venerdì 25 febbraio 2011

Un puntino di vista.

Il nostro punto di vista forse si sta assottigliando sempre di più, come l'obiettivo di una macchina fotografica che si restringe, sebbene il progresso sembrerebbe dover assicurare il contrario; azzardo questa ipotesi avendo in mente un particolare aspetto legato alla visione delle cose della Storia.
La nostra mente ormai è pressoché definitivamente indirizzata alla funzione di acquisire nozioni, prendere parole e concetti e disegnarli nella nostra mappa mentale del ventunesimo secolo, quella che appartiene al cosiddetto uomo moderno. In questo processo, secondo me, cresce in maniera colposa quella che chiamerei disabitudine al punto di vista.
Metto da parte un principio dell'osservatore che spesso si rivela utile se non essenziale (il caro principio di indeterminazione di Heisenberg), e rimango fermo all'aspetto storico: quando guardiamo a ciò che ci circonda del nostro tempo, ebbene con una certa facilità tessiamo le trame che ci portano a considerare le cose più o meno per quello che sono e che significano, con la sola variabile dell'autonomia soggettiva di cosa possiamo pensarne, ma con un terreno comune sul quale poterle comprendere e soprattutto condividerne con ogni altro le medesime basi concettuali.
Quando invece guardiamo a ciò che la storia ha scritto e tramandato, qualunque sia la fonte, ecco che senza accorgercene, quasi tutto è diverso, e non soltanto per una quantità di nozioni che ignoriamo (perché appunto, oggi pensiamo che “sapere” sia soprattutto un affastellamento di nozioni), quanto perché non partiamo dal presupposto che ogni e benché minima parte delle informazioni che abbiamo, in sé conti assai relativamente, se non abbiamo proceduto alla loro indispensabile contestualizzazione.
Contestualizzare, significa sedersi a tavola nel giorno in cui succedeva il fatto noto insieme con le persone e nelle precise circostanze ambientali in cui accadeva, e viverlo nel quadro complessivo, tenendo presente gli aspetti più vari che incidevano: c'era la corrente elettrica? Qual era il livello delle comunicazioni o telecomunicazioni? E quello delle conoscenze geografiche e scientifiche? Che rapporto c'era fra i fatti ed il territorio, ad esempio dal punto di vista dell'accesso ai trasporti ed alle infrastrutture? Quali erano i parametri socioeconomici standard e come si poneva all'interno di questi? Sarà facile dire che si sta parlando di una forma elementare di storiografia, ed è anche vero. Ma per quello che ci riguarda, basta anche soltanto che sia comprensibile l'impossibilità di pensare se non si hanno gli strumenti (e non le nozioni) per farlo con una certa attendibilità. E strumento principe è la consapevolezza di cosa significassero nella loro epoca, i fatti in sé che si raccontano; non per noi, quindi, ma anche e soprattutto per coloro che li hanno vissuti.
Sarà il caso di fare un esempio. Me ne vengono un paio insieme, e possono essere utili entrambi, anche perché riguardano la stessa figura, un tale Cristoforo Colombo, nato a Genova... a Genova? Uhm... mi fermerei subito... cosa significa esattamente, questo “nato a Genova”... qualche dubbio, pur se flebile, in letteratura si trova, ma si basa soprattutto su qualche chilometro più in qua o più in là, di qualche confine fra città.
In realtà, nel sostenere che è nato a Genova, non si tiene conto del particolare che a quell'epoca “Genova” era qualcosa di ben diverso, dall'idea che ne abbiamo oggi: come ogni città del bacino mediterraneo, “Genova” non era in un unico luogo, come siamo abituati oggi a pensare di una città, ma era invece un luogo diffuso, un'area che si trovava all'interno di ogni città di una certa importanza, soprattutto costiera, fino a quelle atlantiche come Siviglia: insomma, una specie di Chinatown di oggi, spesso presente anche con le stesse istituzioni ed attrezzature commerciali della Genova-madre. Se Colombo fosse nato nella "Genovatown" di Cadice, sarebbe stato appellato egualmente come "genovese".
Parliamo di un mondo in cui le stesse cose potevano stare, e stavano, in posti diversi, dove la mobilità del pensiero prevaleva sulla staticità delle nozioni: questo è un esempio di qualcosa di cui tenere necessariamente conto, ma della quale oggi non mi sembra di trovare molte tracce nel tenore degli insegnamenti che ad esempio narrano le vicende del 1492.
A questo punto andiamo anche oltre. Quando Colombo partì per la sua impresa, le singole località, i singoli paesi e le singole regioni, non corrispondevano affatto a localizzazioni precise ed univoche, ma a delle definizioni che per noi oggi sarebbero insopportabilmente vaghe ed imprecise. Perfino inconcepibili.
L'India è per noi, senza dubbio, il caso più eclatante. Che cos'era, l'India? Anzi, per meglio dire, che cosa si intendeva, nel XV secolo, con il nome “India”? Se partissimo dall'etimologia, verificheremmo con una certa sorpresa che già per i mille anni precedenti, sin da V secolo, questo termine aveva cambiato spesso sia il significato che la funzione, arrivando ad indicare anche cose completamente diverse: per i primi autori, in sanscrito indicava le regioni meridionali dell'Asia, con una estensione fino al Mar Rosso ed all'Etiopia (il “paese delle palme”); Marco Polo poi ne distingueva ben tre diverse, ed altri come il cartografo veneziano Fra' Mauro ne individuavano sempre più d'una, fino alle coste orientali del Catai (la Cina di Marco Polo), ed il motivo principale dell'aumentare costante della confusione fu senz'altro il commercio delle spezie che si faceva con queste terre.
"India" insomma, nel 1492, era pressoché ogni paese nel quale si coltivassero le spezie da importare. Basti pensare che quando gli inglesi conquistarono l'India (proprio quella che noi oggi conosciamo con questo nome), Lord Baden-Powell scrisse “L'India non esiste, è soltanto una espressione astratta”, riferendosi alla presenza all'interno dei confini delle terre occupate, di una quantità incredibile di culture e popoli assai differenti fra di loro. L'India, secoli dopo Colombo, era insomma ancora un gigantesco sogno. Così come lo era rimasto per lo stesso Ammiraglio, che tornò sicuro di non aver scoperto nulla ma di aver solo visitato il Cipango, il Giappone di Marco Polo. Ancora nel 1507, Amerigo Vespucci si chiedeva se l'America del Nord fosse l'India superiore o un'isola di fronte (da cui il nome delle Antille = le terre di fronte all'Isola). Fernando, il secondogenito di Colombo, scrisse che avrebbe voluto indagare su come fu possibile una simile grande impresa su fondamenta tanto deboli: oltre ad alcune letture, queste fondamenta in effetti furono due: la mappa dell'Oceano costruita da Paolo dal Pozzo Toscanelli (ormai introvabile) ed il globo di legno costruito da Martino di Boemia (che ora si trova nel Museo nazionale tedesco di Norimberga). In proposito, mi piace ricordare solo che la mappa principale su cui si basò l'intera, epica spedizione, fu disegnata da un uomo che aveva varcato i confini della sua stessa città probabilmente una sola volta, ma che scrisse in una lettera all'Ammiraglio che quella era di sicuro la Strada per l'India.
Ricostruzione ipotetica, in proiezione cilindrica, della carta inviata da Paolo dal Pozzo Toscanelli a Cristoforo Colombo













