giovedì 8 dicembre 2011

Very Christmas Superstar

(pubblicato su www.teatro.org)


Con gran sfoggio di pelle, pacchi e pacchettini, buste natalizie e festoni d'ordinanza rossi e dorati, irrompe al Theatre De Poche Very Christmas Superstar - A very queer glam show, ideato da Claudio Finelli e Luciano Correale, ed invade una sala che si presta quasi a rappresentare l'antro betlemita con il suo naturale attendersi un eccesso di glamour anche nei dettagli della festa già di per sé più  iconografica dell'anno, presentandosi con un Tu scendi dalle stelle riarrangiato su un tema musicale di Lenny Kravitz (I Belong to You) che poi sfocia in Californication dei RHCP.
Ma il discorso musicale merita una citazione che faremo a parte, mentre l'allure di Nicola Vorelli fa subito percepire il suo più che discreto agio, fra voce ed espressioni, ammantando la scena con quella che potrebbe essere la sua personalissima, finta neve, fatta di una semplice e gioiosa pervasività.
Very Christmas Superstar si presenta come “una piccola favola camp-musicale su un Natale che non c'è ma che potrebbe esserci, su un amore che non c'è ma che potrebbe arrivare, su una società che non c'è ma che potremmo cambiare”, ovvero quel natale negato a coloro che in quanto omosessuali, come nella migliore tradizione moralista, a rigor di logica non dovrebbero poter appartenere al popolo festeggiante, in quanto indesiderati alla morale conformista cattolica, e nel cui animo pertanto, magari è più forte il senso della lontananza da ciò che è un simbolo dell'intima, contraddittoria mancanza di universalità.

E piace molto questa contaminazione, perché per una volta sembra agire al contrario, in quanto parte non da un concetto di normalizzazione (non se ne può più di moralismi che cercano di avvicinare due mondi con un procedimento che ricorda quello del taglio delle ali, dell'eliminazione dei lati e degli eccessi, per ritrovarsi all'interno di un pensiero centrato o centralizzato): qui si prende la tradizione più pura dell'occidente per la coda e le si chiede: ma Tu, sei stata creata soltanto per una metà del cielo, oppure per tutti? Ed ovviamente la risposta è che bisogna agire, ed andarsela a riprendere.
Il filo tenuto insieme dalla regia di Myriam Lattanzio è quello che intercala la presenza del protagonista gioioso quanto sperduto ad intermezzi come la favola del sedano Accio, l'angelo che volteggia intorno ed i video con cui si interagisce, dalla Napoli by night alla lunga serie di orrori del peggiore moralismo conformista sbeffeggiati con un esilarante “Fuck you very much” che fa da playback alle immagini (le quali altrimenti avrebbero rischiato di non averci fatto dormire la notte per l'oscenità dei volti...), all'elencazione di locali-icone della cultura omosessuale, ai flash sulla piaga dell'AIDS su “Do they know it's Christmas?” fino ad una delle aggressioni omofobe più brutali, quella del 2009 di via Pietrapiana a Firenze.
E nel calderone torniamo un attimo a ricordare il mix musicale, che dopo Lenny Kravitz è passato per Milva (Uomini addosso) ed Albergo ad ore di Herbert Pagani riarrangiato prima su Last Christmas di George Michael per passare a “E poi...” di Mina, attraversando “Parole Parole” ed approdando su “Riderà” di Little Tony. E poi ancora, Lacreme napulitane sulla musica di Billie Jean e di Thriller, con la risata finale di Vincent Price associata a Ratzinger, e White Christmas agito in simultanea con il video che si chiude con Darth Fener...

Un dosaggio giusto di denuncia e rivendicazioni, il cui coté è di quelli che faranno peggiorare il blocco psichico di coloro che non sanno confrontarsi con la questione omosessuale, nel momento in cui se ne tratta soltanto uno, ed il più ardito, ardente ed esibizionista, dei suoi aspetti, mentre sarebbero forse più colpiti da chi, ad esempio da gay dichiarato, rivela la sua difficoltà quotidiana nel vivere la normalità pretesa della società che lo circonda, e lotta per l'affermazione della propria identità. Ed ecco che mentre riflettiamo su questo lato forse anche più eroico, arriva il video di Jamey Rodemeyer, 14 anni, bisessuale dichiarato, vittima del bullismo omofobo, il quale non faceva che chiedere di essere ascoltato e preso sul serio: con un movimento che è un'onda con la sua risacca, prima strappa l'inizio di un applauso per le sue parole di strenuo combattente a faccia scoperta, e poi lo stronca sul nascere dopo soli due secondi quando sullo schermo appaiono le parole “Jamey Rodemeyer, 14 anni, morto suicida”.

domenica 4 dicembre 2011

I premi della 'Corte della Formica'

(pubblicato su www.teatro.org)

Serata di premiazioni e di bilanci per “La Corte della Formica”, il festival napoletano dei corti teatrali ideato da Gianmarco Cesario ed arrivato alla settima edizione, che ha portato sul palcoscenico del Piccolo Bellini diciotto rappresentazioni “under 20” racchiuse nello spazio di sole sei serate.
La formula innovativa, che ha permesso di effettuare una panoramica ampia in tempi brevi su numerose e diverse forme di comunicazione teatrale, ha fatto registrare un successo notevole di pubblico, dando merito allo slancio degli organizzatori che hanno scommesso sul nuovo e sul vario come uno degli elementi principali di attrazione della rassegna.
Nella sala II del Modernissimo, il 28 novembre scorso sono state invitate dunque tutte le compagnie che hanno partecipato al festival, oltre che stampa ed addetti ai lavori, per consegnare i numerosi premi previsti: le categorie in concorso infatti erano davvero tante, ed il lavoro della giuria (coordinata da Claudio Finelli, presieduta da Gerardo D’Andrea e composta da Roberto Azzurro, Fortunato Calvino, Francesca Rondinella, Gabriele Russo e Alessandra Stella) non è stato certo facile, dati i tempi ristretti ed il copioso materiale a disposizione, ma il risultato finale è stato accolto da un consenso alquanto ampio.
Condotta da Antonio Mocciola e Titti Nuzzolese, la serata ha avuto modo di far conoscere attori e registi coinvolti nei corti.
Fra i riconoscimenti, anche il premio speciale del nostro giornale, deciso dai lettori: come trait d'union fra le assi del palcoscenico ed il pubblico, abbiamo scelto di essere in questo caso un punto di contatto, una delle possibili misure attraverso le quali si registra il consenso verso un prodotto artistico, ovvero, trattandosi di un portale su internet che ha la possibilità di quantificare gli accessi suddivisi per ogni corto teatrale in gara, il risultato è stato dato appunto dal numero dei contatti ricevuti.
Nel darci appuntamento per la prossima edizione, dunque, per la quale ci aspettiamo ancora altre coraggiose innovazioni, rileggiamo l'esito nei dettagli, diviso per le varie sezioni e con le singole motivazioni:

