domenica 28 novembre 2010

Ti amo. Chissà perchè.

Tutti conoscono l'argomento. Potrebbe perfino essere uno dei pochi su cui ognuno ha la sua personale spiegazione, pronta da tirare fuori e da illustrare a chiunque, con grande convinzione e personali esperienze che sicuramente la confermeranno insindacabilmente, tanto che viene la voglia di non commentarla nemmeno, l'ultima notizia, ma di aggiungerla soltanto sullo scaffale, accanto alle altre, anche se con un posto preciso ed anch'esso indiscutibile, come indiscutibile è il punto di vista di chi apre un giocattolo anziché giocarci, ed osserva i meccanismi che lo azionano dall'interno, come era abituato anche a fare sempre il bambino che ero.

Nel Journal of Sexual Medicine, di recente è stato pubblicato uno studio dell'università di Syracuse secondo cui, per innamorarsi, è necessario e sufficiente un quinto di secondo, durante il quale 12 aree cerebrali rilasciano contemporaneamente sostanze chimiche come la dopamina, l'ossitocina e l'adrenalina, coinvolgono funzioni cognitive molto sofisticate e provocano, detto in breve, lo stesso sentimento di euforia di quando si assume la cocaina.
Anche i livelli di sangue del fattore di crescita nervoso, detto NGF, aumentano e rimangono più elevati nelle persone che si sono appena innamorate, e nella chimica sociale degli esseri umani funzionano anche al contrario, ovvero, in presenza di problemi in amore, sono causa di stress emotivo e depressione.

Aperto il giocattolo, abbiamo sempre diverse strade fra cui scegliere. Richiuderlo subito, dimenticarsene e lasciare che la propria spiegazione resti al posto d'onore sullo scaffale, per ripeterla alla prima occasione in cui cercare di convincere qualcuno; metterlo al servizio delle noste idee, inglobandone o interpretandone la parte che potrebbe consentire una loro convinta conferma; rimanerci un po' male e rifiutarsi di accettare il pensiero che la chimica regoli in modi così precisi ciò che da mondo è mondo è stato rivestito di significati che vanno dall'ultraterreno al pathos di ogni ordine e grado; associarlo ad altre conoscenze scientifiche e tentare una mediazione culturale fra la sfera razionale e quella emotiva; fermarsi a pensare.
So che è provocatorio sottoporvi una lista articolata in questo modo, in effetti vuole esserlo.

Ad esempio, potrebbe suggerire che magari non c'è bisogno sempre di un fattore imponderabile, astratto ed immaginifico, rivestito di aura magica, per conferire valore straordinario a quella cosa che chiamiamo amore: a chi cerca necessariamente questi Segni per convincersi che nessuna spiegazione razionale è possibile, chiederei se la poesia di una reazione chimica è davvero meno incantevole di una sensazione che chiamiamo in vari ed imprecisi modi, esaltandone anzi l'inconoscibilità e travestendola di impulsività o istintualità, soltanto perchè sconosciuta... sarebbe come dire che l'ignoranza merita più considerazione della consapevolezza... e poi, voglio essere rigoroso, andrebbe sempre verificato cosa fa scatenare quella reazione, che in sè altrimenti direbbe poco: un processo cognitivo, un bisogno insoddisfatto, un istinto ancestrale, un impulso a sua volta meramente fisico o chimico, il riconoscimento di segni comunicati a livello non verbale, una memoria inconscia, o cos'altro?
E a dirla tutta, non è ancora più romantico, allora, colui che dopo aver aperto e sezionato un cosiddetto sentimento, è disposto ancora a cercarne il motore inconoscibile, ed a pensare ancora che quella scintilla, da qualche parte, deve comunque esserci?
Qualunque essa sia, è bello pensare che i giocattoli si possano aprire, smontare, sezionare e rimontare come prima, perchè in fondo li abbiamo creati noi, e se vogliamo possiamo continuare a giocarci anche se ne conosciamo il contenuto.

mercoledì 24 novembre 2010

Eros-Thanatos 1-1

(pubblicato su www.teatro.org)

