giovedì 28 ottobre 2010

La Paura, l'Urlo, e forse una risata.

(pubblicato su www.teatro.org)

E' un urlo, ad aprire la nuova stagione del teatro San Ferdinando.
È l'urlo di Elena Bucci e del suo «Regina la paura», prodotto dallo Stabile di Napoli e Le Belle Bandiere, in scena con Marco Sgrosso, Maurizio Cardillo, Nicoletta Fabbri, Filippo Pagotto e Daniela Alfonso.
Se la Paura comandasse chiuderebbe molti teatri e specialmente un teatro come il San Ferdinando, incastrato nel cuore di una città che urla e digerisce o rivela i cambiamenti con anni di anticipo rispetto alle altre. Desidererebbe forse il Regno condividere al buio il mistero, la risata o la commozione? Eh no, anzi. Ma poiché ancora La Paura non comanda, Napoli e il San Ferdinando sono il luogo dove intavolare un duello.
Vista dal palcoscenico, c'è differenza di senso, nella paura: in teatro è una compagna fidata nell'atmosfera di sfida degli attori e degli autori, mentre nel mondo conduce alla solitudine, fa soffrire e rinunciare, dileguare la curiosità e rende futile il linguaggio.
Una scenografia con teste che si sollevano alternandosi dietro a pannelli bianchi serve a rappresentare le varie paure di cui soffriamo ogni giorno, come invasioni barbariche che abitano stabilmente la nostra coscienza: la paura che l'arte ed antiche passioni come leggere e studiare, non serviranno più a niente, e che i musicisti non accorderanno più i loro strumenti, tutto avvolto in un'atmosfera surreale di chi si accosta ai passanti per chiedere “Scusi, lei ha la speranza?”, ma nessuna risposta arriva dalla gente, distratta ed infastidita.
Si, perchè c'è un altro livello nella paura rappresentabile, ed è forse il peggiore, quello che sta da questo lato della scena, quello di tutti noi che rappresentiamo quei passanti, e che fra giornali, notizie ed orrore quotidiano, rischiamo la beata assuefazione, ed il raggiungimento dell'ultimo stadio, forse la peggiore delle paure: “Ho paura che mi piaccia”.

Elena Bucci ed i suoi attori agitano con grande personalità e presenza questi spettri, anche fra linguaggi improbabili ma comprensibili, ombre angosciose e movimenti spesso fatti di scatti nervosi, componendo un quadro emotivo sempre forte ed all'altezza di un tema ardito, anche quando, dopo un inizio molto ritmato, con l'ingresso impersonato della bibliotecaria E. Grey, tutto si appesantisce ed incupisce, in un crescendo fisico di ombre e toni fino all'apparizione, anzi alla sua metamorfosi in Regina, l'ombra che si proietta più in alto di tutte e che si siede anche su una sedia che diventa trono.

Forse alla fine la chiave di volta poteva stare proprio nel taglio ironico e perfino divertente della parte iniziale, quello che ispira anche un riso istintivo, suggerendo di renderci conto di quanto siano ridicole molte delle nostre paure rispetto ad altre di cui davvero dovremmo tener conto, e di quanto siamo comici noi a farcene assoggettare, fino a rovinarci quotidianamente la vita. Se poteva essere questa, però, bisogna dire che è andata via via affievolendosi fino a scomparire, mentre sarebbe potuta essere un'occasione drammaturgica da sfruttare di più, considerato il suo potenziale.

Non manca invece, nel finale, la maledizione autoinferta per gli orrori inconsapevoli di cui ci macchiamo ma che in realtà sono loro ad usarci, come quelli che si consumano nella Famiglia, luogo di angosce quotidiane del tipo più duraturo, interpunto da elementi esterni di voci fuori campo, fra le quali va segnalato un passaggio della famosa intervista alla RAI del 1971, a lungo censurata, in cui Pasolini ricordava che il grande pessimismo implica sempre grande ottimismo, e viceversa.
E non manca nemmeno, in fondo, una speranza, se non una leggera morale, nella considerazione di aver sviluppato forse (già?) una fragile capacità di dire di no. Mentre per dire sì, ci vuole pazienza...: “Bisogna vivere al meglio che si può, al meglio possibile, sperando bisogna vivere al meglio che si può, al meglio possibile, sperando di farsi cogliere dalla morte ancora vivi."


domenica 24 ottobre 2010

Amleto, perso nel XXI secolo, ritrovato nel Gargano.