SEZIONE CORTI TEATRALI

MIGLIOR CORTO
CREPACUORE
per l'intensità emotiva e la densità tematica con cui ha sintetizzato, nel respiro breve di un corto teatrale, la tragica ed inattesa convergenza di bene ipotetico e male concreto, convergenza che informa ed attraversa, con imprevedibile ferocia, la vita di ogni uomo .

MIGLIOR REGIA
CIRO PELLEGRINO (Visioni)
per la capacità di dominare con esperienza e senso dell'innovazione una forma di teatro polisemo, immaginario e visionario, una forma di teatro i cui linguaggi, accordati all'unisono nella realizzazione dell'opera, traducono con corrusca armonia la poetica magica ed onirica dell'autore.

MIGLIOR ATTORE
DUO MIMATTO / Luca Di Tommaso e Francesco Magliocca (Sketch e Scotch)
per aver osato sfidare con evidente bravura, verificabile coraggio e matura consapevolezza, l'autorità indiscussa del teatro tradizionale, recuperando a livelli di altissima arte clownesca, il gesto che esprime più di ogni parola e la voce che, ancor prima della lingua, ha in sé l’elemento concettuale e il segno che gli è proprio.

MIGLIOR ATTRICE
DILETTA ACQUAVIVA (Crepacuore)
Per la drammatica sincerità di un’interpretazione nitida e calibratissima, un’interpretazione la cui sobrietà e la cui disarmante disinvoltura diventano volani d’accelerazione narrativa di un trauma senza paragoni che amputa, con un taglio netto e privo d’ogni indugio, l’epifania pur minima e improbabile del bene dalla desolante esistenza di un’oscura vittima del nostro mondo immondo.

MIGLIOR TESTO ORIGINALE
OPERAZIONE ERODE di Claudio Buono
per l'abilità con cui riesce a calare, con rigore e puntualità, il gioco satirico e il  ribaltamento parodico in una forma di messinscena epigrammaticamente acuta e sarcasticamente bruciante.

MIGLIOR ADATTAMENTO
SAMARITANO di Massimo Stinco
per la tensione drammatica che innerva la trasposizione teatrale dell’affascinante medio-metraggio di Magnus Mork, proponendo sulla scena, con equilibrio e misura, il dilemma sempiterno della solitudine del desiderio e del desiderio di solitudine.

SCENE E COSTUMI
ARTEFIA LAB (Ludus)
per aver interpretato con spiccata inclinazione ludica e significativa tensione creativa una dimensione metafisico-narrativa sospesa tra l'ancestrale immanenza del mito e la fantasiosa contingenza del lazzo.

TARGA SPECIALE DEL PRESIDENTE DELLA GIURIA
SIGH! PINOCCHIO
di Salvino Calatabiano
regia Vita Bartucca e Salvino Calatabiano
per la convincente ed armonica fusione tra cifra poetica, definizione drammaturgica e concreta realizzazione scenica, fusione che, pur accordandosi per toni ed atmosfere al modello antico del cantastorie popolare e fiabesco, non esita a confrontarsi con l’attualità politica e sociale di un precario e dolente terzo millennio.

TARGA STELLA FILM
SAMARITANO di Massimo Stinco
per la capacità di tradurre, con immediatezza, autenticità e semplicità, l'architettura narrativa propria di un avvincente short film in un progetto drammaturgico che tocca le corde più intime ed equivoche della nostra grigia e disperata quotidianità.

TARGA TEATRO.ORG
LEOPOLDO E TERESA di Peppe Celentano

GIURIA POPOLARE
1) OPERAZIONE ERODE di Claudio Buono -  Regia Roberto Nicorelli
2)CREPACUORE di Erika Z.Galli - Regia Martina Ruggeri
3) LEOPOLDO E TERESA Testo e Regia di Peppe Celentano

SEZIONE MOVIE

MIGLIOR CORTO CINEMATOGRAFICO
108.1 FM RADIO di Angelo e Giuseppe Capasso
Per aver compiuto una perfetta sintesi espressiva sul tema “Buoni e Cattivi”, evidenziando la drammatica superficialità emotiva di cui è vittima l’uomo contemporaneo nel suo quotidiano subire suggestioni dettate dai mass media. Tutto ciò è raccontato, inoltre, con una precisa cifra stilistica ed un più che appropriato uso di un robusto linguaggio cinematografico che fa sua e personalizza la lezione dei grandi maestri della suspense.

MENZIONE SPECIALE PER LA SCENEGGIATURA
LA MIGLIORE AMICA di Daniele Santonicola
Per l’alto valore didattico di una sceneggiatura che racconta ai giovani una storia che parla di loro, delle loro inquietudini e fragilità, ma anche della spietata indifferenza e disperata corsa verso falsi miti di cui sono vittime. Una storia drammatica che mette le nuove generazioni e quella dei loro genitori di fronte ad una realtà dura e che denuncia le loro responsabilità, senza nessuna concessione ad un consolatorio pietismo.

MENZIONE SPECIALE PER L’USO ESPRESSIVO DELLA TECNICA
LACRIME NERE di Max Croci
Per il perfetto incastro con cui si utilizzano inquadrature, fotografia e montaggio, che qui rappresentano un alto valore espressivo nell’accompagnare la recitazione degli attori in un elegante gioco di immagini mai lezioso o fine a se stesso, ma, anzi, risultante finalizzato a contribuire drammatico spessore ed originale versatilità alla pur non inconsueta ambientazione circense, che qui diventa teatro di uno spettacolo tragico e di passioni raggelate.

