domenica 19 dicembre 2010

Il processo alla rovescia ad Oscar Wilde

(pubblicato su www.teatro.org)

La XXIII Giornata Mondiale della Lotta all'AIDS, l'incasso devoluto in beneficenza, un Lanificio 25 che mantiene l'impegno di originale struttura-progetto, una folla perfino eccessiva per la stessa godibilità dello spettacolo, un manoscritto incompleto che sebbene si riferisca ai verbali di un processo del 1895 è stato ritrovato solo nel 2000 nella British Library di Londra: vanno messi insieme diversi elementi, per ricordare "Il Primo Processo di Oscar Wilde" (progetto e regia di Roberto Azzurro, drammaturgia di Massimiliano Palmese), perchè solo l'insieme rende l'idea di quella che è stata soprattutto una serata, con tutto il piacevole senso di completezza del termine.
Quella che Hall Caine definì come “la tragedia più orribile di tutta la storia della letteratura” ebbe dei presupposti che da soli rappresentano degnamente molte delle caratteristiche di un animo intenso, provocatorio e drammatizzante come quello che fu di Wilde fino a prima che proprio queste vicende lo distrussero per sempre.
Fin quando le sue avventure (extraconiugali, oltretutto) rimasero circoscritte all'ambiente dei ragazzi proletari, la comoda ed ipocrita società seduta intorno fece finta di nulla, riproducendo i suoi vecchi quanto funzionanti cliché perbenisti, ma tutto cambiò quando fu troppo “palese” la sua relazione con Alfred, detto Bosie, il figlio di Lord John Sholto Douglas, ottavo marchese di Queensberry.
Il Lord non si fece scrupolo di insultare pubblicamente e per iscritto Wilde, con un biglietto infamante e sgrammaticato (“A Oscar Wilde, che posa a sodomita”), e lui fece a questo punto una mossa che definire azzardata è poco, probabilmente c'erano gli estremi per considerarla già allora suicida, e che però resta una delle più alte forme di coerenza della sua vita all'ideale artistico che aveva sempre impersonificato: fu lui, a denunciare Lord Douglas, querelandolo per diffamazione, non senza la spinta di un Bosie smanioso di vendicarsi del padre.

Questo è il punto da cui parte lo spettacolo, e leggendo i verbali sembra di leggere già una drammaturgia teatrale: le parole, i toni, i mutamenti degli animi e l'alternarsi delle fortune processuali secondo le migliori o peggiori riuscite dello spirito e dei fatti, oltre ad un florilegio di risposte rimaste nella storia per il genio che le ha rese vere e proprie sentenze ben oltre lo humour, tutto rende il Primo Processo perfettamente compiuto come testo da portare in scena, e Roberto Azzurro (Oscar Wilde) e Carlo Cerciello (Edward Carson, "l'accusa") inseriscono in questa trama, rispettivamente, i caratteri della propensione all'irrisione iniziale ed al travolgente spirito dettata dalla sottovalutazione degli eventi che svanisce poi nella dissolvenza del risveglio tardivo di fronte all'imminente tragedia della condanna, ed una cupa ricerca del punto debole che via via si fa certezza di avere tutto in pugno.
Fu compito abbastanza facile, infatti, per l'accusa, dimostrare con una successione di testimoni, rubati al mondo della prostituzione, il passato ed il presente delle preferenze sessuali di Wilde, che perciò da accusatore fu trasformato in accusato, e di preciso in imputato di gross indecency ("grave immoralità", era questo l'eufemismo per indicare l'omosessualità, che era illegale).

Conclusione: condanna a due anni di lavori forzati, bancarotta, carriera distrutta. E con lui, condannato fu anche l'amore che esisteva tra Davide e Gionata, quello che Platone mise alla base stessa della sua filosofia, e che si può trovare nei sonetti di Michelangelo e di Shakespeare.
La degna, prolungata uscita di scena di Azzurro e Cerciello avviene in una atmosfera intensa ed oscura, che lascia presagire le tappe successive della vita di Wilde, fatte di passi ormai sempre discendenti, anche se a volte ancora immortalati come nel De Profundis, la lettera che non fu mai data a quel Bosie con cui visse ancora per qualche tempo proprio a Napoli, e nella Ballata del carcere di Reading.

sabato 18 dicembre 2010

Ingabbiati nel libero arbitrio

(pubblicato su www.teatro.org)


Ci fu un tempo in cui, nei primi anni del Novecento, in Russia era quasi come se tutti volessero credere a tutto, fuorché a ciò che esisteva. La filosofia di Pëtr Demianovič Uspenskij capitò nel momento giusto per fare da punto di riferimento, un buon mezzo per far sentire a tutti che si potevano valicare i confini della realtà, con il suo esoterismo e le teorie sul tempo che influenzarono anche l'avanguardia artistica suprematista (e Malevič in modo particolare), oltre che il teatro, attraverso la sua teoria sulla quarta dimensione.