(pubblicato su www.teatro.org)

"Gertrude, guarda Amleto, fa finta di piangere!"
Salutiamo con le sue prime parole, questo ritorno di Alfonso Santagata a Napoli dopo cinque anni, e dopo che il suo ingegno inquieto ne ha spesi tanti altri in un teatro di ricerca grazie al quale oggi si ripropone con questo piccolo gioiello, Farsa madri - Amlèt tu sùit.
Santagata rilegge alcuni elementi dell'Amleto, mettendoci di fronte a Claudio e Gertrude (una Rossana Gay correttamente eccessiva), due individui moderni e psichicamente disturbati che credendo di essere la madre e lo zio di Amleto, hanno anche ucciso il marito di lei nonché padre di lui, investendolo con un'automobile.
L'idea parte da un paradosso, laddove un fatto riscontrato nella cronaca nera rispondeva con strana precisione alla vicenda di Amleto, facendo così traslare la narrazione scespiriana sulle maschere urbane di oggi attraverso la farsa, e con un paradosso che tocca la realtà attraverso la macchinazione dell'eccessività, con quel senso del teatro immediato che è timbro proprio dell'attore-regista pugliese, cui forse si sarebbe potuto solo chiedere una dose ancora maggiore di quella cupa comicità che rappresentava uno stilema preciso ed originale.
Amleto (Tommaso Garganti) si aggira con la bara del padre, diademata con un'icona di un San Pio anch'essa evocatrice di un certo Gargano, perchè non vuole sotterrarlo ma tenerlo con sé, e la sua apparizione è costantemente accompagnata dalla bella ed efficace idea di una doppia voce maschile e femminile, insieme, a sovrapporsi, che simbolicamente determinano l'essenza stessa della sua storica ambiguità.
Non siamo di fronte ad una operazione drammaturgica su Shakespeare, quanto ad un prestito narrativo in quanto adattato alla realtà, sul cui piano scendiamo volentieri e ne accettiamo la provocazione, rilanciandola e pensando con grande intensità a cosa ne sarebbe di quella che potrebbe essere la più grande storia narrata della letteratura, se fosse vissuta oggi nel Gargano, dentro qualche miseria e squallore del nostro tempo, e senza l'aura mitica e storica che appartiene all'originale.
Allora la domanda è: se al posto di una imponente sala affrescata del castello di Helsingør, lo stesso misfatto si consumasse in un cesso squallido non lontano dal golfo di Manfredonia, con personaggi che si chiamano egualmente Gertrude e Claudio, cosa cambierebbe?
Posta anche la differenza nel particolare per cui qui anche Gertrude è complice, correa di tanto crimine, i due sembrano allora riprodurre una di quelle situazioni da noir di provincia che oggi vengono purtroppo sovraeeposte ossessivamente nelle cronache da "intrattenimento nero" che pescano troppo facilmente nei più o meno desolati e disadorni interni di famiglia-qualunque.
Nella scena, in evidenza restano sempre elementi essenziali che lasciano l'ambiente giustamente privo di purezza, e con trovate fra cui spicca una luna suggestiva che alterna due colori, il rosso ed il verde, la quale calandosi nei suoi colori originali ispira una pagina poetica come quella che Santagata regala al pubblico, con un gioco a metà fra l'incanto e la follia: ”...allungo la mano per prenderla finchè mi accorgo che si tratta della luna mancante, da far rotolare e cadere, poi l'ho presa e rispedita a casa sua, ho aspettato dodici giorni e sei ore precise, ho allungato la mano quando la luna era perfetta, precisa e bella, piena, l'ho portata giù per farla rotolare, ma questa cadeva e si accartocciava, finchè dopo un po' sento tantissime, tantissime persone che cominciano ad accusarmi -la luna l'ha uccisa lui, la luna l'ha uccisa lui!- ed allora io me ne sono scappato a casa con la luna, l'ho messa sotto al cuscino, e poi il cuscino diventava caldo, i miei pensieri cominciavano a litigare, mi sono alzato e la luna è uscita da sotto al cuscino, ha preso la finestra, è uscita ed è tornata a casa sua, perfetta e bella..."

