giovedì 31 marzo 2011

Dolce mente


(pubblicato su www.teatro.org)

Accolti da un trionfo di strumenti da pasticceria, planetarie, pennelli, spatole, setacci, rulli, mixer, frullatori e sac-a-pochè, la scena di Pasticceri promette subito buoni dosaggi di originalità e sapiente mano di chef a mescolarli, soprattutto se curiosando fra gli elettrodomestici, un po' nascosti un po' no, campeggiano due foto di Frank Zappa, una tromba, due sedie a sdraio ed un orologio fermo, all'incirca sulle 16.
Roberto Abbiati e Leonardo Capuano entrano danzando all'inconfondibile ritmo di Sweet Home Alabama dei Lynyrd Skynyrd, e vale la pena allora fare subito il punto sulla colonna sonora di questo laboratorio artigianale di dolci e di sentimenti, perchè ci troviamo via via e con grande piacere i Talking Heads, Demis Roussos, Prince, i Platters, gli Stones...
I due pasticcieri senza la i, si incontrano e si scontrano, si capiscono e si punzecchiano; uno si atteggia a Maestro, l'altro fa l'imbranato (“Io arrivo prima, lui arriva dopo... molto dopo”), ed entrambi si scambiano affettuosità e screzi da classici fratelli (“Siamo discompatibili...”), sotto l'invisibile egida del padre defunto da cui hanno ereditato il mestiere.
Tutto somiglia ad una lunga serie di spunti, di occasioni per volteggiare su questo rapporto come sulle loro personali difficoltà e successi, senza mai fermare una continua produzione di torte e dolci che porterà oltretutto ad un finale in cui un tavolino obliquo tovagliato di rosso verrà imbandito con tutto ciò che hanno preparato davanti agli occhi degli spettatori, i quali si intratterranno poi anche per onorare materialmente il loro lavoro, ovvero mangiando tutto.
E sono davvero tanti, questi spunti. C'è la simulazione del Cyrano per immaginare un incontro appena decente con la Rossana alla quale non era riuscito a porgere cui nemmeno un bignè (ottima la scena con frase interminabile da scrivere sulla torta...), ed è a volte un Cyrano enunciato con le parole di “Giulio” Iglesias, in una storia nella storia che vedrà ovviamente anche il fratello innamorarsi di lei...; dalle due Dolci Menti escono i ricordi di famiglia, le pause da trascorrere sulle sdraio sotto un improbabile sole usando una teglia come convertitore per i raggi abbronzanti, e movimenti da danzatori fra ingredienti e strumenti da cui a volte sembra escano le forme dei dolci quasi per magia (“Non dolci ma bellezza, non suoni ma sussurri...”). Peccato solo che non fanno la raccolta differenziata: buttare il vetro in un bidoncino sarà una piccola cosa, ma da queste parti purtroppo si nota.
Quello che aleggia è uno spirito a metà fra il romantico ed il comico, fra l'incantato (“è vero, non cambio la batteria dell'orologio... ma noi viviamo sempre nelle 4”) e l'umoristico (parlando di frasi d'amore: “Solo i comici possono dire certe cose...”).
Delizioso, viene da dire, e lo è di certo, ma contemporaneamente non posso esimermi dal fare un appunto: proprio per questa sua collocazione a metà, per la sua potenzialità e per la sua lievezza (“Eh, ma tu devi stare attento, con le parole...”), lo spettacolo poteva raggiungere risultati ancor più straordinari, mentre in alcuni momenti è sembrato di trovarsi come fermi sulla soglia, come se non si fosse spinto sull'acceleratore di una poeticità che prende la rincorsa e poi lascia come un gusto insoddisfatto per non essere stata percorsa come avrebbe potuto e fino in fondo, tanto da chiedersi se siano davvero atti mancati, come potrebbe sembrare, oppure volutamente sfumati, ed in questo caso allora tanto simili ad una punteggiatura dal gusto d'insieme che ricorda il Pointillisme pittorico della Francia di fine '800, quello in cui i colori non si mescolavano ma si accostavano, soprattutto se complementari, proprio come due fratelli discompatibili.

mercoledì 30 marzo 2011

...ed un tocco di giallo: et voilà l'impronoir!

