidamente perché lo spettacolo sta per cominciare. 

Quale relazione pensa che sia possibile tracciare tra Napoli e l'Attesa?
A me Napoli dà l’impressione di una città dove nessuno aspetta niente. Da un lato vanno tutti tremendamente di fretta, dall’altro la gente si porta addosso una specie di rassegnazione al ritardo, all’ostacolo, all’imprevisto fastidioso. Attendere è una necessità e una maledizione di cui Napoli sembra non voler tener conto. 

"Grandi Speranze" potrebbe ricordare una frase di Guido Gozzano - non amo che le rose che non colsi - : ferma il tempo nel momento in cui arriva la tentazione di riprendere i fili della propria vita nel punto in cui crediamo che ci sia stata la cesura determinante, quella alla quale imputare le nostre insoddisfazioni dell'oggi... cosa succede in quell’istante?
Succede lo scacco. Non tenere conto del presente è impraticabile. Il presente è l’unica realtà. E succede, sempre e comunque, che le grandi attese o speranze o illusioni della giovinezza non siano mantenute, in un modo o nell’altro, persino quando una vita benevola ci vizia facendoci vincere le nostre scommesse. Qualsiasi scelta facciamo, anche se si rivela giusta, ci lascia l’amaro di quel che non abbiamo scelto e un inesorabile, sardonico punto di domanda: cosa sarebbe stato di noi se avessimo percorso l’altra strada? Qui, poi, le cose si complicano perché i due ex innamorati avevano condiviso un grande sogno: partire insieme per Calcutta come volontari di Madre Teresa. Lei, che allora aveva rinunciato, può ancora illudersi di dare una svolta in quel senso alla sua vita. Lui, che è partito e tornato sconfitto, è molto più cauto. 

Rispetto alla tentazione di tornare indietro, quanto conta invece il coraggio di ritrovarsi nella strada percorsa, di cogliere se stessi per come si è cambiati?
Non c’è alternativa. Indietro non si torna. Le sliding-doors della vita si sono aperte e richiuse una volta per tutte. La frase “imparare dai propri errori” non ha molto senso: tanto non ci sarà mai riproposta una situazione assolutamente analoga a quella precedente. 

La figura della donna sembra essere prevalente per quella che sembra un'azione coraggiosa ed attiva nel proporre un cambiamento all'uomo, ma in realtà ciò che davvero prevale, alla fine, non è piuttosto la figura maschile?
E non capita così nella realtà? Le donne sanno illudersi di più, si raccontano favole belle e ci credono profondamente. Forse vivono meglio, grazie a questo, sono più vivaci, reattive, coraggiose. Non è raro che riescano a contagiare i maschi coinvolgendoli nei loro sogni, ma se prevale il punto di vista maschile, alla fine, è perché è più realistico e smagato. I sogni vanno sognati, ma in misura proporzionale alla possibilità di realizzarli. 

I personaggi sono dei quarantenni di oggi, degli "ex-trentenni": esiste una particolare forma di attesa che ha colpito questa generazione piuttosto che un'altra, oppure specifica della coppia per come viene intesa nei giorni nostri?
Almeno gli ex trentenni di oggi, e quelli ancora più giovani, non si sono alimentati col sogno di cambiare il mondo! Le batoste degli ex sessantottini sono state molto più grosse di quelle cui sono destinati gli under quarantenni contemporanei. Il mondo potrebbero persino cambiarlo sul serio, pressati come sono dai giganteschi problemi non più rimandabili. Mi danno l’impressione di non aspettare nessun Godot, né tanto meno nessun Messia salvifico, di affrontare le cose con più concretezza e urgenza. Non sono immobili e apatici come li dipingono spesso i media. Sono in allerta.

Immagini il Suo pubblico fatto di persone in attesa -non sappiamo né dove né quando-, fra le quali si manifesta un'azione drammaturgica inconsapevole: sembra di parlare né più, né meno di una scena come le tante che a Napoli è possibile vivere per strada quotidianamente...
E’ quello che ho fatto scrivendo Grandi speranze: ho immaginato queste tre persone che si muovono e si spiano in mezzo alla folla che aspetta di entrare in platea. Gente che si annoia e quindi diventa ricettiva a qualsiasi stranezza, anche minima, succeda intorno. Siamo a Napoli, non a Stoccolma, e così ho fiducia che la gente s’impicci. Gente che apre le orecchie per spiare e decifrare un litigio coniugale, una storia d’amore forse rinascente, forse perduta per sempre.