martedì 14 settembre 2010

Finalmente le cose si muovono. Di nascosto.

Avevo sei anni quando leggevo spesso un libro dal titolo "Dimmi perché - 500 domande e risposte" (Librairie Hachette, Paris 1967 e Il Saggiatore, Milano 1968), una di quelle esperienze che se va bene risolvono dubbi atroci in una delicata fase di domande fatali, e se va male ne creano di altrettanto persistenti.
Ricordo sempre una di quelle domande in particolare, perché mi sembrò, come dire, inutilmente e dannosamente costruttrice di una nuova forma di inquietudine di cui non avevo certo bisogno… era questa: “Quando me ne vado, le cose restano al loro posto?
Wow. E chi ci aveva pensato.
C’era anche una figura, in cui un bambino guardava dalla serratura di una porta appena chiusa, come per spiare gli oggetti e scoprirne i segreti movimenti che cominciavano non appena le cose rimanevano sole.
Le cose si muovono, dunque? Che dilemma, e soprattutto che mancanza di punti di riferimento, di stabilità, non si fa così, a sei anni non dovreste mettermi questi dubbi, mi bastano i miei.
Tutto questo è tornato alla memoria in un istante, davanti ad un servizio di National Geografic su un annoso mistero che credevo fosse stato chiarito, mentre evidentemente non è ancora così: si tratta delle (ormai credo famose) pietre rotolanti. Sarebbe bello evocarle con un loro nome elettivo e secolare, nientemeno che Rolling Stones. Ecco la storia.
Dagli anni ’40 gli scienziati cercano di spiegarsi perché e come, nel Death Valley National Park (il Parco della Valle della Morte), nel deserto del Mojave tra la California ed il Nevada (un luogo oltretutto splendido che ricordo sempre con un sorriso), vengono rinvenute alcune pietre che si lasciano dietro una vera e propria scia del proprio “passaggio”. Del cammino che compiono senza che nessun motivo evidente le abbia fisicamente "spinte".
Nel dettaglio, ci troviamo nel cosiddetto Racetrack (la "pista da corsa”), ovvero il letto di un lago asciutto lungo 5 kilometri, un luogo nel quale, nonostante sia stata calcolata una velocità di spostamento delle pietre pari a quella del cammino di un uomo, nessuno le ha mai viste muoversi, ed ogni studio e ricerca finora ha solo saputo escludere alcune cause ipotizzate, come la gravità o i terremoti. Qui troverete alcuni reportage di studiosi ed escursionisti che ne seguono le tracce inutilmente da decenni.
La tesi più recente, del Goddard Space Flight Center della NASA, sembra favorire l’idea che le pietre possano scivolare su piccoli collari di ghiaccio, ma non è che l’ultima, e certamente assai discutibile ipotesi, e finora sono state tutte confutate e respinte. Insomma, è un mistero. Le pietre si muovono, lasciano la scia, sembrano percorrere kilometri e sempre soltanto quando nessuno le vede. Esattamente come la fatidica, inquietante domanda che si faceva il bambino che guardava dal buco della serratura.

Che poesia. Una poesia degli elementi, un trionfo dell’immaginazione e delle anime inconsapevolmente scintoiste che nessuno più conosce o ricorda, quando qualcuno dei nostri antenati era in grado di vivere allo stesso ritmo della natura e di congiungersi con il suo suono ora inascoltato. Un’occasione per pensieri divertiti sull’impossibilità di penetrare tutti i segreti. Insomma, una sorgente infinita di significati da sfruttare prima che qualcuno ne intuisca l’equazione che spieghi quei tracciati.
Io spero con tutta la mia ragione che nessuno, ancora per generazioni e generazioni, scoprirà mai perché le pietre rotolanti si muovano, e che queste Rolling Stones continuino a riecheggare i suoni dell’universo. Sarebbe una bella occasione, se per altri decenni potessimo chiederci ancora, e non sapessimo rispondere con assoluta certezza ad un bambino, se quando non le vediamo, le cose restano al loro posto.

mercoledì 1 settembre 2010

Ho fatto bene. Niente, ma bene.

