lunedì 31 gennaio 2011

Cantami o Diva, del Ludico Achille.

(pubblicato su www.teatro.org)


Achille Campanile era molto avanti, si direbbe oggi con linguaggio pseudomoderno, ed è il caso di farci particolare caso, al linguaggio con cui se ne vuole parlare, perché è proprio il centro del suo manifestarsi, insieme con la traduzione fisico-corporea che se ne riesce a dare su di un un palcoscenico.
Di fronte ai livelli plurimi di gioco innestati fra le espressioni, le parole, le storie dentro le storie che durano a volte anche un solo secondo, altre una intera trama, viene in mente subito un'antica radice etimologica anglosassone che accomuna il senso "ludico" al gesto del saltellare: è un'immagine che non abbandona mai lo spettatore, di fronte a questo “Il povero Piero” della compagnia Teatro In Fabula e diretto da Aniello Mallardo, ovvero, potrebbe dirsi, ai profili vari ed eventuali di vanità/alterità e superficialità nei comportamenti umani.
Piero viene colto da morte (apparente), e dall'evento, soprattutto per le particolari disposizioni testamentarie (l'annuncio della sua morte sarebbe dovuto avvenire solo dopo i funerali) conseguono le evidenze di una folta schiera di sentimenti diversi e spesso come dire, convenzionalmente poco consoni all'evento luttuoso, sia per ipocrisia che per paradossale inclinazione al sotterfugio.
Ma la trama è soprattutto un mezzo per saltellare, appunto, con lo stesso spirito ludico fra il Senso ed il sotteso gioco linguistico: c'è satira pungente, ci sono situazioni esilaranti, maschere tanto grottesche da sembrare reali, così come riflessioni taglienti in intensa salsa agrodolce sul senso della morte e della vita (come in un abbraccio, così principia e termina lo stesso racconto: colui che vive, semplicemente “sta fabbricando un morto” - e “La vita e la morte sono una cosa sola, come il fiume ed il mare”): e quanti, leggendo Campanile, non sentono echi nemmeno tanto lontani di moderni Bergonzoni...?
Tutto questo, si può ben immaginare, non può essere semplice da portare sulla scena: eppure all'Elicantropo si è materializzato un sorprendente saltello continuo fra il turbinio ritmico della scrittura e degli attori, dipinto anche sugli stessi volti dei personaggi, ed hanno preso corpo e respiro anche le interpunzioni sul plot con i giochi di parole intorno alle vicende come sulle minuzie (su tutti il sublime “Grazie, arcavolo!”), rese con un effetto surreale molto vivido, da sembrare quasi una tela di Joan Mirò, sulla quale di tanto in tanto far apparire anche il gioco d'ombra colorato del racconto delle altre stanze.

Compito arduo, realizzazione impeccabile. In particolare, Raffaele Ausiello e Stefano Ferraro hanno raggiunto un sincronismo ed una precisione davvero poco comune e molto coinvolgente, Giuseppe Cerrone ha sostenuto un Piero costantemente diviso fra l'intimista e l'indole allo scherno, ed Alessandra Mirra ha dato prova di una espressione interna ed esterna sempre aderente al personaggio con una concentrazione naturale ed insita in ogni movimento; e tutti nel loro continuo stimolo, nel funambolico inseguire il serio a cavallo di un destriero faceto, sembravano interpreti costanti di una delle riflessioni d'apertura (“La vita ci reclama coi suoi doveri: la vita Urge”).

Mi siano concesse, con altrettanta effervescenza, le mie prime 5 stelle.

lunedì 24 gennaio 2011

Gocce di potere

(pubblicato su www.teatro.org)