La perdita di fiducia nell’uomo come soggetto percepente e nella lingua come adeguato mezzo di comunicazione fece strada all’ipotesi che l'universo sensibile possa rivelarsi in maniera distorta o incompleta, e questa illusorietà del reale appare con forti chiaroscuri nella regia che Angela Sales propone per il suo “Il Sonno verticale di Ivan”, liberamente ispirato a “La strana vita di Ivan Osokin” di Uspenskij.
Sulla scena irrompono inizialmente, più che sequenze, dei flashback postumi sulla vita di Ivan: Zinaida Krutitsky lo lascia, la sua vita si disperde in direzioni improbabili se non dissolute, ogni sua risoluzione nella vita sembra sempre mancare di un senso o di averlo smarrito, come se avesse voluto “plasmarla a modo suo ma fosse riuscito solo a mandarla in frantumi".
In un continuo sbandamento creativo offerto da una scrittura che tenta costantemente di mettere insieme matematica e teosofia, probabilmente al solo scopo di tenerle però ben separate, Ivan ricorre ad un Mago, o meglio alla magnifica, apotropaica maschera greca di Giuseppe Gavazzi, cui chiede di avverare il sogno di riavere le stesse occasioni perdute, certo di saperle ora trasformare con l'esperienza acquisita, o per dirla banalmente, di imparare dai propri errori.
Ma è proprio questo, il tema più forte della narrazione: come in una riscrittura in chiave deterministica del libero arbitrio che richiama quasi il luterano De servo arbitrio, e già ammonito in proposito anche dallo stesso Mago ("Ti posso mandare indietro quanto vuoi, e farti ricordare tutto, ma non te ne verrà nulla"), Ivan torna indietro di dodici anni nel punto esatto nel quale riteneva che fossero cominciate le sue disgrazie, e riparte daccapo, convinto di migliorare le sue risposte alle domande della vita. Poiché gli sembra di essere stato sempre in bilico per il fatto di non sapere cosa sarebbe successo, ed a questo attribuisce la colpa dei suoi disastrosi risultati, ora ritrova ogni occasione, può rivivere ogni incrocio davanti al quale scegliere quale strada prendere, eppure, di nuovo, le fallisce tutte.
Di fronte alle occasioni per redimersi, siano esse evitare una punizione al collegio o non farsi lasciare dall'amata Zinaida, Osokin però non solo fallisce, ma direi che si autosconfigge: "So cosa succede, ma non riesco a fare nulla per cambiare", con una tale apparente assurdità da far inscenare perfino una protesta nel pubblico, dal quale uno spettatore si fa personaggio e raggiunge il palcoscenico spazientito dall'insensato spreco di tempo ed energie di cui Ivan si sta facendo soggetto e vittima insieme.

Tra frammenti di una colonna sonora di jazz americano certo non coevo, che insieme con i costumi di Anna Chiara Senatore e le luci di Antonio Pesacane avvolgono la scena come un altro elemento in cui il Tempo dimostra la sua estrema labilità, la sua spiegazione più convincente è che "da lontano si vede ogni cosa, ma da vicino solo i dettagli, e mai l'insieme", e pertanto è inevitabile che tutto continui a sfuggirgli, inesorabilmente.
Danilo Rovani e Roberta Astuti attraggono tutti gli elementi intorno e rendono con costate tensione l'alternanza fra la chiarezza apparente ed il dubbio demolitore della mente di Ivan, che rimane fino in fondo incapace di seguire la strada infine indicata dal Mago ("Vivi! non continuare a voler tornare indietro!"), quell'insieme di consapevolezza e di equilibrio nel seguire il percorso che, sebbene rimanga avvolto nell'aura dell'ingannevole allucinazione di Uspenskij, viene comunque indicato nella possibilità di cambiare, si, ma solo a costo di conoscenza e sacrificio, anche di una parte della propria stessa vita.

giovedì 16 dicembre 2010

(un po' di) tutto su mia madre

(pubblicato su www.teatro.org)