Le parole di una canzone di Stefania Rotolo (“...con chi mi puo' dare l'amore, puo' farmi soffrire e farmi morire...”, Cocktail d'amore, 1979) aprono non a caso una scena che appare subito essenziale: la vasca da bagno mezza piena, tre sacchetti di plastica appesi e ripieni di sangue, una figura simile ad una improbabile infermiera instabile sui tacchi, con ancora più improbabili extensions rosse, e come in un cerchio che si chiude prima ancora di aprirsi, le prime parole pronunciate (“L'amore non mi parla più, ma tanto io non sento più niente”) scavano subito il solco, quello che rimarrà intatto fino alla fine, portato avanti e fino in fondo da una Licia Lanera molto brava a non perdere mai la sua presenza di lucida follia, di una insania che è difficile comprendere quanto sia generata dall'evento in sé, o piuttosto presente nell'animo della protagonista.
Alla Sala Ichòs abbiamo assistito ad una forte e riuscita rappresentazione di Eros e Thanatos, inestricabilmente avvinti ed accompagnati dal sottofondo di un crepitio continuo e da un uso originale del sonoro di Riccardo Spagnulo, che amplifica ogni goccia di sangue che cade al suolo fino a farla rimbombare come una percussione, lenta ed inesorabile, simbolica come molti altri aspetti prevalentemente psicanalitici della storia.

Lei si sofferma sulle memorie fisse, e fissate nella mente di una relazione, senza tralasciare date ed eventi, anche i più piccoli, come un album, ed è evidente subito che ci troviamo di fronte ad una “fine di amore” rantolante, scaturita dalla scelta di Lui di fare outing, dichiarando la propria omosessualità: in un solo istante, si disgrega l'intera impalcatura istituzionale della relazione, dall'idea di un futuro con figli, alla ancor più istituzionale TV al plasma nel salotto.
Ma questo non fa terminare, per Lei, la dipendenza assoluta da quell'amore ormai impossibile, e cresce l'incapacità di organizzare la sua mente per accettare e superare quella ferita magari solo narcisistica, o magari bloccata dal senso di colpa, tanto da proseguire la relazione che si fa morbosamente strada nell'accettazione di tutto, e nel paradosso (“Perfino in fatto di uomini avevamo gli stessi gusti...”).
Ninfa del suo stesso fallimento, e chiaramente vinta nella guerra fra la carne ed i neuroni, ben evidenziata anche dalla metafora con cui definisce sprezzantemente “intellettuali...” gli spettatori che non le danno da mangiare, alla fine del (suo) dramma interiore Lei lo uccide colpendolo alle spalle, come se alle spalle, e cioè senza guardarsi in faccia, colpisse se stessa, non potendo guardarsi né in faccia, né dentro.

Ed è anche una “procedura” faticosa, lunga e difficile, quella di ammazzarlo a mani nude e con arnesi da cucina, cruda, brutale, spietata, selvaggia e dettagliatamente ricordata in un racconto che colpisce anche per un altro simbolo, quello di un pervicace ed ossessivo assalto proprio al collo, tipico comportamento di una gran parte delle specie animali, che lo scelgono appunto per il colpo letale.
Dopo la sua morte, lui le appare come un cherubino, un Santo, e le sembra addirittura felice, tanto da farle tornare in mente tutti i momenti felici, e ancor più, l'amore che non hanno mai bevuto.
Alla fine Lei si rinchiude, finalmente, ma in una vasca, e piange. E si uccide. Troppo tardi.
In questo campo di battaglia, chi vince? Chi ha vinto? Forse, il problema è proprio questo, che ognuno purtroppo, in questa lotta chiamata amore, ritiene che debba esserci un vincitore.

sabato 20 novembre 2010

Tristes Tropiques. Plus que tristes.

Tristi tropici. Pure troppo.

(pubblicato su www.teatro.org)

La luce si insinua a fatica fra la rarefazione di una fitta atmosfera nebulosa, come filtrata dai rami degli alberi, ed in una scenografia pressochè in sé fisicamente inesistente si svela man mano un'elegante costruzione dei non-ambienti, dal nero al bianco, come involucri illusori in cui le figure umane spesso diventano puro disegno, a volte per contattarsi, quasi baciarsi, altre per inscenare una idea di vita quotidiana.
Sono alcune delle sensazioni provocate dal lavoro di ricerca tersicorea di Virgilio Sieni sul memorabile testo di Claude Lévi-Strauss, Tristi tropici. Quando un riferimento viene fatto in maniera così esplicita, motivata e significativa, si è autorizzati a considerare il rapporto con la scrittura come parte integrante dell'opera.