sabato 23 ottobre 2010

La Scarlatti apre con l'ultimo Mozart


(pubblicato su www.teatro.org)

L'Associazione Alessandro Scarlatti ha inaugurato la stagione concertistica 2010/2011 puntando in maniera diretta su due vette assolute come la Sinfonia n. 40 in sol minore KV 550 ed il Requiem in re minore KV 626 di Wolfgang Amadeus Mozart.
Uno sguardo al cartellone degli appuntamenti consente di apprezzare un insieme di nomi di rilievo internazionale, idee originali e proposte di valorizzazione del talento locale: oltre all'inaugurazione, lo sguardo sulla musica sacra continuerà con l’Oratorio di Pasqua BWV249 di Bach eseguito dall’Orchestra del XVIII secolo diretta da Frans Bruggen, con i Turchini di Antonio Florio per le attese Lezioni della Settimana Santa di Gaetano Veneziano e Cristoforo Caresana, e con il concerto natalizio con la Missa Criolla e Navidad Nuestra di Ariel Ramirez, per orchestra e coro di giovani argentini.
Leggiamo anche di appuntamenti d'eccezione, primo fra tutti il ritorno di Maurizio Pollini e delle sue ultime tre Sonate di Beethoven al San Carlo; ma al pianoforte si esibirà anche Roberto Cominati con il primo di due concerti dedicati all’esecuzione integrale delle musiche per pianoforte di Maurice Ravel, e Yuja Wang, ventiduenne cinese con un repertorio da non perdere di Chopin, autore che verrà proposto anche da Roberto Prosseda.
E poi ancora la fusion fra Jazz e Barocco di Enrico Pieranunzi, Paolo Fresu, il Turtle Island Quartet, le Serate di Musica d’Insieme con i Zukerman Chamber Players, Sergej Krilov e Bruno Canino nella “Sonata a Kreutzer” di Beethoven... ma andrebbe letto tutto con più attenzione, e pertanto invito a scoprirne tutte le note visitando questa pagina.

Lo scorso 20 ottobre a Castel Sant’Elmo, dunque, l'inaugurazione con la musica mozartiana, accolta con un tutto esaurito e file al botteghino non facili a vedersi negli ultimi tempi, è giunta attraverso l’Orchestra degli Champs-Elysées diretta da Philippe Herreweghe, oltre al Coro Collegium Vocale Ghent e l'Accademia Chigiana di Siena, e con l'immensa portata spirituale della Sinfonia n. 40 in Sol minore, completata il 25 luglio del 1788 nella nuova casa alla periferia di Vienna.
La tonalità del Sol minore già in sé significava per Mozart, in quel momento, la scelta del timbro di una passione affannata, se non disperata, eppure, come naturalmente ci si poteva aspettare, le facili intemperanze dell'immaginazione qui rimasero limitate grazie ad una perfezione compositiva che trova il modo ineccepibile per spaziare lungo il più ampio panorama dello spirito, partendo dalla lotta per arrivare fino alla rassegnazione.
C'è un gioco di contrasti drammatici, di inquietudine e di tensione, di contrapposizione, a scandire ardite modulazioni che rendono la Sinfonia difficile, nella sua somma bellezza, e tale per cui di volta in volta per essa sono state scomodate le interpretazioni più diverse, dalla ”aleggiante grazia greca” (R. Schumann) ai segni del “demonismo” di una critica più moderna, forse anche troppo.
Di certo, si tratta della più fatalistica espressività di quella forma particolare di pessimismo e di rassegnazione spesso tranquilla, di malinconia inspiegabile e di divina tristezza che Wolfgang, negli ultimi anni della sua vita, trovò modo di infondere nelle scritture più significative, chiarita anche dalla scelta dell'ultimo Tempo, nel quale la tensione sofferente aumenta, anziché venire dissipata, come sarebbe stato invece formalmente lecito attendersi.
Di tutta questa complessità, Philippe Herreweghe è sembrato voler cogliere soprattutto il lato inquieto, teso, non sofisticato e con cadenze molto decise e staccate, suoni decisi e passaggi strumentali di personalità fortemente riconoscibile che, soprattutto nel primo movimento, prevalendo sull'insieme, rinunciano forse ad un'idea come quella che la tradizione vuole che si trasfonda nell'onda avvolgente e melanconica dello spirito che aleggiava in quella casa viennese fa il 17 giungo ed il 25 luglio del 1788.

