sabato 26 giugno 2010

Fermarsi a Piazza Garibaldi, ed osservare

(pubblicato su www.teatro.org)


Fermare lo sguardo disattento su tutto ciò che scorre quotidianamente senza quasi più senso, nel riprodursi delle mille ripetizioni di scene ormai non più percettibili a causa della deprivazione di interesse cui le abbiamo relegate: come portare su un palcoscenico questo materiale, conservando un canone che lo nobiliti e gli conferisca l’interesse dell’osservazione? Deve essere stata questa una delle domande che si è posta la compagnia Maniphesta Teatro, avviando il lavoro necessario a portare in scena Napoli Piazza Garibaldi.
Il primo aspetto che risalta, perciò, è quello che non si vede, ciò che sta dietro il palcoscenico, ed è il lavoro di ricerca e produzione, che per mesi ha significato calarsi nel rumore, nella folla, nella massa di azioni e movimenti a prima vista inutili e privi di importanza, fra clandestini, passanti, traffico, lavori perenni in corso, commercianti abusivi e non, etnie, piccole e grandi lotte per la sopravvivenza, oscenità, violenza, episodi di misericordia e sorprendenti azioni di fratellanza: non sarà difficile per nessuno riconoscere in tutto questo la vera Piazza Garibaldi, ma la particolarità è quella di averla saputa riprodurre ed interpretare attraverso una ininterrotta serie di caratterizzazioni che hanno trovato toni interessanti per l’uso della voce e la suggestione delle scene, supportati da rilievi fonici e filmati in stile neorealista che accompagnano la narrazione e formano un contrasto acceso con l’esplosione scenica dei colori: una efficace immersione nella realtà che risponde alla domanda iniziale, e conferisce valore alle mille occasioni di esplorare personaggi e vicende che altrimenti andrebbero perse (come avviene infatti nella realtà), in una ricostruzione cui avrebbe giovato, a nostro parere, anche qualche intreccio narrativo persistente.
La regia di Giorgia Palombi ha lasciato una discreta percentuale di autonomia al lavoro di personalizzazione degli attori sui loro non-protagonisti, che si sono avvicendati con ritmi e tempi a volte quasi ossessivi, segno di concentrazione e convinzione su un progetto a cui hanno saputo conferire gli elementi che la loro poetica del caos richiedeva.

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