(pubblicato su www.teatro.org)

Quando si intraprende un Viaggio, se è un vero viaggio, la meta conta molto poco; quello che conta davvero, e che conferisce il senso principale, è tutto ciò che c'è nel mezzo, ovvero il viaggio materiale, gli spostamenti, le sorprese che si incontrano per strada, insomma ciò che si vive per tutta la durata, il tempo in cui si esce dal proprio ambiente e si va verso qualcos'altro, e poco importa se alla fine ci ritroveremo in una piazza dell'est europeo o sotto il sole delle Ande.
Ecco, questo potrebbe essere lo stesso concetto del teatro d'improvvisazione, in particolare se incentrato sul genere del giallo.
Rivoluzionando l'essenza stessa del genere, tutto ciò che accade nel finale, ovvero la scoperta dell'assassino, del movente e del metodo, perde molto del suo significato narrativo, se non per i particolari aspetti che vedremo, e l'unica cosa che conta davvero è lo svolgimento passo dopo passo, la costruzione degli eventi ed il loro intrecciarsi, lo sguardo sugli interstizi di un testo che non c'è, perché appunto manca la trama, tranne alcune basi su cui contare e sull'intesa degli attori.

O meglio, non c'è fin quando non ha inizio lo spettacolo, e da quel momento l'improvvisazione fa tutto, gioca al posto del plot e gioca con gli elementi presi in prestito dal pubblico, invitato, prima di sedersi, a scegliere un nome, una professione ed un hobby: ciascun elemento verrà estratto a sorte per diventare la creatura non ancora nata, e questa è la principale forma attraverso la quale si partecipa a ciò che accade sul palcoscenico.
La successiva, e conclusiva scelta, è quella del nome dell'assassino, dell'arma e del movente: uno spettatore a caso sceglie questi tre elementi che di un giallo dovrebbero formare la nervatura, mentre qui sono affidati completamente al caso o finanche al capriccio del momento, e magari senza nessun nesso con quanto è accaduto fino a quel momento sul palco. L'effetto è straordinario.
Anzi, i vari effetti: quello della narrazione che non c'è se non nel suo istante, ed alla quale poi man mano si vedono spuntare arti ed organi che ne formeranno il corpo, quello dei caratteri dei personaggi di cui è inutile analizzare ogni dettaglio psicologico, come si dovrebbe fare nell'avvicinamento alla soluzione di un giallo, e soprattutto, quello dell'improvvisazione, e qui si vale la bravura specifica degli attori: Maria Adele Attanasio, Susanna Cantelmo, Deborah Fedrigucci, Giorgio Rosa, Renato Preziuso e Massimo Ceccovecchi (la QFC, Quella Famosa Compagnia, vista al Pozzo ed il Pendolo) tengono il giocattolo in mano sia passandoselo fra di loro, sia maneggiandolo con sicurezza e sembra anche un certo, giusto compiacimento. Tutto questo accade soprattutto grazie ad abilità personali che mettono in mostra la loro padronanza virtuosistica della scena, oltre a capacità di controllo ed insieme destrezza nella ricerca della lunghezza d'onda comune.
Con gusto artistico per l'essenziale, l'unico elemento che dei vari attori fa personaggi distinti, dal punto di vista esteriore e simbolico, è una sciarpa gialla che ciascuno indossa in maniera diversa, sulla vita, al collo o a mo' di cintura.

La musica e le luci seguono con sorprendente precisione la serie delle improvvisazioni, a volte perfino anticipandole, e quel che sembra un'ambientazione da thriller-divertissement si avvia decisamente, nel finale, verso un fumoso noir (per quanto sempre divertito), con l'accento sulla storia raccontata dal punto di vista criminale. E di un criminale che si è appena scoperto tale, per di più.
Quest'arte di far apparire d'un tratto cose non meditate o preparate, di comporre sensi e nonsense arrivando come per magia ad un significato in cui un posto per ogni cosa c'è sempre, vive in un mondo non abbastanza conosciuto, nel quale, per rimanere in tema noir, risalta il movente della passione che li guida; ed è un mondo che conta perfino una Nazionale italiana di Imprò, la quale, udite udite, detiene attualmente il titolo Europeo, vinto l'estate scorsa in finale contro la Francia. Chapeau.

lunedì 28 marzo 2011

Pugni in bianco e nero

(pubblicato su www.teatro.org)