SEZIONE SCRIVERE A CORTE

MIGLIOR RACCONTO
IL CIRCO di Gianluca Grimaldi
per l'essenzialità poetica con cui racconta, attraverso la piacevole e tragica linearità stilistica del dramma minimale, la dura vicenda del destino iniquo che all’improvviso ci travolge inerti.
Menzione speciale del presidente della giuria

LE UOVA DI ALMIN di Vera D’Atri
per la verificabile capacità di organizzare una struttura narrativa sapiente ed articolata in grado di coniugare, in sole tre cartelle, densità contenutistica, concentrazione stilistica e preziosa cura formale.

Menzione speciale “BUONI E CATTIVI”
LA CRAVATTA GIALLA DI CIRUZZO CROCE di Raffaele Abbate
per aver proposto, con vivacità di ritmo e chiara vocazione ad affabulare,  la dialettica antica del sopruso e del rancore, facendo dell’ironia mordace e di un arguto senso della caricatura i grimaldelli stilistici di una felice soluzione narrativa.

giovedì 24 novembre 2011

Sogno di una regia d'estate


(pubblicato su www.teatro.org)

C'è un ambiente surreale, e quinte sospese, o meglio appese a mollette da bucato rosse, una piccola orchestra di accompagnamento sul fondo, vestiti dalla dominanza cromatica rossa quasi moderni, salvo i mantelli che richiamano l'antica nobiltà: appare così, con un tocco subito elegante, la scena del Sogno di una notte d'estate riletta da Carlo Cecchi (il titolo è stato modificato in tal senso dalla traduttrice, la poetessa Patrizia Cavalli).
Entrano la compagnia ed il capocomico, nella riproduzione di quella che è la scena di norma meno commentata e considerata, fra le tre dell'intreccio shakespeariano, nella quale una compagnia sgangherata di artigiani intende mettere in scena una rappresentazione più che dilettantesca sul tema di Piramo e Tisbe, ed è quella scelta dal regista per ritagliarsi la sua parte, trasferendo peraltro l'ambiente in linguaggio pressappoco vernacolare, che risulta quasi un'incursione fra i suoi allievi.

L'idea infatti è stata quella di portare in scena il saggio di diploma degli allievi attori dell'Accademia "Silvio D'Amico" del giugno 2009, e non nasconderò che il primo impatto è stato vagamente, e per principio, dubbioso: di Shakespeare se ne sono visti, giocati e trasformati più che ogni altro autore, per ovvi motivi (il primo ricordo infatti vola subito a Peter Brook, alla sua scatola bianca vuota ed alle fate maschili che si esibivano al trapezio), e così la prima domanda che spesso ci si pone è se ognuna di queste riproposizioni abbia un senso almeno filologico, attraverso mezzi, linguaggi ulteriori che ne facciano risaltare significati che così disvelano l'essere universale del testo, oppure non siano soltanto un ritmo di vestiti e trovate cangianti che semplicemente si indossano, come se le Ninfe del Sogno declamassero il loro essere Ninfe senza tanto accorgersi di avere un vestito rosa anziché verde, mentre magari gli avrebbe donato di più quello da Ninfa.
Ma qui il dubbio dura poco.
Il loro richiamare quasi un gioco infantile, il Puck versione fantasy-punk, il bosco sempre acceso di colori sgargianti, brillanti, un accento forte sul luccichìo, sul salto e sul colorare che fanno quasi ricordare le moderne trasmissioni televisive per i bambini, questo modo di incontrare le visioni come se gli occhi fossero sempre spalancati come i loro, ecco, tutto restituisce un senso che fa pensare di aver trovato dentro Shakespeare una serie di spot gioiosi come magari sarebbe potuto essere stato nelle situazioni buffe e comiche (perfino quando inciampano nel tappeto d'erba) della commedia fantastica concepita all'epoca, giocose e magiche, piene di finzione quanto di incanto ed equivoci, led luminosi nei quali restano catturate le invenzioni del Bardo. Delizioso e geniale.

Un sogno divertente e divertito, quello di Cecchi, e contemporaneamente solido e deciso come i suoi colori, come i suoi costumi ed i suoi movimenti, come la festa dei matrimoni attesa dopo il pericolo dello scambio di coppie fra Lisandro, Demetrio, Ermia ed Elena, ma anche leggero, come devono essere state agli occhi di Shakespeare le contaminazioni delle Metamorfosi di Ovidio e dell'asino d'oro di Apuleio.


A corpo ed a misura

(pubblicato su www.teatro.org)


Tra le meno conosciute eppure tra le più piene di elementi di intreccio e di problematiche, Misura per Misura di Shakespeare arriva al Mercadante con Eros Pagni nella veste dell'immaginario Duca di Vienna, ed offre in un tempo relativamente concentrato la sua lunga alternanza di temi che hanno il pregio maggiore nel disporre dei personaggi a piacimento della vita, nel senso che molti di loro vengono messi in una luce diversa secondo le situazioni, rendendo una vivissima interpretazione dell'animo umano di fronte alle scelte ed ai dubbi.
Lussuria e fedeltà, etica e politica, giustizia ed opportunismo, sono solo alcuni dei motivi di riflessione in questa che viene spesso inventariata come problem play, ovvero come campo di prova sia per la commedia che per la tragedia, in una storia che vede il Duca Vincenzo lasciare temporaneamente il potere al suo fedele Angelo, dalla reputazione di assoluta giustizia e castità.
Naturalmente Angelo ben presto, assiso sullo scranno del Potere, si rivela nei due eccessi di rigorosità perfino eccessiva, e di lussuria indulgente al crimine, non sapendo che in realtà il Duca non avrebbe abbandonato il suo territorio, essendovi rimasto sotto le mentite spoglie di un frate, proprio per controllare la sua natura ipocrita. Gli intrighi si sprecano, si autoalimentano e si accavallano, così come i lati oscuri che fanno saltare di volta in volta l'attenzione sul "colpevole" fra più di un personaggio.