Lévi-Strauss trascorse quattro anni nelle foreste del Mato Grosso, ma non ne scrisse una sola parola fino a quindici anni dopo, quando nel 1955, e per motivi variamente incidentali, pubblicò l'opera in cui ricordò ogni pericolo, timore e complessità dei suoi incontri con le civiltà indigene, remote ed incorrotte, fra cui sia l'etnologo che l'uomo si erano addentrati.
Fra le molteplici chiavi di lettura, della narrazione mi piace evidenziare quella di un sotteso senso di colpa (tipicamente occidentale) per un mondo che sarebbe scomparso, e di una sottomissione (da scienziato) alla legge dell'osservatore, quella che con grande ambiguità fa dello stesso ricercatore un soggetto attivo della devastazione della realtà che vorrebbe invece indagare.
È la stessa ragione per cui esplicitamente usa un incipit assoluto come «Odio i viaggi e gli esploratori, ed ecco che mi accingo a raccontare le mie spedizioni». Ed è un “odio”, come per Jean-Jacques Rousseau, che si espande al senso di sdegno per una civilizzazione senza anima che -come intuisce già- travolgerà le tribù dei Tupi-kawahib, dei Bororo, dei Nambikwara e dei Caduvei.
La desolazione ed il rigetto per l'indesiderato imarbarimento esogeno, le mille occasioni per i dettagli che sbucano fuori improvvisi ed imprevedibili come nel caos in cui si comprende esserci un ordine nascosto, le emozioni e le osservazioni comparative strutturaliste, tutto viene riassunto alla perfezione da una nota osservazione di Emmanuel Lévinas, secondo cui «L´ateismo moderno non è la negazione di Dio, è l´indifferentismo assoluto di Tristi tropici. Penso che sia il libro più ateo che sia stato scritto nei nostri tempi, il libro più disorientato e disorientante». L'indifferentismo è anche quello per il quale si sa che, per quanto l'uomo possa essere potentemente legato alla sua potenza, la terra gli sopravviverà.

Nella traduzione scenica di Sieni, la lettura di Lévi-Strauss procede fra parole mozzate, quasi solo suoni disarticolati che non vogliono essere compresi, immagini che in maniera prevalentemente umbratile creano l'incontro tra la crudezza del quotidiano ed alcuni elementi universali come l'amor filiale o quello dettato dalla necessità di sopravvivenza, musica claustrofobica, e con la scomparsa anche simbolica del linguaggio e della parola, tranne che una sola volta, sussurrata ad un orecchio, e forse non a caso seguita subito dalla caduta di chi la riceve.
In verità, però, questi elementi cominciano presto a far parte di una categoria particolare, ovvero quella delle letture forzate, che si vanno a cercare soltanto perchè ci si aspetta di cercare proprio fra quelle: se ci si interroga sui messaggi di Lévi-Strauss, si resta senza risposte, perchè manca un  punto di contatto vero, si sente che questi segni non vengono fuori dal palcoscenico, ma  dall'aspettativa di chi li ricerca.

Oltre ai tratti sopra descritti, la partitura da illustrare resta insoddisfatta per mille percorsi ed infinite deviazioni, l'investigazione sul senso dell'altro, la saggezza implicita nelle piccole società indigeni, l'evidenza significativa degli Interventi Estetici sul Corpo come disperata ricerca di umanità, la linea fra i Tropici vuoti degli indigeni americani e quelli pieni di una India appena compresa.... ma certo sarebbe una lista troppo lunga, ed ovviamente bisogna tener conto soltanto di ciò che c'è, ovvero la volontà di presentare un lato familiarmente animale e nostalgico, ma soprattutto femminile, come l'occasione perduta “che era stata offerta all'Occidente di scegliere la sua missione”.

Troppo poco, per accostarsi a Lévi-Strauss, insomma, ed oltretutto con la stessa ed ambigua, autoreferenziale comprensione, causata da quella stessa legge dell'osservatore (spettatore) che aveva reso tristi i tropici.

lunedì 15 novembre 2010

Uno scarfalietto.

(pubblicato su www.teatro.org)