Prima ancora che cominci lo spettacolo, ci si ritrova nelle pagine di quella fine degli anni '60 in cui Rainer Werner Fassbinder ambientò uno dei suoi primi racconti, questo Tropfen auf heiße Steine (Come gocce su pietre roventi), grazie alla scenografia che poggia su un ampio tappeto bianco stile Warner Panton, ed a particolari come un accendino da tavolo argentato, alcuni LP con canzoni che via via scopriremo, ed altri oggetti che non fanno pensare ad un ormai inflazionato effetto vintage, ma anzi ad un piacevole e reminiscente gusto agé.
Ancora diciannovenne, Fassbinder nello scrivere questa commedia pseudotragica ottenne forse due risultati: da un lato, adoperò una penna acerba che rese la scena talvolta assurda e pertanto non facile da interpretare, e dall'altro mise invece già in evidenza alcuni degli aspetti della sua successiva drammaturgia, costruendo un meccanismo di relazioni che non rimane estraneo agli strumenti violenti dei rapporti di produzione economica, anzi vi si adegua nelle sue forme estreme dello sfruttamento e del potere, leggendo perciò i rapporti fra i personaggi soprattutto alla luce della dinamica vittima-carnefice (dice Franz a Leopold: "Hai bisogno di me?" - "No, Tu, hai bisogno di me"), in un parallelo fra la loro dipendenza e quella di entrambi dal potere dell’apparato sociale che sovraesiste, ed il risultato percettibile è quello di rendere ogni loro "ti amo" più un mal di pancia psicosomatico che altro.
Nel racconto, un giovane Franz si lascia irretire da un maturo e dominante Leopold, affascinante uomo dalla notevole esperienza, fino a cambiare la propria vita di probabile futuro sposo di Anna e di padre di famiglia, per andare a vivere con lui e diventarne anche lo schiavo. Ma dopo soli sei mesi, il rapporto si logora ed entrano in gioco le rispettive ex, che vengono però immediatamente attratte nelle spire del potere di Leopold. A Franz, incapace di qualsivoglia reazione, come alternativa resta solo il suicidio, ed anche in quel momento prevale un intreccio con il gusto dell'assurdo, quando telefona alla mamma per salutarla, e lei poi commenta banalmente con Leopold al telefono l'accaduto.
È come un gioco in cui ogni pedina, per quanto diversa, alla fine è sempre la stessa: l'amante del passato, quello del presente e quella del futuro (Anna, l'ex di Franz).
Ed è un gioco nel quale spicca la linea paradossale, e molto borderline, che lega i due opposti dell'estrema affabulazione di un Leopold (Arnolfo Petri) sicuro di sè e del suo poter predare chiunque, suadente e seduttore, che sovrasta sia fisicamente che in personalità le sue vittime, ed all'opposto lo sguardo senza voce di Vera (Autilia Ranieri), che sembra perso nel vuoto, ma resta invece intenso e pieno del nulla cui sono ridotti i loro sentimenti. Chiamiamoli così.
Fassbinder sembra anche riproporre quella unione di due soggetti asimmetrici in un unico processo dialettico di memoria ateniese, in un classico rapporto omosessuale del tipo erómenos/erastes tuttavia alquanto claustrofobico, sia spiritualmente che fisicamente, ben sottolineato dall'interno della casa: "Trovo che qui dentro tutto sia così... provvisorio", dice Leopold, e sembra che anziché delle quattro pareti parli proprio dell'amore, spoglio e precario come il suo animo, tanto che riecheggia una memoria significativa di Franz, quella del non baciarsi ("sembra contro natura") dei suoi immaturi rapporti omosessuali precedenti.
Il finale è una degna coazione a ripetere, quando dopo il fastidio per un cadavere di cui sbarazzarsi ("Questi giovani d'oggi sono così fragili, insicuri.."), il trio superstite torna allo schema del potere del sesso, e del sesso del potere ("Vai di là, mettiti a letto, io metto un po' di musica e arrivo").
Va citata a parte la colonna sonora, che si ricorda soprattutto per una incisione di Patty Pravo in tedesco, un Tanze Samba mit mir più volte ripetuto, nella versione di Tony Holiday, e soprattutto Regenzeit , Tränenlei, la versione tedesca di Dalida di Rain and Tears degli Aphrodite's Child.

venerdì 21 gennaio 2011

Atti unici non canonici

(pubblicato su www.teatro.org)

Le immagini di Eduardo scorrono come un treno davanti ai 9 attori/spettatori sulla banchina, poi tutto viene coinvolto in un tango ed ancora in un complesso di movimenti/danza/sovrapposizioni di parti e dialoghi, quando convulsi, quando più armoniosi, ma un po' troppo simili al famigerato Napoletango per non far pensare ad una vera e propria firma di Giancarlo Sepe. Così si apre la scena, ed il pensiero immediato è che mettere anche in Eduardo questo tipo di teatro di movimento che rimanda un po' troppo alla famiglia Incoronato, ed a quel “un microcosmo che si racconta attraverso la danza” presentato nella scorsa stagione , ebbene forse è un po' troppo, perchè più che cifra stilistica della regia, rischia di diventare una lente d'ingrandimento su cui è già stampata una vetrofania da cui traspare sempre la stessa immagine.
Riguardo Eduardo ed i suoi atti unici, sono stati scelti Pericolosamente (1938), Occhiali neri (1945) insieme con Filosoficamente (1928), Sik-Sik l'artefice magico (1929) e La voce del padrone (1932). Rimando a www.teatro.org per le trame, estrapolate dalla presentazione stessa.
Rocco Papaleo e Giovanni Esposito, con la compagnia degli Ipocriti, creano l'immagine di un filo conduttore che forse non ci sarebbe, ma che viene fuori nel senso stesso dell'unicità degli atti, ovvero il loro essere tante vicende che dalle strade, dai palcoscenici e dagli appartamenti napoletani, sembrano infine un'unica presenza di significato.
La scena, spesso estremamente scarna, lascia grande spazio alle battute più intime di un Eduardo che rimane sempre alterno fra comicità, spirito della strada ed un tipo di scelta di dignità, coraggio ed assolutezza che fanno sempre i suoi protagonisti, prima o poi, soprattutto se restano seduti sui gradini più bassi della scala sociale. E l'essenza eduardiana, per fortuna, è ciò che prevale sempre, anche in operazioni di riammodernamento come questa.
È un piacere soprattutto trovare in Giovanni Esposito una presenza naturale e comica, ed una capacità interpretativa che ne fa emergere il ruolo ben al di là della funzionalità della spalla per il quale era stato scritto, ed in Rocco Papaleo una convinta conferma.
Fino a quando ci sarà un filo d’erba sulla terra, ce ne sarà uno finto sul palcoscenico: Eduardo  esprimeva anche così, il suo senso del teatro, ed è un bell'omaggio averlo ricordato prima del sipario.