Data la natura stessa del testo, cui Marco Sciaccaluga si attiene con fedeltà, si risente di una certa differenza fra un avvio alquanto pesante ed un prosieguo assai più coinvolgente, poichè la lente di Shakespeare si sofferma in avvio in maniera alquanto eccessiva sulla morale e sull'osservazione dei caratteri, con monologhi e stasi (sottolineati peraltro da Tom Waits) per una commedia nera come quella che voleva essere, mentre nello svoglimento degli eventi, via via tutto si intreccia con battute e movimenti molto più rapidi e dai passi e tempi veloci, cambi di scena con soluzioni efficaci nei quali anche gli attori sembrano essere più a loro agio, creando un insieme di scena compatto e convincente.
A tutto questo giova anche una scenografia indovinata ed un'ambientazione che a volte sconfina nel modernariato (il Duca comunica i suoi desiderata via telefono, si alternano giacche e cravatte di adulti contro dark e punk di giovani) e che si appoggia ad una struttura semovente che si trasforma di continuo, nella quale i personaggi si inseguono ad occupare gli spazi di volta in volta, fino a costruire quasi l'immagine della Narren Schiff (La nave dei folli) di Sebastian Brant, proprio quella che ispirò poi Jheronimus Bosch.

"Non giudicate, per non essere giudicati;  perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati": è senz'altro questa, l'ispirazione che ha generato il discorso centrale del Duca, e proviene direttamente dal Vangelo secondo Matteo. Uno spunto particolarmente adatto a non centrare appunto la colpa su uno solo dei suoi personaggi, perchè se da un lato minaccia la punizione, dall'altro si riferisce allo stesso esaminatore e pertanto minaccia di non giudicare...

Poteri e Consorti

(pubblicato su www.teatro.org)

La serva schiavizzata segue i percorsi delle parole autoreferenziali che vaniloquiano monologhi con se stesse come in un gioco nel quale il bambino è costretto a rimanere da solo nel suo recinto con un paio di palle colorate: è il gioco del Potere che gioca la moglie del Presidente, autorizzata a pensarsi nel pieno e soprattutto nel centro della vita sua e di quella degli altri: nella commedia scritta da Thomas Bernhard a metà di un periodo tormentato come il decennio degli anni '70, fra attentati anarchici e repressione, anni che Bernhard vide da vicino e che incise con tratti sarcastici e cupi nel suo Der Präsident, i suoi personaggi prendono vita nell'incarnazione dell'amoralità sotto le forme di emblemi e caratteri che in questa edizione di Carlo Cerciello devono essere state assunte sulla scena con forme che probabilmente sono servite ad enfatizzare il loro carattere di visibilità contemporanea.
Questo perchè soprattutto dal punto di vista dell'impatto visivo, le distanze che si frappongono rispetto al testo di Bernhard vivono attraverso concetti che se da un lato conferiscono visione postmoderna, dall'altro rinunciano a mettere in scena gli accenti di un aspetto tipico delle sue commedie politiche, ovvero una finalità di smascheramento che insieme si trucca e si toglie il trucco, che insieme nasconde e rivela un volto che può ridursi ad una smorfia o ad uno sberleffo: visualizzare con idea ieratica la moglie del Presidente in cima ad una enorme, onnicomprensiva gonna di plissè nera, che tutto ingloba e tutto divora intorno, è uno degli esempi appunto di questa sostituzione, del passaggio dai tavolini e dalle figure statiche se non ristagnanti, a questi protagonisti, una che seppur fissa sembra muoversi attraverso il suo inglobamento, l'altro iperattivo nel suo appetito subliminal-sessuale.

Nella prima delle due scene, ispirata ad una propensione vagamente grotowskiana, la moglie del Presidente (una Imma Villa che regge benissimo il soliloquio, pur potendo ipotizzarne, tuttavia, un impeto ancor maggiore nelle sue variazioni e nei suoi sbalzi), in uno sfondo come quello dei fatti della Baader Meinhoff e delle bande anarchiche, si appara per i funerali di Stato ai caduti della scorta del Presidente, scampato invece per miracolo all’attentato. E non piange altri, che il suo cane, morto anch'esso ma di crepacuore, per lo spavento.
Ella è a tutti gli effetti il Potere, anzi il suo effetto collaterale ("assumere il ruolo della moglie del Presidente"), ovvero la Con-sorte, perché appunto il Potere si trasmette per osmosi, di fianco, di lato, di volto in volto, assorbendo chiunque cada o ricada nel suo raggio di interesse anche solo indirettamente, e perfino, come qui, per ius sanguinis.
Trasmutata in co-Potere, quindi, la Moglie schiaffeggia vieppiù la serva con parole come "Lei non ha nessun diritto di vestirsi di nero", tanto perchè sia chiaro che nemmeno le briciole delle apparenze, il Potere lascia ai sudditi, ed apostrofa inconcludenze quotidiane tipiche quali "Ma perchè mi è venuto in mente di andare al monumento al milite ignoto, quando volevo comprarmi un cappellino nuovo?"

Il Presidente invece si abbandona alla gozzoviglia anche volgare, intrattenendosi con la sua amante -non casualmente attrice- nella vasca da bagno di un hotel extralusso in Portogallo, e declama la sua visione dell'arte della politica, facendoci rendere facilmente conto che in qualsivoglia modo lo si possa considerare, l'unico vero limite deve ritrovarlo infine nello spazio che si rivela sempre troppo angusto, per il suo ego. Il tutto seguendo anche un ritmo frenetico (ecco il secondo quadro reinterpretato dalla regia), fino a sfociare nel ritmo della banda di monelli -uno dei migliori simboli da opéra-comique- della Carmen ("Nous marchons, la tête haute / Comme de petits soldats, / Marquant, sans faire de faute, / Une, deux, marquant le pas..."), sbeffeggiando il Potere con un riferimento peraltro citato anche esplicitamente, con il 33 giri in bella mostra accanto alla vasca da bagno.
C'è poi un tasto toccato più volte, e lasciato a porsi solo qualche domanda magari in attesa del processo coevo alle bande anarchiche, ed è quell'accenno che spesso viene fatto sui figli, prima dalla moglie del Presidente in tono accusatorio nei confronti della serva, e poi dal Presidente stesso (un Paolo Coletta che si getta senza esitazione alcuna in quell'ego, nuotandoci sempre con sicurezza), quando medita (ebbene sì, capita anche a lui) sui figli destinati ad uccidere i padri, e tanto basti per non aprire sull'argomento capitoli copiosi quanto ultronei.
Accennato ad un simbolo dell'elettronica inesplorato di accensione/spegnimento che si trova in cima al bagno a 5 stelle, resta da dire sull'ultima scelta interpretativa, ovvero quella di cambiare il finale: dalla visione nichilista del deperimento dell'uomo così come del Potere, che nel testo di Thomas Bernhard si realizza con la salma del Presidente composta su un catafalco, con una grande apertura dalla bara dalla quale si vede il suo volto, e con la processione formata dalla Moglie, poi dal Governo, poi dai Diplomatici ed infine dal Popolo, si giunge qui a spezzare la narrazione per dare lettura, con la voce delle due vittime (la serva e l'attrice), di una dichiarazione della terrorista Ulrike Meinhof -colei contro la quale all'epoca era in corso il processo- circa il suo rifiuto di accettare il ruolo fatuo e sottoposto della donna.