Fra i classici più riproposti del teatro comico tradizionale partenope di fine '800, torna lo scarfalietto al Bellini, riproponendoci una trama ben nota, ed intrecci che quasi sempre si reggono sul loro livello più stretto e temporaneo, diciamo pure finalizzati all'immediata boutade o al lazzo ammiccante, che risulta sempre più significativo dello stesso insieme narrativo.
La linea conduttrice è il matrimonio fra Felice Sciosciammocca ed Amalia, terminato quasi subito a causa della serie infinita di litigi fra i due, con l'inserimento del seduttore Gaetano Papocchia che tenta di acquisire i favori della ballerina-sciantosa Emma Carciòff, coinvolto poi come testimone dai due coniugi in cerca di buoni motivi vincenti per affrontarsi infine nell'aula del tribunale, dove infatti termina l'azione.
I personaggi appaiono venendo fuori tutti insieme in uno spazio scenico disegnato con un libro aperto che contiene i tre capitoli della storia, sulla cui copertina c'è il titolo stesso della commedia, fra le più famose di Scarpetta: con lo sviluppo scenografico di Paolo Calafiore si delinea perciò un chiaro segno sull'incontro fra un pubblico come quello napoletano, pronto a sfogliare i suoi classici, e la dimensione del ricordo e della tradizione reinterpretata dalla compagnia guidata da Geppy Gleijeses.
In quel particolare teatro  di genere, l'attitudine prevalente era il riadattamento delle pochade francesi coeve, e così 'o scarfalietto proviene direttamente da “La Boulé” di Henri Meihlac e Ludovic Halévy, rinsanguato con una certa dose di appesantimento e di gusto per la battuta fine a sé stessa, anche volgare ma di un volgare medio-borghese, sicuramente diverso da quello appena precedente delle maschere del teatro borbonico, rivolto com'era ad una platea decisamente più rozza.
In questa cornice, però, Lello Arena e Marianella Bargilli non fanno molto per ricordarci la tradizione, rimanendo sempre troppo sopra le righe: Felice Sciosciammoca risulta troppo iroso e collerico, perdendo la traccia del suo originario aspetto ironico ed ingenuo che lo rendeva attraente ed empatico, quello al quale la sensibilità borghese di fine '800 lo aveva adattato in una trasformazione della maschera di Pulcinella, e per il quale era stato disegnato lo stretto, usurato abito a quadretti ed un atteggiamento che complessivamente richiamava finanche Chaplin, mentre la moglie Amalia viene caricata con una figura cupa e talvolta quasi ieratica, nevroticissima, nordica, anch'essa prealentemente iraconda piuttosto che -ebbene sì, va detto proprio così- sprucida, come sarebbe risultata meglio riconoscibile dal pubblico, soprattutto se napoletano.
 Rimanere più agganciati ad un classico come questo, ed evitare sia le improbabili letture sociali di un recente passato, sia una reinterpretazione per sottrazione (di elementi essenziali) come questa, forse gioverebbe ad un genere che ha nel suo DNA una presa più che immediata con quella facile battuta e con un richiamo totalmente spensierato alle caratterizzazioni di impatto fulmineo, come è questo Scarpetta annata 1881, e come molti ricordano ancorain costanti riferimenti, non a caso, ad edizioni come quella del centenario, sotto la guida di Mario Scarpetta, anno 1981.
Riusciti, invece, i due personaggi di Geppy Gleijeses che si alterna fra Gaetano Papocchia, gagà quasi di professione e migliore fra le caratterizzazioni, pervaso di farsesca ed onirica leggerezza, e l’avvocato dislessico Anselmo Raganelli, al quale Scarpetta affida il peso dell'arringa finale con cui in tribunale ogni cosa si scompone e si ricompone, mescolando ogni possibile trovata ed ogni livello di immediatezza con un ritmo molto elevato per coinvolgere il pubblico in un caos ludico, sempre sottostando a quegli stessi canoni di arguzia di inconfondibile matrice scarpettiana.

mercoledì 10 novembre 2010

Un voce, una chitarra ed un senso.


(pubblicato su www.teatro.org)

