Ci fu un tempo in cui, nei primi anni del Novecento, in Russia era quasi come se tutti volessero credere a tutto, fuorché a ciò che esisteva. La filosofia di Pëtr Demianovič Uspenskij capitò nel momento giusto per fare da punto di riferimento, un buon mezzo per far sentire a tutti che si potevano valicare i confini della realtà, con il suo esoterismo e le teorie sul tempo che influenzarono anche l'avanguardia artistica suprematista (e Malevič in modo particolare), oltre che il teatro, attraverso la sua teoria sulla quarta dimensione.

Sulla scena irrompono inizialmente, più che sequenze, dei flashback postumi sulla vita di Ivan: Zinaida Krutitsky lo lascia, la sua vita si disperde in direzioni improbabili se non dissolute, ogni sua risoluzione nella vita sembra sempre mancare di un senso o di averlo smarrito, come se avesse voluto “plasmarla a modo suo ma fosse riuscito solo a mandarla in frantumi".
In un continuo sbandamento creativo offerto da una scrittura che tenta costantemente di mettere insieme matematica e teosofia, probabilmente al solo scopo di tenerle però ben separate, Ivan ricorre ad un Mago, o meglio alla magnifica, apotropaica maschera greca di Giuseppe Gavazzi, cui chiede di avverare il sogno di riavere le stesse occasioni perdute, certo di saperle ora trasformare con l'esperienza acquisita, o per dirla banalmente, di imparare dai propri errori.
Ma è proprio questo, il tema più forte della narrazione: come in una riscrittura in chiave deterministica del libero arbitrio che richiama quasi il luterano De servo arbitrio, e già ammonito in proposito anche dallo stesso Mago ("Ti posso mandare indietro quanto vuoi, e farti ricordare tutto, ma non te ne verrà nulla"), Ivan torna indietro di dodici anni nel punto esatto nel quale riteneva che fossero cominciate le sue disgrazie, e riparte daccapo, convinto di migliorare le sue risposte alle domande della vita. Poiché gli sembra di essere stato sempre in bilico per il fatto di non sapere cosa sarebbe successo, ed a questo attribuisce la colpa dei suoi disastrosi risultati, ora ritrova ogni occasione, può rivivere ogni incrocio davanti al quale scegliere quale strada prendere, eppure, di nuovo, le fallisce tutte.
Di fronte alle occasioni per redimersi, siano esse evitare una punizione al collegio o non farsi lasciare dall'amata Zinaida, Osokin però non solo fallisce, ma direi che si autosconfigge: "So cosa succede, ma non riesco a fare nulla per cambiare", con una tale apparente assurdità da far inscenare perfino una protesta nel pubblico, dal quale uno spettatore si fa personaggio e raggiunge il palcoscenico spazientito dall'insensato spreco di tempo ed energie di cui Ivan si sta facendo soggetto e vittima insieme.
Danilo Rovani e Roberta Astuti attraggono tutti gli elementi intorno e rendono con costate tensione l'alternanza fra la chiarezza apparente ed il dubbio demolitore della mente di Ivan, che rimane fino in fondo incapace di seguire la strada infine indicata dal Mago ("Vivi! non continuare a voler tornare indietro!"), quell'insieme di consapevolezza e di equilibrio nel seguire il percorso che, sebbene rimanga avvolto nell'aura dell'ingannevole allucinazione di Uspenskij, viene comunque indicato nella possibilità di cambiare, si, ma solo a costo di conoscenza e sacrificio, anche di una parte della propria stessa vita.
Ciao Ric, quanto mi piace questo argomento! Ha risvegliato in me tutto un mondo... ci avevo scritto una breve rappresentazione teatrale!!! Poi sai, data la mia fama, è stata rappresentata in tutto il mondo…
RispondiEliminaDi seguito frammenti tratti da testi di Daniil Charms.. frat’-cugin’ di Uspenskij
“Ora ho sonno, ma non intendo dormire. Prenderò carta e penna e mi metterò a scrivere. Sento dentro di me una forza terribile. Ho riflettuto bene su ogni particolare già ieri. Sarà un racconto su un uomo che sa fare miracoli, che vive ai giorni nostri e miracoli non ne fa. Sa di essere un taumaturgo e di poter compiere qualsiasi miracolo, ma non lo fa. Lo mandano via dall’appartamento e va a vivere in baracca fuori città. Potrebbe trasformare questa baracca in una bellissima casa in muratura ma non lo fa, continua a vivere nella baracca e, alla fine, muore senza aver compiuto in vita sua un solo miracolo.” Casi, a cura di R. GIAQUINTA, Adelphi, Milano 1990. (p. 98)
“C’era un uomo con i capelli rossi, che non aveva né occhi né orecchie. Non aveva neppure i capelli, per cui dicevano che aveva i capelli rossi tanto per dire.
Non poteva parlare, perché non aveva la bocca. Non aveva neanche il naso.
Non aveva addirittura né braccia né gambe. Non aveva neanche la pancia, non aveva la schiena, non aveva la spina dorsale, non aveva le interiora. Non aveva niente! Per cui non si capisce di chi si stia parlando.
Meglio allora non parlarne più.” Casi, a cura di R. GIAQUINTA, p. 11.
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