martedì 18 gennaio 2011

I nostalgici quattro.

(pubblicato su www.teatro.org)

Il quadro di accoglienza lascia già subodorare quello che ci si può aspettare dal quartetto Papanimico: l'immagine di quattro cappelli diversi su quattro look da apparenti sfigati, che dal vino versato nelle quattro coppe diverse (3 in metallo ed una in vetro brillantinato), devono aver bevuto la pozione magica per trasformarsi in quattro cape fresche, ovvero l'unione "mente, corpo, spirito ed anima", pronta ad esplodere sul pubblico fisicamente, con un repertorio difficile a trovarsi oggigiorno, ma ben inserito anche nell'attualità con riferimenti precisi ed imprevisti.
Il panorama spazia dagli anni '20 agli anni '70, ma più che un'epoca precisa di riferimento, quello che arriva è un messaggio di unione fra generi assimilabili se non simili, nei quali l'ironia assume la funzione prevalente di costruire richiami mai fini a se stessi, ma pronti a far nascere dubbi, collegamenti, se non anche riflessioni importanti.
Il tutto viene intervallato da un innesto sapiente di rumori (quelli di Antonino Talamo, oltre alle chitarre ed al basso di Alberto Falco e Raffaele Natale) e da piccoli sketch comici (per restare in tema, una volta si sarebbe detto frizzi e lazzi), che collocano i Peppe Papa boys su un solco che, adeguatamente perseguito e trovando anche una maggiore intesa e fluidità, potrebbe collocarli a metà strada fra la Banda Osiris e Fred Buscaglione: si parte dal "Bravo!" "Grazie!" del Nerone di Petrolini, satira della dittatura del 1917, si prosegue per Lulù del cabaret del maestro Armando Fragna (chi non ricorda la versione di Laura Gore in Totò sceicco del 1950...?) e sulla leggiadra "Ma cos'è questa crisi?" di Rodolfo De Angelis, annata 1933, in una interpretazione particolarmente riuscita.
Visto poco dopo le feste, giustamente il quartetto si propone come "l'ultimo rigurgito natalizio, l'avanzo dei bagordi di Capodanno, il rinforzo dell'insalata...", ed un rinforzo alla loro operazione arriva soprattutto con Canzone Arrabbiata di Nino Rota (da Film d'amore e d'anarchia, 1973: "Canto per chi non ha fortuna canto per me, canto per rabbia questa luna, contro di te"), Carmine G (ovvero l'uomo che contava tutto) e la celebre “Agata”, già nel repertorio, fra gli altri, di Nino Ferrer, Renato Carosone e Nino Taranto, dedicata a Don Salvatore, l'uomo che “puzzava come una ciminiera”, canzone equivoca che in più di una famiglia italiana degli anni '30 e '40 veniva assolutamente censurata, se non proibita.
Peppe Papa riferisce che anni fa sua figlia gli chiese "Papà, ma tu cosa vuoi fare, da piccolo?", e forse la costruzione di questo spettacolo è anche la risposta che gli avrà dato: sorprendere, alterare, caricaturare, fornire la realtà di un apparente nonsense e di una ricerca dell'eccesso che ha perfino il pregio di risultare, ebbene si, mai eccessivo.

domenica 9 gennaio 2011

Fede, senza pietà.

(pubblicato su www.teatro.org)

All'interno del progetto Fondamentalismo di Antonio Latella per il Nuovo Teatro Nuovo, Tommaso Tuzzoli firma la regia di Brand, un dramma di Henrik Ibsen del 1866, non concepito da subito per il teatro, ma rivelatosi subito molto adatto al palcoscenco.
Questa volta il fondamentalismo è quello cristiano/occidentale, e parte dalla domanda che si vuole porre il regista su quale possa essere la funzione attuale del tentativo di fondere la vita reale con l'ideale della vita, sebbene nella luce troppo intensamente attiva, anzi attivista, di questo pastore protestante di Ibsen.