Bei tempi, quelli in cui Alberto Tomba ci ricordava che "il cinquecentenario colombiano è una delle cose che capitano solo qualche volta all'anno", Gustav Thoeni ringraziava ammettendo di “essere contento di essere arrivato uno” e Luigi Garzja, difensore degli anni '80, sosteneva di essere “completamente d'accordo a metà col Mister”.
Non è una facile intrusione nel mare magnum delle citazioni di frasi celebri o meno in cui errori e/o ignoranza, intorno al mondo sportivo, hanno avuto un loro tradizionale luogo di sfogo, ma un pensiero quasi nostalgico, rispetto al mutamento del linguaggio cosiddetto sportivo avvenuto oggi.
Gli amanti del genere strafalcioni/nonsense troveranno qui un florilegio di settore per avere un quadro più completo; ciò che io trovo rilevante è che si ferma appunto a circa 20 anni fa: oggi una simile antologia sarebbe impossibile.
Mi piacerebbe parlare del linguaggio calcistico per come lo intendeva Pasolini nei suoi Saggi sulla letteratura e sull'arte e con la doppia articolazione dei fonemi e dei... podemi, ma il tema introdotto non assurge a tanto, e dovrò costringermi a circoscrivere qualche tentativo di fuga in contropiede. A proposito di contropiede, ritorniamo in argomento ricordando che una parola così nobile e significativa, piena di evocazioni sia storiche che emotive, un certo Sig. Arrigo Sacchi ha deciso ad esempio che deve cancellarsi dal vocabolario: oggi purtroppo, si dice ripartenza. E' obbligatorio.
Ho una teoria.
In confronto alla assoluta inutilità, insipienza, ovvietà, inconsistenza e vacuità delle dichiarazioni e delle ipertrofiche interviste (dei calciatori sopra tutti, ubi maior...) senza le quali sembra che molti giornali non possano resistere, la differenza con il passato sta nella media: sembra essersi elevata, e lo è, ma solo da un punto di vista strettamente grammaticale, ovvero ci sono meno orrori da matitona blu, magari qualche consecutio indovinata in più (ovvio, meno si dice meno si sbaglia), eppure questo livellamento, che a prima vista sembrerebbe verso l'alto, seppure di un mezzo gradino, si potrebbe anche vedere da una prospettiva diversa, e cioè di nuovo verso il basso.
Il motivo è che di tale appiattimento, questo fenomeno ha il cento per cento del suo lato peggiore: la cancellazione sistematica di qualsivoglia espressione che non rientri nel canone predefinito, e questo mi fa pensare quasi ad una vera e propria scuola.
Ecco la mia teoria: è come se ad un certo punto, per necessità legate probabilmente alla sempre maggior frequenza di apparizioni davanti ai mass media, si fosse pensato a creare uno stile ed un pensiero (ops, scusate la parola grossa...) unico, diciamo meglio una espressione unica o al massimo due o tre, e chi l'ha fatto deve aver adoperato (per agevolarne l'insegnamento) una tale scarsità di lemmi, espressioni e varianti, che sembra di ascoltare ormai una sola persona, da qualunque squadra provenga e qualunque risultato abbia ottenuto sul campo, poiché senza possibilità di errore dirà le stesse cose, ed oggi anche con le stesse, identiche parole.
Forse sta qui il miglioramento concepito ed ottenuto da questo impegno? Nella tecnica di mnemonizzazione di parole e frasi fatte imposta da una telecamera? Certo, è stato raggiunto lo scopo, se come credo lo sia stato, uno scopo, per il quale immagino anche che ci sia qualche specifica forma di indottrinamento “istituzionale”, tale è la precisione del risultato.
Sta di fatto che quel senso di nostalgia per chi “arrivava uno” negli anni '60 non è un gusto retrò, ma una vera resistenza di fronte ad un ulteriore forma di appiattimento e spersonalizzazione che sembra ormai chiaro appartenere all'epoca, ovvero meglio sentire Altobelli che riteneva l'Inter “un carro armato a vele spiegate” piuttosto che una qualunque dichiarazione di oggi che sembra uscita da un sorteggio di 5 o 6 standard descritte su un manualetto (esisterà?) uguale per tutti.
Oltretutto, mi conforta nell'ipotesi di qualche oscura longa manus il fatto che dal calcio questo fenomeno ormai si è allargato fino ad inglobare quasi ogni altro sport, tanto che se fino a poco fa i cosiddetti sport minori potevano sembrare più vicini o come di dice, genuini, oggi hanno ceduto il passo a qualcosa che chissà, forse nella loro visione li avvicina di più ad una globalizzazione cui necessariamente, chissà perchè, aspirare.
C'è stato un momento, in particolare, in cui avvertii un fastidio che andava ben oltre il consueto, nel momento in cui in brevissimo tempo si diffuse l'orrendo modo di dire “fare bene”: si, proprio così, senza un complemento oggetto ma con una sua chiusura assolutista così evidente da sembrare un codice autoreferenziale dentro il quale fosse compreso qualunque significato.
Ovviamente, come sempre, invece, non significa completamente niente. E contemporaneamente, appunto, eliminando ogni problema all'intervistato nel trovare la parola giusta, lo solleva dall'immane sforzo di dover perfino dire qualcosa. È così funzionale e preciso, che non posso credere ad una mera diffusione spontanea. La mia teoria continua a convincermi.
Sarà stato un conclave di pubblicitari, che come nel Concilio di Nicea si saranno riuniti per definire il Codice del Fare Bene, o piuttosto un service di una squadra che poi ha fondato una scuola alla quale hanno attinto tutti?
Ed è un benefit offerto dalle società, oppure una formazione di competenza degli atleti?
Ad avere almeno un indirizzo, si potrebbe spedire a questi sommi educatori quantomeno un buon dizionario dei sinonimi e dei contrari, e chiedere ad esempio perché hanno deciso che “giocare” è una parola debellata e sostituita con “fare”...
Ma a chi inoltrare la domanda, poi, sapendo che la risposta sarebbe solo una irritante speranza di fare bene?
Per fortuna possiamo sempre sostenere anche noi che la palla è rotonda, ma solo con il significato che dava Eduardo Galeano: "Per quanto i tecnocrati lo programmino perfino nei minimi dettagli, per quanto i potenti lo manipolino, il calcio continua a voler essere l'arte dell'imprevisto".