Thomas Bernhard
È l'ultimo salto, opinabile ancor più degli altri, fra quelli coi quali si son voluti cercare moderni parallelismi, se non pure superfetazioni in eccesso, il che se da un lato denota una decisione di intervento e riscrittura effettuato con partecipazione, va a sopraffare però l'affidabilità di ciò che già in origine era stato ottimamente esplicitato con i tratti essenziali quanto incisivi della stessa materia prima.




venerdì 11 novembre 2011

TourVillon


(pubblicato su www.teatro.org)

Accompagnato da una figura vagamente androgina, nonché da un roteare di velocipedi ricostruiti con biciclette e dai primi sussulti di accompagnamento non verbale ma verbalizzato con singulti stridenti e strillati, Francois Villon, o ciò che dovrebbe rappresentarlo, appare in tutta la sua silenziosa rumorosità, nel buio ed impiccato, come sarebbe dovuto avvenire nel gennaio del 1463, quando il primo dei poeti maledetti, dopo essere stato destituito dallo status di chierico e sottoposto alla tortura dell'acqua, venne condannato alla forca e successivamente salvato dal suo stesso appello presentato al Parlamento francese: una contro-sentenza oltretutto sorprendente, per un organo che quasi mai ribaltava le sentenze, ed in attesa della quale Villon in carcere scrisse la sua opera forse più famosa, quella Ballata degli impiccati così piena di paura da risultare sorprendente, per colui che aveva sempre dimostrato uno sprezzo notevole delle conseguenze delle sue azioni.

Sento di dover fare questa premessa per la sua stretta connessione non solo e non tanto storica, quanto rispetto alla resa drammaturgica e scenografica di questo Villon - il Romanzo del peto del Diavolo di Andrea Saggiomo: da quella forca il Poeta salta fuori con una caduta ed è come se sospendesse l'attimo di vita per reinserirvi, nel suo momento decisivo, gli elementi che lo avevano contraddistinto nel suo passaggio terreno ora in bilico, ovvero un arco vitale smodato, ed una poetica enigmatica quanto sonora. Sono elementi che lo proteggono, è vero, ma a volte anche lo sovraespongono. Non a caso, allora, Villon letteralmente atterra proprio in un cerchio di sale, simbolo per eccellenza del circolo magico neopagano e poi medioevale di rituale autoprotettivo, archetipico di uno stato di coscienza che junghianamente diventa affermativo del proprio sé.

In questo senso, dentro al cerchio (in cui trova un soldo) avvengono le scritture più riuscite di un testo senza quasi testo, perchè giocato quasi esclusivamente sulle essenze delle voci, dei corpi, delle luci e dei suoni: il migliore momento è senz'altro quello in cui a terra, nel suo cerchio, il poeta, faccia a terra, raccoglie con ossessiva e lunga, pertinace tentazione di autodifesa, i libri che gli sono stati gettati addosso, e se ne ricopre la testa, come per nascondersi da un giudizio terreno e per celare, occultare, proteggere un anfratto di anima da conservare, per rimanere dentro sé stesso.

Sotto una luna sospesa sulla scena, sulla quale si proiettano immagini dai colori decisi ed alternativamente monocromi, Saggiomo sperimenta col suo corpo e con quello di Gaëlle Cavalieri, alcuni passaggi stessi di Le Testament e della Ballade des pendus (“Dono e lascio il mio corpo alla nostra madre terra...”), ma la riuscita dell'operazione è inficiata dai troppi accenti sul verso estremo del fronte dell'angoscia, dell'inquietudine, in cui scene immutevoli e prolungatissime probabilmente opprimono o quanto meno sottraggono spazio ad innumerevoli possibilità offerte dal personaggio, così come una scelta sonora con volumi difficilmente comparabili e compatibili fra le differenze delle scene stesse, come quello della cagnara in un crescendo ansiogeno, e nell'assenza di resa esegetica che avrebbe donato molto senso, come nel caso del lungo abbraccio con lo scheletro che diventa una danza - la danza macabra-simbolo dell'uguaglianza degli uomini nella morte, un classico del V secolo.

Viene da ricordare, senza scomodare nemmeno tanto le canzoni che gli dedicò Georges Brassens, quanta parte ebbe Villon ad esempio nel Gargantua e Pantagruel di François Rabelais, per pensare a quanta riscrittura un po' forzosa come questa, risulti anch'essa sovraesposta come gli elementi della vicenda di Francois Villon, con la differenza che stavolta, nel cerchio di sale, non è stato trovato alcun soldo.


lunedì 8 agosto 2011

Il Battiato classico di "Live up patriots to arms"

(pubblicato su www.teatro.org)

L’ultimo «Live up patriots to arms» di Franco Battiato arriva nel parco sul Mare di Villa Favorita ad Ercolano, in una serata in cui gli Scavi Archeologici restano illuminati per tutta la durata del concerto, per evidenziare come arte e cultura si uniscano in uno dei più affascinanti siti del Miglio d'oro.
E' un pubblico da grandi occasioni, quello che ha raggiunto Ercolano per uno degli appuntamenti più attesi della XXIV edizione del Festival delle Ville Vesuviane: due ore intense e cadenzate dal suo repertorio più classico, seguito, come sempre accade, da un coro costante che partecipa cantando ed accompagnando gli innumerevoli successi che hanno seguito la storia personale e sociale degli ultimi trent'anni è più, come è stata disegnata dalla sua musica ("Questa sera mi siete piaciuti", è stato il suo commento al pubblico che nell'ultima parte si è inevitabilmente assiepato sotto al palco).