Dopo apparizioni rare che rientrano nell'aura non del personaggio, ma proprio della persona, fra cui ricordiamo la partecipazione a febbraio di quest'anno come House band a Parla con me, Bobo Rondelli passa con il suo caratteristico esserci quasi per caso anche a Napoli, e porta alla Sala Teatro Ichos il suo modo di permettersi incursioni sottili e poetiche come sentimenti quotidiani, ed insieme risolute ed efficaci come colpi allo stomaco di una violenza gratuita quando insita nell'animo umano.
L'ultimo disco di Bobo è uno spazio nel quale convivono Gianni Rodari con il suo cielo - simbolo di universalità - e l'urto senza danni fra un'atmosfera di rarefatto e puro amore quotidiano, con uno sguardo finale, maschile ed inevitabile che si posa su un fondoschiena adocchiato per strada.
C'è più poesia nel buongiorno di un barista che in tutto il resto, perchè la mattina comincia con un buon caffè e con il senso che gli si da”: così Rondelli fa poesia, toccando quegli aspetti delle persone che non raccontano sé stesse soprattutto per pudore, e paragonandosi ad uno “un po' malato di mente, che però in una società malata di mente diventa quello sano, e si racconta anziché andare dallo psicanalista, non risolverà niente a nessuno ma come in un grande lavoro terapeutico, trova la sua luce”.
È un po' come affrontarsi su quel terreno innato ed a volte insormontabile del proprio rapporto con l'infanzia, dove “non si beveva, ma si era ubriachi lo stesso”. La politica in questo spazio resta un po' in penombra, se si pensa a quella di cui si parla oggi, mentre vi entra a gran voce quell'altra, “quella vera, quella che fa chi non arriva a fine mese, chi sente il bisogno del senso di compassione e di condivisione, perchè quando uno sta bene è bene che si regali...
A fare della serata un momento raro, non è solo la bellissima sequenza di nove tracce nuove e delle altre che ricordano i tempi dell'Ottavo Padiglione (“Ho picchiato la testa”) e dei Disperati, Intellettuali, Ubriaconi con Riondino e Bollani (“Quando non ci sei”, “Gigiballa”): ha un senso anche il trovarsi nella Sala Teatro Ichos, a San Giovanni a Teduccio.
È come una riuscita interpretazione materiale di sociologia della musica che può far sentire sulla pelle l'unione fra il dentro ed il fuori del Teatro, fra le parole ascoltate ed il circostante delle periferie nelle quali certamente hanno un senso estremamente pieno, suonano adeguate, sembra che siano state scritte in una delle strade intorno.
È un senso ormai perso, ed è bene che qualcuno ancora possa trasmettercelo.
Ci pensa un cantautore, uno fra i pochi che possono chiamarsi ancora così, capace di farci sentire cosa doveva significare, ad esempio, una trentina di anni fa seguire le mosse di una generazione di artisti uniti da questo appellativo.
In Italia questa categoria si formò in diverse scuole, e forse la loro specificità non stava tanto nel riferimento ad una caratteristica poetica, di linguaggio o concettuale, quanto piuttosto nel riferimento territoriale, alla città di nascita o di adozione dei cantautori, probabilmente solo per facilità e/o spontaneità di aggregazione.
È stato così che ci si è riferiti via via alla scuola genovese, a quella romana, napoletana, bolognese e milanese, ed in questo caso, per trovare un solco su cui ha camminato Bobo, dobbiamo scoprire un po' il lato della sua livornesità, quella che fu anche di Piero Ciampi, per intenderci.
Un po', ma non troppo.
Non troppo perchè anche se di tratti comuni non si fatica a trovarne, soprattutto per l'ironia pervasiva presente sia nella narrazione musicale che nel gioco spontaneo con il pubblico, Bobo Rondelli possiede una sua specificità i cui riferimenti spaziano dai suoi stessi richiami a Johnny Cash, al Lou Reed di Perfect day come al Tom Waits di I don't want to grow up ed appunto a Ciampi, il tutto restando a metà fra il cantautore ed il cantastorie, e soprattutto permettendosi qualcosa di raro, per le sue atmosfere semplici ed insieme sofisticate: l'essenza, quella fatta di una voce, una chitarra ed una tastiera.
Serve poco, quando si hanno idee.

martedì 2 novembre 2010

I remember you well in the Chelsea Hotel...


Non conoscevo il Chelsea Hotel se non per qualche sua presenza in film come Chelsea Girls di Andy Warhol, Sid & Nancy di Alex Cox, Léon di Luc Besson, Midnight In Chelsea e The Interpreter, fin quando di recente alcune cronache, e più di tutti il Wall Street Journal, se ne sono occupate con un certo dettaglio, come accade sovente quando un Mito viene messo in vendita.
Dopo la cessione della gestione della hall, i troppi milioni di dollari necessari per rimetterlo in piedi, le ammaccature del tempo e l'umidità hanno avuto il sopravvento, e così proprio quel Wall Street Journal che in 125 anni di storia con ogni probabilità mai nessuno dei clienti del Chelsea Hotel deve aver mai aperto, viene a rendere conto del pericolo di perderlo per sempre, con ogni probabilità magari trasformato in uno dei tanti boutique hotel di cui sono piene le guide turistiche.
Oltretutto, solo 2 anni fa, a Cannes venne presentato un documentario fuori concorso di Abel Ferrara, Chelsea on the Rocks, che può dare un'idea ai profani di cosa abbia rappresentato quel luogo nel cuore del quartiere bohémien di Manhattan: se ne riconoscono quasi tutte le storie di cui parla, sia per ricordo diretto sia per averne letto da qualche parte, e così alla notizia della probabile fine del Chelsea, mi è sembrato di essermi perso qualcosa.
Magari mi sono perso solo un punto di congiunzione, fra i mille e mille che si possono trovare in alcune epoche, che mettono insieme le storie più significative. O forse significative lo diventano proprio perchè tutte loro si intersecano, appunto, per quel punto di congiunzione.