Le cose insomma si spostavano, si muovevano, nell'epoca delle conquiste del sapere geografico. E nelle menti di chi le viveva, creavano connessioni che oggi non possiamo forse nemmeno comprendere fino in fondo, ma che certamente formavano un quadro complessivo di riferimenti che oggi sfugge ai non addetti ai lavori: dalle motivazioni, ai mezzi, alle opportunità, alle scelte. Questo resta soltanto un esempio, ma forse basterà per suggerire che abbiamo il dovere di affrontare il passato con la coscienza di accettare l'idea che ci sono sempre molti altri piani per accedere alla sua comprensione, altri punti di vista, rispetto ai quali il nostro di oggi, nonostante la quantità infinita di dati a disposizione, se resta solo e non interagisce con gli altri, rimane soltanto un puntino.

lunedì 21 febbraio 2011

Heidegger, la Star fra i falò.

(pubblicato su www.teatro.org)

È il 27 maggio del 1933. L'acclamazione entusiasta degli studenti combattenti della milizia paramilitare nazista Sturmabteilung (le SA, Squadre d'Assalto), non priva del contorno di bandiere uncinate d'ordinanza, accoglie all'Università di Freiburg il discorso del rettorato con il quale Martin Heidegger prende possesso del suo nuovo incarico, con un discorso in cui la simbiosi con quella atmosfera sembra potersi rintracciare anche in un particolare lessicale, quando nel pronunciare la frase "Tutto ciò che è grande… è nella tempesta", Heidegger fece uso dello stesso termine (Sturm) con cui Ernst Röhm e le sue SA appellavano se stessi (Sturm Abteilung).
È la stessa frase che intitola il lavoro portato al Nuovo scritto da Federico Bellini per la regia di Andrea De Rosa, inserito nella stagione dedicata al Fondamentalismo.