Non è mai un compito facile, quello di valutare le parti ed il tutto di una operazione derivata come è quella di trarre un testo da una concezione originaria di qualsivoglia diversa natura, sia essa nata da un libro, da un film o da una drammaturgia teatrale: la trasformazione in altra natura sempre all'interno di queste tre comporta sempre, quantomeno, delle inevitabili premesse, ed infatti la stessa produzione, di volta in volta, ci tiene a sottolineare quanto non si sia trattato di un adattamento piuttosto che di una traduzione nel linguaggio nuovo. Trovo perciò sempre opportuno partire da questo punto di riferimento esplicito.
Tutto su mia madre è il capolavoro indimenticato di Almodóvar che nel 2000 gli valse l'Oscar per il miglior film straniero, oggi riscritto per il teatro da Samuel Adamson e già portato in scena all'Old Vic Theatre di Londra nel 2007.
Prima di aprire il sipario del Teatro Bellini, è essenziale ricordare alcune delle prospettive che ne hanno fatto uno dei migliori film del regista spagnolo; uno sguardo su un mondo nel quale tutto principia e tutto finisce e ricomincia nel segno della metà femminile del cielo, sia essa sotto la forma delle donne-madri-figlie-prostitute-femmine-aspiranti tali, sia perché, soprattutto, si fanno paladine istintuali di un'apologia dell'Accoglienza nella quale mi sembra di poter racchiudere il senso più alto ed ultimo dell'opera.
In questo senso, per inciso, piace ricordare per primo Alberto Fasoli, quantomeno per solidarietà all'uomo per caso, nella pièce curata dal regista Leo Muscato, in quanto unico uomo e protagonista plurimo per Alex, per Stanley, per i vari dottori e per un cliente.

Le donne di Almodóvar, infinite ma tutte infine sempre riconducibili all'Universale Femminino, sono Manuela (una Elisabetta Pozzi capace di trasformarsi in molte diverse donne), che compie per senso di colpa un viaggio a ritroso dopo la perdita del figlio, alla ricerca del padre; Rosa, una suora candida che immolandosi per il prossimo resta incinta, invischiata nelle strane reti di Lola, travestito recidivo che scomparirà come già aveva fatto con Manuela, la madre di Rosa, che solo nel finale si decide a raggiungere anch'essa l'ideale femminile di Almodóvar, Huma (Alvia Reale, forse la più convinta nel suo ruolo), l'attrice involontariamente causa della tragedia di Manuela, lesbica di un amore travagliato per l'attrice dissoluta Nina, ed infine Agrado (Eva Robin's, brava a non eccedere oltre gli eccessi che già le appartengono), figura estrema che racchiude l'estremo centro di tutte loro ed insieme dell'archetipo femminile: il conglobamento del dolore di ognuno e di qualsivoglia natura, nel più ampio e rassicurante mare dell'accettazione, della comprensione, del perdono e della dedizione (“mi chiamano Agrado, perchè per tutta la vita ho sempre cercato di rendere la vita gradevole agli altri”, come nel suo celebre monologo).
Al risentimento ed alla sofferenza, così, viene impedito di trasformarsi in rancore ed odio. Nessuna condanna, nessun giudizio, ed un'atmosfera generale di vita sotto e molto al di sopra del marciapiede che ricorda quella della Città vecchia di Umberto Saba (Qui degli umili sento in compagnia / il mio pensiero farsi / più puro dove più turpe è la via), la stessa che ispirò Fabrizio De Andrè per la sua omonima poesia-canzone.
Non per nulla, l'unica figura negativa, immatura ed irresponsabile, è quella di colui che donna non è riuscita a diventare, Lola, rimasta col peggio dell'uomo e col peggio della donna insieme, in un corpo indecifrabile, come fosse il fallimento di un obiettivo non raggiunto, quello di essere donna, e non certo in senso fisico (che resta soprattutto simbolico), quanto nel senso delle qualità femminili a cui dovrebbe aspirarsi anche da parte degli uomini.
Se però la scrittura di Adamson non voleva somigliare al film, come espressamente dichiarato, allora bisogna dire che ci somiglia troppo, al film, per alcuni aspetti tecnici, ovvero nell'inseguire i tempi e le pennellate della cinematografia sottraendone alla caratterizzazione tipicamente teatrale.
Efficace è il continuo richiamo al Tram chiamato desiderio di Tennesee Williams fatto rivivere dalla scenografia di Antonio Panzuto con un dietro le quinte da “teatro nel teatro”, ma resta una impressione confusa, soprattutto nella prima parte, con le sue 16 scene interpuntate da 3 monologhi, in cui i tanti quadri che si susseguono ottengono un effetto troppo da soap rispetto alle possibilità offerte dal palcoscenico, e non a caso nella parte riservata al finale si riacquista un senso più specifico, facendo sentire appunto con maggiore convinzione un elemento fondamentale come l'unione delle donne nella concezione di una famiglia vista come intercambiabile.
Di certo, non c'è lo sconvolgimento emozionale del capolavoro di Almodóvar, ed il finale, costruito da Alessandro Verazzi con il verde ed il viola del lutto autoprocurato, che rende tanto quanto l'indugiare sull'intima sensazione di saper seguire le orme dolenti di Federico García Lorca (non solo quello delle più volte citate Nozze di sangue, ma anche per la tonalità complessiva), serve anche per immaginare le potenzialità inespresse, ovvero come avrebbe giovato una scrittura più coraggiosa.