Brand torna nella sua terra dopo anni, per predicare alla sua gente (“scarti di anime”) cercando di trasmettere la sua visione della ricerca della salvezza ultraterrena attraverso il rigore assoluto di una sfida infinita -e perciò necessariamente perdente- a tutte le cose cui umanamente i suoi proseliti potevano dedicarsi in pressochè ogni ambito dell'umana ed ordinaria sperimentazione di vita.
Le scene ed i costumi di Fabio Sonnino ci trasportano in una Norvegia dalla natura ostile, tra fiordi e ghiacciai, carestie ed isolamento, e l'atmosfera è adatta per inscrivere Brand in un rapporto primordiale ed estremo in ogni sua manifestazione, perfino negli affetti primari.
Tratta ogni suo concittadino con sprezzo di ciò che è diventato, naturalmente per non essere stato ancora illuminato, e ponendosi da subito contro gli “schiavi della gioia” che hanno bisogno di “un Dio cauto e grigio come la loro fede”, fino alla spietata condanna della sua stessa madre, quali che fossero i motivi per tanta spietatezza (“Tu sola dovrai pagare per i peccati che hai commesso"), fino ad abbandonarla in punto di morte, senza pietà ("Chi vuole vincere, non ceda").
Brand è colui che aspira al proprio annullamento per essere la tavola sulla quale il Signore scriverà le sue parole, nel costante principio dell'aut-aut di Kierkegaard: tutto o niente, non contrattare mai, non fare compromessi, ispirarsi a quel Dio di pura energia che tutto muove e smuove, e che i miracoli “lui si alza e va a farli”, quasi come un Sovrano da manifesto futurista.
E comincia anche ad avere un certo seguito, comprensibilmente in un luogo ed in una epoca in cui una qualunque forma di speranza poteva venire somminstrata positivamente in dosi così massicce: fra tutte, la figura più significativa è senz'altro quella di Agnese, che lascia il suo uomo per seguire Brand e dargli un figlio che a sua volta verrà sacrificato per la purezza del suo ideale supremo, anche se stavolta non senza conseguenze che peseranno sulla sua sanità e soprattutto su quella di Agnese: in una scena di indubbia efficacia, con la sua furia spezza un blocco di ghiaccio a martellate come per rompere quello del suo cuore, e per rifiutare la sua condizione ed i suoi ghiacci in cui è stata costretta a seppellire i sentimenti urlando un paradosso che fa quasi ridere, per la sua enormita: "Io l'ho messo al mondo per vederlo morire, e questa sarebbe quella che chiami la mia vittoria...?!?", poggiandosi poi sopra come per avvolgere i resti del figlio in una ultima, inutile protezione dal ghiaccio.

Ma nell’adattamento del Nuovo, ha una grande valenza anche il valore politico del dramma, suggerendo il bisogno di riflettere fra la supremazia del bene comune rispetto a quella del singolo, ed allora ecco un mellifluo Podestà che blandisce il pastore in quanto strumento di aggregazione del consenso al suo servizio, e cerca di attirarlo nella normalizzazione del suo potere temporale, alias lo Stato o chi per esso, ma lui non cede e rilancia ancora una volta, con sermoni spietati in cui scenograficamente si percepisce la sua vera immagine, quella più rappresentativa, ovvero l'ombra proiettata sulle pareti di fianco che si agitamentre le parole si infiammano: le parole perdono ogni significato, quello che vale è la sua ira, quella di chi non vede mai in Dio un Padre, ma un Padrone.
Uno svolgimento sempre molto rigoroso e sempre altamente aderente allo spirito Ibseniano, questo del Nuovo che coinvolge l’intera compagnia stabile, anche in quei punti necessariamente gravidi di un tormento inflitto a sé stesso ed ai suoi conterranei.
La fine di Brand è quella di vedersi giudicato (già, anche lui...) alla stregua delle sue sentenze proprio da un “ex peccatore” che a sua volta si ritiene più puro di lui, e gli fa desiderare infine di morire da solo chiedendo a Dio: «Rispondimi o Dio, nell'ora in cui la morte mi investe, non è dunque sufficiente tutta la volontà di un uomo a conseguire una sola parte di salvezza?», ed ottenendo in risposta dalla bocca dello spirito della madre, finalmente, quella che sembra l'unica voce sana dopo tante, troppe asperità mentali: «Figlio mio, Dio è carità».

sabato 8 gennaio 2011

100°

Questo vale solo per festeggiare... il contatore mi dice che il precedente è stato il centesimo articolo di questo blog, e che sia capitato su Oscar Wilde è cosa che avrei scelto io, se l'avessi pensato.