Sul Requiem KV626 (Vienna, agosto-dicembre 1791), va spesa una parola storicizzata, chiarendo anzitutto che nonostante l'aurea della leggenda che avvolge l'ideazione e la composizione del Requiem, argomento su cui sono stati dedicati inchiostro e pellicole cinematografiche in quantità, la realtà potrebbe essere molto meno fantasiosa, e con la presenza di Franz Anton Leitgeb come intermediario (anzichè il “messaggero inquietante” della leggenda), presentatosi alla porta di Mozart per conto del conte Franz von Walsegg, dilettante della composizione che richiedeva una messa funebre per la moglie prematuramente scomparsa a soli 20 anni.
Addirittura, l'intenzione iniziale sarebbe stata di farla passare per opera sua, abituato com'era a pagare musicisti ed editori a tale scopo, e di farla eseguire nel suo castello da un orchestra composta di familiari e servitù. Un particolare che sembra avvalorato dalla circostanza che Constance, dopo la sua morte, si affannò alla ricerca di qualcuno che fosse in grado di completare l'opera (trovandolo poi, come si sa, in Sussmayer) per paura che von Walsegg rifiutasse un'opera incompleta.

La sommità del Requiem, una critica più che copiosa, il richiamo naturale al senso stesso più elevato di ideali di amore, soavità, commozione e pietas, da soli basterebbero a non doverne spendere molte parole: non un solo effetto gratuito, non un momento che faccia ombra su uno Spirito che non è impaurito affatto dal Giudizio Divino, né drammatizzato, quanto piuttosto, anche qui, rassegnato dolcemente nella malinconia delle sue parti migliori, ovvero quelle liriche quanto elegiache, fino al punto che nel Dies Irae si getta uno sguardo sull'aldilà non terrorizzato, ma prodromico rispetto alla degna accettazione del dramma dell'uomo.
Il Coro Collegium Vocale Gent e Accademia Chigiana Siena hanno parlato appunto questa lingua, fatta di armonia e di linee estremamente controllate, nelle quali questo particolare tipo di Spirito ha potuto trovare un suo agio.

mercoledì 13 ottobre 2010

Ciao, chi sei?

Il valore di una persona a volte è inversamente proporzionale al modo in cui si rappresenta e si fa percepire dagli altri, ed il modo in cui ci rivolgiamo agli altri dice molte cose interessanti, sulle differenze di abitudini ed attitudini con le quali si matura un senso del rispetto e della considerazione interpersonale.

In Italia ossequiamo troppo il senso dello status e dell'autorità, e questo va a discapito della comunicazione; diamo il Lei ormai a tutti, e se eccezioni vengono fatte per il Voi, bisogna andarle a trovare o in radici desuete di rispetto familiare (quanti ricordano che i nostri genitori davano del voi ai loro?), oppure scelte tradizionali, spesso al sud, in territori in cui un certo senso di rispetto veniva esteso in maniera molto più orizzontale rispetto a quanto non avvenisse al nord.
Ma cos'è questo Lei, così invadente al punto da farci quasi scusare, quando sentiamo o ci scappa di dare del tu?

Vassily Kandinsky, Linea trasversale, olio su tela, 1923,
Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen, Dusseldorf
Me lo sono chiesto da amante convinto, fautore ed abituale consumatore del “tu”, che trovo adeguato più spesso di quanto non ne sia invalso l'uso.
Mettiamo da parte la volgarità di quando si dà del tu al cameriere ed alla commessa, poiché sono questioni di stile perfino banali, e nemmeno varcano la soglia di una sorta di discriminazione/sfogo latente, oppure l'eccesso di confidenza di un comune sentire infastidito e senza grande valore analitico.