Si fa fatica ad enumerarli ed anche a commentarli; ma anche solo ricordandone alcuni, scorrendone la lista, si capisce quanto abbia significato il suo lavoro e quanto sia patrimonio della memoria collettiva: sono circa trenta i brani eseguiti, scelti soprattutto fra gli intramontabili come Up patriots to arms in apertura, Un'altra vita, No time no space, Shock in my time, Uccelli, Segnali di vita, J'entends Siffler Le Train, La Canzone Dei Vecchi Amanti, Prospettiva Nevski ("la scrissi prima di andare in Russia, quando ci andai fu una vera delusione rispetto alle aspettative, sembrava Corso Buenos Aires a Milano..."), La cura, i Treni di tozeur, La stagione dell'amore, l'Era del cinghiale bianco, Voglio vederti danzare, Summer on a solitary beach, Cuccuruccuccù, l'Animale, E ti vengo a cercare, Centro di gravità permanente...
Rispetto ad altre esibizioni, questa volta Battiato ha scelto un equilibrio più armonioso fra orchestrazione classica ed elettronica/rock, senza ricerche estreme, solido ed integrato, e questo rende il tour decisamente fra i suoi più riusciti, grazie anche alle tastiere di Angelo Privitera, al pianoforte di Carlo Guaitoli, al Nuovo Quartetto Italiano (Alessandro Simoncini, Luigi Mazza, Demetrio Comuzzi e Luca Simoncini), e per l'ambiente rock a Davide Ferrario alla chitarra, Lorenzo Poli al basso e Giordano Colombo alla batteria. Affascinante anche la scelta delle date estive, iniziate con una tappa speciale al Festival Rock in Roma ed in corso in questi giorni con tappe che si fermeranno, come ad Ercolano, nelle più belle piazze e nelle location italiane più suggestive.

martedì 19 luglio 2011

Una Tana interiore

(pubblicato su www.teatro.org)

Difficile trovare una aderenza simbiotica più importante, in uno spettacolo, come quella fra location e testo che la regia di Francesco Saponaro ha ottenuto ambientando La tana di Franz Kafka nelle Catacombe di San Gennaro.
Cunicoli mentali che si irraggiano fra i corridoi del vestibolo del II secolo, soste dell'angosciosa ricerca della costruzione più che perfetta fra gli arcosoli, e tutto questo, ed è forse anche l'effetto più sorprendente, conservando un'atmosfera che perfino dirada la claustrofobia della narrazione di questo strano e non definito animaletto: lo si immagini come meglio si vuole, mentre dedica chissà quanta parte della sua vita al sommo scopo di costruire la sua tana.
Non una tana qualunque, però: La tana, quella che dovrà diventare rifugio inespugnabile, definitivo luogo per antonomasia che gli assicuri la sicurezza assoluta. Per arrivare a tanto, scava indefinitamente ed erige una complessa struttura fatta di labirinti, passaggi segreti, piazzeforti, botole… tutto inutile, come ben si può immaginare, quando una ricerca così spasmodica nasconde invece l'inquietudine della vera soglia del pericolo, quella sua interiore, che rende inutili le strenue difese e tecniche di controllo esteriore, per quanto sofisticate ("Non è detto che colui al quale faccio venir la voglia d'inseguirmi sia un nemico vero e proprio, può essere benissimo un innocente qualunque [...] Invece non viene nessuno e io devo affidarmi a me stesso [...], sembra quasi che io stesso sia il nemico in attesa della buona occasione di irrompere con buon esito.", dal testo di Kafka).
La drammaturgia di Gianni Garrera sceglie momenti di scambio instabile che si dipanano fra tre ambienti diversi delle aree cimiteriali ctonie di Capodimonte, e le luci scelte, soprattutto nella parte centrale e finale, suggeriscono stati d'animo che fanno propendere per un'attenzione estetica all'animo del lavorìo sotterraneo, piuttosto che alla sua irrefrenabile angoscia. Scelta che aumenta il legame con il genius loci, e con quel modo assai particolare che aveva il popolo napoletano di vivere l’ipogeo e l’aldilà.
In questo quadro, una Mascia Musy irreale, paradossale e sempre sotto il pericolo di qualcosa di incombente, interpreta ottimamente questo animale che rifiuta di rendersi conto che il Nemico non è fuori, ma dentro di lui, e per un pomeriggio esalta, abbellisce e fa comprendere il ricordo di quando questo sito costituiva senza ombra di dubbio, una tappa obbligata dei visitatori del Grand Tour.

Frammenti superficiali di Mishima

Espressione visiva e concettuale, più performance e ricerca sul linguaggio che teatro: iAi - azioni in scena, ispirate dall'opera di Yukio Mishima, porta al Ridotto del Teatro Mercadante per il Fringe uno spettacolo fatto di elaborazioni visive e sonore che si collocano fuori dagli schemi attesi su di un palcoscenico.

Unico interprete, Alessandro Martinello per Tam Teatromusica vuole ispirarsi alle Lezioni spirituali per giovani samurai, del quale tuttavia è più evidente l'ambizione culturale e l'anelito all'incontro-scontro interiore e con altre tecnologie, piuttosto che il viaggio di vita, parole ed azioni, di fisicità e di pieni e vuoti dello spazio intorno.
In una fondamentale eleganza ben mantenuta di stile e di estetica che unisce la carne e gli elementi della scena, dalla spada alla pergamena, iAi si propone di procedere per accumulo di segni, essenziali ma emblematici; questo indubbiamente aiuta l'accostarsi alla yamatologia, e tuttavia nella loro relazione estremamente fluida con la realtà, anzi nel tentativo di ricrearla, trova però un linguaggio asincrono che  seppur voluto, resta a metà fra l'elaborazione soggettiva dello spettatore, e la sua intrinseca ed in fin dei conti assai dubbia non-descrittività.