Questo è però soltanto il secondo tema, nel testo così elaborato, ed anche quello su cui si è spesa minore attenzione narrativa, rimanendo in larga parte secondario rispetto all'accento posto sulla forma di amore che lega l'allievo al maestro, presentata dalla regia con un assunto perfino platonico, ma che di Platone invece non ha più di quanto oggi avrebbe un pubblico in attesa dell'idolo di turno di uno show: quello dei fan idolatranti davanti all'apparizione della Star.

Sono cinque, i suoi fan sulla scena, e sono già presenti all'ingresso del pubblico, sono i vecchi allievi di Heidegger (fra cui Hannah Arendt) che di lui parlano celebrandone, anzi mitizzandone le gesta come per un oggetto di culto, prima che per una persona, perfino con santini-fotografie della sua vita privata nella foresta nera, fra cani e passeggiate. Nelle quali oltretutto domina un più adeguato faccione da signorotto di campagna.
"Lui faceva davvero le cose che Husserl aveva proclamato!", dicono, tanto per intenderci... ed il panegirico, anzi meglio, l'agiografia viene fortunatamente interrotta da una voce nascosta fra il pubblico, che come un grillo parlante di tanto in tanto interviene, sempre più spesso, fino a scendere ed a prendere, rubare loro la scena, invadendola materialmente: è la voce di Thomas Bernhard, che seccamente irrompe ed illustra quello che è stato ed è ancora oggi uno dei più discussi problemi della filosofia del Novecento: “Heidegger era nazista!”.

In questa diatriba, ancora molto presente soprattutto nel dibattito filosofico francese, il vostro cronista di chiara fede bernhardiana non resiste a non schierarsi, e per una volta esplicitarlo sembra anche avere lo stesso spirito dei contendenti: questo però ci si aspetterebbe anche dalle scelte del testo, mentre sembra che alla fine, nonostante un accento che arriva poco alto e nella seconda parte, manchi appunto una vera e propria chiarificazione nell'annosa questione. Più ispiratore nazista con il suo Dasein, o più Maestro riconosciuto, come in senso formale anche Karl Löwith ed Herbert Marcuse riconobbero, oltre che, natürlich, i suoi fan club rappresentati in scena da Caterina Carpio, Daniele Fior, Giovanni Franzoni, Candida Nieri e Valentina Vacca (tutti coi baffetti neri in stile heideggeriano, uomini e donne) e “capeggiati” da quella Hannah Arendt che anche successivamente alla loro relazione affettiva, rimase sempre incline a considerare soprattutto il suo maggiore ruolo, di insegnante così importante?

Da segnalare in particolare tre momenti scenografici particolarmente efficaci, tutti nella seconda parte: le decine di microfoni ad asta che nelle luci di Pasquale Mari sembrano disegnare quella foresta nera cui Heidegger era legato da un sentimento pressoché atavico (e dentro la quale la regia li denuda fisicamente per farli errare e sperdere); gli stessi baffi dei suoi seguaci che con un taglio di forbici si trasformano nei baffetti di Hitler, ed ancora le aste dei microfoni, che in un finale in crescendo anche wagneriano, vengono prima adoperati per pronunciare, anzi gridare incipit e citazioni da Kafka a Leopardi, da Omero ad Ariosto, e poi ripiegati uno ad uno e gettati in un falò virtuale, a mo' di simbolo (invero assai potente) di quel 10 maggio 1933, quando sull'Opernplatz di Berlino avvenne il più grande ed autocelebrato rogo di libri che i nazisti giudicavano “contrari allo spirito tedesco”, testi di Thomas ed Heinrich Mann, come di Brecht ed Heine (e di quest'ultimo perciò, andrebbe anche ricordato il profetico “Là, dove si bruciano i libri, si finisce col bruciare anche gli uomini” pronunciato oltre un secolo prima, quando già nel 1817 alla Wartburg gli studenti "patriottici" bruciarono scritti contrari alla «cultura germanica»...)

Riecheggia dal buio finale l'eco si un'altra considerazione, oscillante fra l'acume intellettuale produttivo e la completa indifferenza nei confronti del Pensiero, ma nei sessanta minuti dello spettacolo c'è appunto quasi soltanto lo spazio per fornire spunti... ecco, forse è soprattutto questa, l'idea che racchiude il senso sia formale che sostanziale dell'operazione, e se lo è, allora chiudiamo il cerchio, e troviamo la definizione perfetta e condivisibile in una citazione dalle Leggi di Platone che si trova in uno scritto della Arendt nell'epistolario con Heidegger: “L'inizio è una divinità, e finché è tra gli uomini, noi siamo salvi”.