Il Chelsea Hotel era un crocevia eletto, e non è facile definire se il catalizzatore sia stato quel punto, o piuttosto il suo trovarsi all'incrocio di tante strade comunicanti.
Forse un crocevia (che può trattarsi anche di altro, che so, una rivista su cui ci si ritrova a scrivere...) nasce per caso, e così soltanto dopo acquisisce l'aura che ne attira l'ipertrofia del mito, assicurandone quindi l'autoalimentazione per molto altro tempo, fino a diventare cosa a sè. Forse. O invece, forse per qualche motivo viene eletto a punto di convergenza di energie difficilmente descrivibili ed ipotizzabili a priori, da parte di coloro che l'hanno progettato e realizzato.Ognuno di questi luoghi ha la sua caratteristica storia, e questa di New York colpisce perchè quegli anni, inutile negarlo, sono stati realmente densi di pensiero e di azione collettiva, e sarebbe difficile farsi venire in mente qualcosa di simile in questi, di anni.
È stata la storia che ha visto soggiornare, creare e spesso tirare a campare gente che in quelle stanze hanno composto, scritto o vissuto qualcosa rimasto poi anche -e qui c'è una delle caratteristiche più originali- nella storia della rispettiva arte.
Il classico elenco quasi da cartolina basterebbe: Sid Vicious, Patti Smith e Robert Mapplethorpe (insieme nella foto qui sopra), Dylan Thomas, Keith Richards, Bob Dylan, Jimi Hendrix, William Burroughs, Andy Warhol, Leonard Cohen, Janis Joplin, Simone De Beauvoir, Mark Twain, Charles Bukowski, Jean Paul Sartre, Jack Kerouac, Allen Ginsberg, Edith Piaf, William Burroughs, Arthur C. Clarke, Arthur Miller, Sarah Bernhard...
Si potrebbe ascoltare ancora Sara di Bob Dylan, Chelsea Hotel #2 di Leonard Cohen e Chelsea Morning di Joni Mitchell, nella hall, con un bicchiere in mano, senza contorni di turisti che sciamano per una foto veloce e distratta comandata dalla pagina 23 della Lonely Planet?
Ethan Hawke
Forse no, come in quasi nessuno di questi luoghi deputati all'autocelebrazione, magari per sopravvivere, dove oggi per meno di 200$ ti affacci fra il Greenwich Village e Midtown, sperando di sentire magari una eco dalla stanza numero 100, dove Sid Vicious dei Sex Pistols uccise Nancy Spungen (nella foto sopra, insieme al Chelsea; sulle "Leggende del Chelsea Hotel" c'è anche un libro di Ed Hamilton, in cui qualcuno ha trovato tanti aneddoti “quante pulci potevano contenere le sue stanze”, per scoprire che Bill e Hillary Clinton hanno chiamato la figlia così perchè si erano innamorati del posto, che Madonna ci stanziava per mesi o che Christo ci abitava gratis in cambio di un quadro...), e così, fra la 7th e l'8th, a New York, si riproduce la fotocopia un po' sbiadita di usembra fare n tòpos.
Il suo nome non sbiadito è genius loci, e di lui parleremo specificamente in altra sede.
Qui, ed ora, credo che sia meglio non fermarsi troppo a pensare, ed entrare nella hall.
Anzi, no, qui dentro ci sono troppe facce note, come lo sono i concergies di Dubai o Bangkok.

No, facciamo finta di niente e saliamo direttamente per una scala di servizio, si, eccola; solo su una ringhiera metallica gialla che nessuno ha ancora pensato di sostituire con qualche altro materiale progettato a norma, solo lì può cominciare una visita al genius loci di un Hotel così... e salendo piano dopo piano, cercare qualche traccia sulla scala antincendio dei suoi long-term notable residents, e finalmente poter sussurrare anche qualcosa, qualche parola di un testo su cui da anni magari Leonard Cohen, come sembra qui a fianco, aspetta di essere accompagnato... Mi ricordo bene di te al Chelsea Hotel, questo è tutto: in fondo, non ti penso neppure così spesso... "I remember you well in the Chelsea Hotel / That's all, I don't even think of you that often..."