mercoledì 6 luglio 2011

Critica della ragion del non


C'è una regola aurea, presente in ogni religione ed in ogni sapienza della storia dell'umanità, che può definirsi come la regola, o meglio, l'etica della reciprocità: è quel codice etico per il quale ad ogni essere umano deve riconoscersi un trattamento giusto, che nella rete delle relazioni interdipendenti diventa una specie di assicurazione globale valida per tutti: io tratto bene te, perché tu farai altrettanto con me. E' chiaro quindi che diventa anche il fondamento stesso della pacifica convivenza, del rispetto e dello stesso concetto di giustizia.
Ci sono tracce di questo principio molto chiaramente espresse già nel pensiero greco, da Pittaco a Talete, a Sesto Pitagorico, Isocrate ed Epitteto. Provate a guardare, ad esempio, su questa pagina, un riepilogo di come questa sia sempre stata concepita come una regola etica universale.
Ebbene, dopo una rapida rassegna, sarà chiaro il concetto, immagino, eppure c'è qualcosa che colpisce credo inevitabilmente. Sembra un dettaglio. Non lo è.
E' una questione di forma, ma la forma, molto spesso, molto di più di quanto si creda, assume un valore di sostanza particolarmente marcato. L'esempio di quanto sostengo, credo l'esempio sovrano, soprattutto nella nostra civiltà, viene dal Vangelo secondo Matteo (7, 12). Prima di citare il testo originario, cerchiamo per un istante di ricordarci esattamente qual è, il principio dell'etica della reciprocità sopra ricordata, secondo il modo in cui emerge dai nostri ricordi di qualunque contatto abbiamo avuto ed abbiamo, con la religione cristiana. Anzi, se non siamo credenti o frequentiamo pochissimo le funzioni, ancora meglio, perché questo ricordo, se c'è come sono sicuro che ci sarà, vuol dire che è proprio un elemento-cardine della tradizione e della traduzione, dato che sarà presente perfino in coloro che hanno poca o nulla dimestichezza con l'argomento, il che mi aiuta a dimostrare la bontà di quanto mi salta agli occhi.

Ecco la citazione: "Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te stesso".
Si suppone che sia uno dei massimi e più conosciuti principi del Vangelo. Peccato solo che sia falso. E non di poco. Certo, a molti sembrerà invece che sia la stessa cosa. A me sembra invece perfino l'opposto.
L'originale del Vangelo secondo Matteo, infatti, dice: "Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro."
In fondo il senso è lo stesso, cambia solo l'aspetto del verbo, da positivo a negativo, si dirà.
...SOLO?
Mi scuso con questa inelegante inserzione di una parola a lettere maiuscole, serve per accentuare la mia indignazione. Dunque, sono arrivato a quello che mi sembra il punto più importante: l'uso del "non".
Il "non" è certamente alla base del principio dell'etica e della giustizia ("non nuocere" e "non nuocere all'altro"), ma c'è da chiedersi perché, anche laddove viene ribaltato nel principio dell'aiutare chi soffre, perdonare chi ha sbagliato e sollevare chi è caduto ("Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a Voi", appunto), una intera massa di persone che dovrebbero ereditarne il precetto, lo conserva invece con il suo reciproco negativo. Non fare.
Voglio tralasciare il lato dottrinale teologico, ed usare questo dato come una piccola riflessione su tutti i "non", sulla infinità di altri "non", di cui ci circondiamo in maniera da affaticarci la vita, e rendercela molto meno attraente di quello che può invece essere, specialmente nella sfera dei rapporti interpersonali.
Da quando conosciamo le proibizioni e gli obblighi con tutti i "non" che i genitori pronunciano verso i figli, fin quando discutiamo con la persona amata.
Diciamo pure che un bel "non" verso se stessi sarebbe anche apprezzabile di tanto in tanto, ma qui parliamo solo del "non" verso gli altri, quindi a questo punto sovvertiamo l'aspetto del verbo, trasformandolo semplicemente da negativo in positivo. Elementare, come spesso sono le cose rivoluzionarie. Facciamo un esperimento, o anche mille in qualunque situazione, e vediamo se qualcosa cambia davvero.

"Non devi fare una cosa" potrebbe diventare "Ti spiego come potresti fare meglio questa cosa".
"Non mi contraddire" potrebbe diventare "Cerca di capire meglio cosa sto dicendo, prima di rispondere così".
Probabilmente fa bene anche alla percezione di se stessi, sentirsi parlare così.
Non sarà determinante per le sorti dell'umanità come lo è l'etica della reciprocità, certo... ma potrebbe essere qualcosa che chiameremo etica della disponibilità, ovvero una forma di dono, e forse, nella quotidianità, questo atteggiamento, questa disposizione, questo andare verso l'altro, sono quanto di più necessario si possa offrire. Gratis, oltretutto.

