Bisogna sempre accogliere con grande favore un’operazione con cui si mette in scena una storia che rispetta con grande fedeltà quella originale: chi ha letto The Strange Case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde di Robert Louis Stevenson sa cosa intendo, e cioè che la quasi totalità della produzione soprattutto cinematografica, oltretutto vastissima, non ha mai tenuto in troppa considerazione il testo, cercando di esso soprattutto gli aspetti che riteneva più “spettacolari”; è una scelta legittima, ma induce ad un grande respiro di approvazione quando arriva appunto una piece come questo Frankenstein di Gustavo Tambascio (il curatore de La Partenope della edizione 2009 del Festival) visto nell’ex birreria di Miano.

Non è corretto, però, dire soltanto “accade”, perché ci sono due diversi livelli che sono stati concepiti da Tambascio: oltre all’evoluzione degli avvenimenti, sul palcoscenico si susseguono personaggi che spiegano parti del testo e ne dibattono, perfino disputandosene la paternità semantica e filosofica con accanimento ed in presenza della stessa Shelley, una trovata che lascia perplessi perché sia lei stessa, sia i disputanti (un anarchico-materialista storico, un conservatore, una femminista e il dottor Polidori) hanno un effetto didascalico che sembra riprodurre soltanto il reading di un circolo progressista, più che intersecarsi con l’azione.
Questo espediente è utile però per citare con una certa precisione Jacques Vaucanson e Nicolas le Cat, Milton, Condillac, Godwin, da Locke, Ann Radcliffe, Madame de Genlis e Gregory Lewis, tutti riferimenti letterari e scientifici che sul romanzo della Shelley ebbero un peso indiscusso.
Seguendo questa ispirazione autodescrittiva, anche in scena appaiono perciò non uno, ma due mostri di Frankenstein: quello estremamente evocativo della Creatura orripilante (“un uomo fatto di morte creato da un uomo che vuole sconfiggere la morte”, impersonata da Javier Botet, già una leggenda nell’horror per aver impersonato una delle creature più spaventose del genere, la Niña Medeiros Di REC: diciamo soltanto che non ha bisogno di trucco, come potrete constatare qui a lato...) e quello evoluto, parlante e filosofico che racconta al Dottor Frankenstein cosa sia stata la sua vita dopo il suo abbandono, gliela illustra, ed innesta i crimini in serie per aver scoperto il differenziale fra le sue buone ispirazioni e la realtà che lo circonda e lo discrimina (“Vedo felicità ovunque, e solo io ne sono escluso…”).
Le scenografie di Ricardo Sánchez Cuerda non risparmiano trovate in serie, ed attingono a numerose e diverse ispirazioni, girando spesso intorno al tema avventuroso del viaggio in nave verso quel Polo Nord in cui comincia e termina l’ambientazione, una eredità che viene direttamente dall’influenza che sulla Shelley ebbe la tanto amata Ballata del vecchio marinaio di Samuel Taylor Coleridge, e la crudità e la potenza delle evocazioni e delle prove attoriali di Victor Frankenstein e delle due Creature lasciano con la suggestione che forse il Prometeo a cui si riferiva il titolo del romanzo, più ancora che il titano ribelle che rubò il fuoco dall'Olimpo per farne dono al genere umano, sia quello delle Metamorfosi di Ovidio, in cui egli plasmava gli esseri umani direttamente dalla creta.
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