La questione di cui vale parlare è che nella nostra società, il tu viene “concesso”: dall'adulto all'interlocutore molto più giovane, nel rapporto in cui può essere ricambiato, da chi esplicitamente lo offre o in una relazione di colleganza, ed in tal caso anche fra sconosciuti.
Viviamo all'interno di una vera gerarchia degli allocutivi, variamente erede del riconoscimento dello status, di una distanza di rispetto o dell'esigenza di solidità del comune senso dell'autorità.

Eppure, proprio in questo “tu” che sembra un istintivo quanto bistrattato modo di eccedere in confidenza ed in volgarità, e che appare a tutti così seccamente privo di quella identificazione sociale senza la quale sembra che non sapremmo vivere e posizionarci nello spazio, credo che vada invece trovato un senso di riconoscimento perfino molto più elevato, e proprio di quelle qualità che si ritengono di poter evidenziare meglio con il “lei”.
La differenza è che nel “tu”, le qualità diventano personali, mentre nel “lei” possono essere troppo facilmente oscurate, se non ricoperte e perfino giustificate unicamente, dallo status.

Noi italiani siamo particolarmente bravi a farci offuscare la vista dalla carica, sia essa autoritativa, politica, ecclesiastica, professionale e non so che altro: il titolo e la targhetta alla porta e sulla scrivania, quando stiamo dal lato di quelli seduti dietro, ci gonfiano di una supponenza ampia quanto quel titolo e la posizione geospaziale relativa che automaticamente conferisce, mentre quando siamo dal lato di quelli che stanno davanti alla porta, prima di bussare, ci rimpicciolisce fino a comprimere un ego che non vede l'ora di esplodere, assoggettandoci ad una invidia latente ed alla sottomissione istintiva di fronte a quella targa.
Questo forse spiega l'importanza di un “lei” abusato, e di conseguenza anche quanto lo stesso sottomesso ci tenga, perché altro non fa che desiderare di trovarsi a parti invertite, e di gonfiare il suo spazio vuoto, un giorno, tanto da guadagnarsi quel “lei”.

Di fronte a questo meccanismo, il significato del “tu” cresce di rispetto e soprattutto di considerazione reale al crescere della vera autorevolezza e del valore dell'interlocutore, perché, semplicemente, anziché ossequiare lo status sociale, inerisce esclusivamente le qualità personali.
In questa lettura ho trovato conforto nelle habitudes dei francesi, i quali non usano molto appellativi come ministro o professore, proprio perchè le persone intellettualmente più notevoli sono, proprio in quanto tali, meritevoli della considerazione di Persone, ed è nelle loro idee che risiede il loro valore.
Di fronte a costoro, i francesi diranno “dites-moi, Michel Focault”, perchè da riconoscere è l'Uomo e ciò che il suo splendido lavoro intellettuale ha prodotto, e l'uomo rimarrebbe alla sua stessa levatura di pensiero anche se non fosse stato fregiato del titolo di professore al Collège de France.
Ed inoltre, come osservò Umberto Eco, «se dovessi rivolgermi a Sant'Agostino [...], non lo chiamerei "Signor vescovo di Ippona" (perché anche altri dopo di lui sono stati vescovi di quella città), bensì “Agostino di Tagaste”» (In cosa crede chi non crede?, di Carlo Maria Martini e Umberto Eco, Liberal Libri, 1996 – pag. 4).

Ed allora rimoduliamo all'opposto il modello con il quale abbiamo aperto il ragionamento: il valore di una persona è inversamente proporzionale alla scala delle distanze allocutive, ovvero dare del lei è un po' come mettere una distanza fra status fatta di deferenza e non legata assolutamente alla qualità, ed anche non riconoscere il valore della Persona che questo “tu” consente.
Se questo è vero, allora, l'arrampicarsi delle conseguenze potrebbe risultare eccessivamente impervio, ed il risultato finale, sebbene ora con motivazioni esattamente opposte, sarà quello di ritornare al punto di partenza; così, guardandomi intorno, e proprio in ossequio alla validità di questo principio, credo che continuerò a dare quasi sempre del lei.