sabato 21 maggio 2011

Calpestare le linee

(passeggiata su una carta geografica con l'orecchio teso ad est di Umberto Eco)
Cabeza de Vaca scopre davvero le cascate dell'Iguazù, ma quando torna a casa e racconta quello che ha visto lo prendono per matto. L'Eldorado si impoverisce, diventa qualche pepita...” (U. Eco)
Iguazù, è uno dei luoghi in cui si avverte meglio una certa sensazione dell’esserci, e di essere riusciti a ricostruire una mappa personale degli appuntamenti con se stessi. Il primo ricordo è che ci sono tre diverse zone convenzionali che compongono quel territorio, trovandosi all'incrocio fra le delimitazioni amministrative di Brasile, Argentina e Paraguay: da ogni lato, senti che guardare il lato opposto è proprio come calarsi dall'alto di una cartina geopolitica, e scendere fino a che la visualizzazione diventa geografica, finché quelle linee perdono di senso, lasciandolo soltanto alle linee rotte e frammentate della costa del fiume, ai dirupi da cui ci si affaccia, alla identità territoriale unica su cui sono poste tre diverse bandiere a distanza di pochi metri.
L’appuntamento con questo senso del viaggio è antico. Dovrei aver avuto undici anni, perché era l'estate precedente l'ultimo anno delle scuole medie. Senza un preciso assegno, come si diceva allora, all'inizio di quei quattro (!) mesi di vacanze mi venne in mente di preparare qualcosa per l'anno successivo, e così diedi uno sguardo al programma; scelsi la geografia, o almeno la scelsi come base di partenza, presi quello che allora si chiamava un quaderno di computisteria e cominciai a disegnare una ad una tutte le regioni italiane, a mano ed a colori, copiando un po' dagli atlanti, e poi a scrivere alcune pagine su ognuna, con i dati sulla superficie, gli abitanti, la densità, le caratteristiche orografiche, i confini, le bellezze antropiche e naturali, l'economia, nozioni storiche e linguistiche come anche culturali e floro-faunistiche. Una volta credo si chiamassero ricerche.
Poi l'Italia finì. Prima o poi, pure doveva finire, e del resto le regioni sono solo venti. E finirono anche molto presto. Cominciai quindi a guardare a nord, e passai all'Europa. Demografia, economia, storia, cultura... uno ad uno, tutti gli Stati europei rimasero disegnati sulle pagine del quaderno, ora colorati e classificati secondo i temi.
Ma naturalmente finì anche l'Europa, e così arrivò l'Asia, magica e meravigliosa, l'immensa Asia, poi l'America, l'Africa ed infine l'Oceania.
Il quaderno non era finito perché avevo aggiunto non so in quale modo alcuni altri fogli o prolunghe artificiali, ma il mondo si, quello era finito. Quell'estate si sentiva per radio la canzone Stranamore di Roberto Vecchioni, e la ricordo perchè pensai che mi sarei dovuto sentire un po' come il protagonista di quella storia, quando "il più grande / conquistò nazione dopo nazione, / e quando fu di fronte al mare si sentì un coglione / perché più in là non si poteva conquistare niente..."
Ed invece no. Non mi sentivo affatto perso o disperso, anzi. In quei pochi giorni mi sembrava di aver solo cominciato un viaggio, o meglio ancora, di aver preso più coscienza del valore di un viaggio in sé. Dovevo senza dubbio iniziarne subito un altro.
"Passavo ore al liceo, a tenere l'atlante sotto il banco. Andavo in Siberia, da lì in Kamchatka. Alla base della geografia c'è immaginazione e curiosità. E che la geografia sia legata alla ricerca del paradiso terrestre mi sembra ovvio: le prime carte geografiche, in Occidente, cercavano appunto di localizzarlo. Sono affascinato dalla geografia immaginaria, perché ogni geografia in statu nascenti lo è, altrimenti registra quello che si sa già" (U. Eco)
Una volta consegnato, il primo giorno di scuola, quello che si rivelò essere l'intero programma dell'anno già svolto, pensai che c'era poco altro che poteva venir fuori da un'aula o da un sussidiario, anche se il fascino delle carte geografiche rimaneva sempre intatto.
L'attrazione per una carta geografica è una cosa alquanto complessa ed entusiasmante, a partire da quelle cosiddette politiche, davanti alle quali il primo pensiero, la prima domanda era se ci fosse, e se si quale, un collegamento fra i colori scelti per distinguere gli stati tra loro: le carte sulle pareti delle aule erano un luogo a metà fra la mente che li scolpiva immaginandoli, ed i sentieri, i fiumi e le montagne reali su cui posare un piede o da guardare camminando a ritroso, come quando si torna da qualche posto e si vuole che la memoria visiva padroneggi un panorama per l'ultima volta, prima di tornare indietro.
Nelle carte di scala più ridotta, quelle difficili anche da aprire e tenere sul tavolo, c'erano di sicuro le scoperte più ricche. Quelle che mai avrei potuto riprodurre sui quaderni.
Per riuscire ad aprirle per intero bisognava metterle in terra, e poi sdraiarvisi sopra, con la faccia a pochi centimetri, come sorvolando il terreno da un elicottero, per accorgersi di particolari difficili da vedere nell'insieme, curve altimetriche, affluenti, villaggi... era solo difficile muoversi senza rischiare di stracciare la carta, il resto veniva da sé. Andava e veniva, da sé. Posso ringraziare le circostanze che mi hanno consentito, negli anni, di andare in tanti di quei posti su cui avevo già volato; una delle cose più affascinanti, una volta che ci si trova in uno dei luoghi già immaginati, è la sensazione di stare con un piede sopra una linea che si ricorda perfettamente di aver già visto, e vissuto in quel modo. Toccare una strada o mettere la mano in un fiume, è come sdraiarsi ancora su quella carta, per terra, oppure come aver mantenuto fede ad un appuntamento preso molti anni prima. Come andare ad un appuntamento preso a distanza di così tanto tempo. È come potersi fidare di se stessi. 

"Quando torna a casa e racconta quello che ha visto lo prendono per matto. L'Eldorado si impoverisce, diventa qualche pepita...": forse è per questo che non ho tenuto mai dei diari di viaggio. Eppure ci ho sempre pensato.
Forse perché quelle pepite del ritorno che ti ritrovi nelle tasche, ricordando i filoni d'oro, immensi e sotterranei visti sul luogo del desiderio che si materializza per qualsivoglia immaginazione, nelle tasche si sentivano come derubate del loro habitat, e nessun altro habitat sapevano che avrebbe mai potuto accoglierle. Tantomeno nei racconti. Tantomeno nella traduzione e nella condivisione, quella del tentativo di descriverle.
Soltanto chi è completamente innamorato delle Parole, conosce a volte la loro inanità.
Ed ogni traccia che è stata disegnata su una carta prima di essere stata vissuta di persona, può nascondere questo potere: come le mie sono state e saranno tante ancora, per altri potrebbero essere e saranno ancora completamente diverse.
"Il tunisino parte perché ha una geografia dei sogni. E al posto della mappa immaginaria, dei secoli scorsi, c'è la tivù. Si aspetta, appena arrivato a Lampedusa, di vincere due milioni in gettoni d'oro" (U. Eco)
Ovvero, come anche potrebbe dirsi, le tracce sono il potere. Magari anche un destino fortemente già inciso. Segni, lasciati sospesi finché non acquistano il senso che qualcuno attribuisce loro, magari perché ci si è sdraiato sopra anni prima, o magari perché ha sentito il jingle della risposta esatta in tivù. Ovvio per il nostro punto di vista preferire che sia un sentiero fatto in pietra, a materializzare la strada che congiunge un punto di patenza ad un arrivo, e sentire il vento, guardarsi attorno, ma il percorso in sostanza è lo stesso, ed avere una meta conta soprattutto, se non soltanto, per il viaggio da cominciare.
Pepite. L'Eldorado potrebbe stare dappertutto. Meglio tenere gli occhi aperti. Sarà per questo che il bisogno di viaggiare appartiene in modo così profondo a chi ha una propria mappa interiore; una cartina geopolitica su cui distendersi per fissare gli appuntamenti; un pensiero di quelli che accendono un sorriso automatico al solo tintinnio del lontano preannuncio del suo arrivo.
Mettere il piede su ogni punto della carta immaginato ed atteso. Calpestarlo come per assicurarsi che esiste il proprio punto sognato. E scendere in profondità, calandosi dall'alto.
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Le citazioni di Umberto Eco sono tratte dalla conversazione con Wlodek Goldkorn (potete scaricarla qui) pubblicata in questi giorni, in occasione dell'uscita del suo libro Costruire il nemico.
E' da lì, che è cominciata questa passeggiata.