Durante lo spettacolo di Antonello Cossia, ed essendo a conoscenza di un particolare della vita del padre, ho atteso a lungo, ma vanamente, il momento in cui venisse fuori quell'episodio immaginando che su di esso, anzi, fosse basato l'intero concetto che l'attore-autore intendeva narrare; il fatto che sia rimasto infine inesaudito, ha aumentato ancor più la considerazione per l'intera operazione; sarà il caso di spiegarlo arrivandoci per gradi.
Il padre di Antonello è Agostino "Agatino" Cossia, primo di 7 figli di un ex carabiniere, campione italiano di boxe, categoria dei pesi piuma, nel 1955 e nel 1956, primo pugile campano a partecipare ad una Olimpiade, quella di Melbourne del '56.


Al primo match, però, incontra un russo pressoché imbattibile, Vladimir Safronov, che infatti diventa campione olimpico. Cossia perde solo ai punti, ed anche pochi, mentre Safranov vince per K.O. tutti gli altri incontri.
Eppure, per un errore di stampa del giornale australiano che descrisse l'incontro, il suo nome non fu riportato nelle cronache. Ecco, questo mi aspettavo fosse uno degli episodi più rilevanti, quello del mancato riconoscimento di una impresa come questa, ed invece Agatino non diede mai peso a quello che per lui fu solo un banale accadimento, e questo è un ulteriore insegnamento da parte di un uomo che non si è mai soffermato a raccontare i suoi successi, ma che ha rappresentato alla perfezione lo spirito del suo tempo.
Questo, infatti, è il concetto di questo lavoro di Antonello Cossia: con un teatro di narrazione preciso e concentrato, anche se talvolta al di sotto della potenzialità drammatica dell'idea, ha portato in scena non soltanto una storia personale, quanto anche e forse soprattutto la Storia, quella di un dopoguerra in cui gli americani, sbarcati al porto, trovarono una città ridotta alla fame da una guerra che non colpiva soltanto con le bombe, e che quindi non era ancora finita, e di anni ed anni in cui essere poveri ("come un gatto") era la normalità assoluta, e storie come questa sottolineano che gli eroi non erano quelli che avevano i titoli sui giornali, ma quelli civili, che ricostruivano ognuno un pezzo di normalità, riallacciavano un filo elettrico o rinsaldavano un binario ("è quando la guerra finisce, che vengono fuori gli eroi").
C'è grande equilibrio, e nessuna enfasi o accondiscendenza, nel testo, e c'è la capacità di far vedere persone che somigliano terribilmente agli eroi neorealisti di Vittorio De Sica, e di presentarcele a colori, quando le immagini della memoria sono solo in bianco e nero.
Belle le suggestioni di costumi ed elementi d'epoca, così come quel "Aprite la finestra" di Sandra Raimondi ascoltato, a ricordare che quell'anno proprio lei vinse Sanremo, o il discorso inutilmente enfatico dell'insediamento di Giovanni Gronchi, ripetuto per ricordare quante e quali parole viaggiassero su rotte così lontane dalla realtà che vivevano in quel momento gli italiani.
E gli italiani come Agatino, quelli orgogliosi e silenziosi che ricostruivano il Paese con i mattoni in mano, quelli che si spezzavano ma non si piegavano, erano quelli su cui contare perchè erano i più convinti di voler trasformare la propria condizione, che magari guardavano avanti anche perchè dietro non trovavano molto da guardare, e che però con tanti piccoli miracoli qualche risultato lo ottenevano: oltre che essere arrivato alla fine dell'incontro a testa alta, guardando in faccia Safronov come nessun altro era riuscito a fare, Agatino ancora oggi ricorda e rimarca: "E' stato spettacolare, ma se devo essere sincero quell’incontro mi ha fatto piangere tre o quattro giorni. Appena ci pensavo piangevo. Io sono convinto che se a quasto pugile lo avessi incontrato due o tre incontri dopo, lo avrei battuto".


mercoledì 23 marzo 2011

Shhhhh.

(pubblicato su www.teatro.org)

C'è polvere, c'è molta polvere. Addosso, dappertutto, sui vestiti, sui capelli, nelle ossa e fino dentro l'anima. Quando i tre protagonisti, che aspettano già in scena, prendono vita, devono anzitutto scrollarsi di dosso, dagli abiti alle teste, il grigio di una polvere che invade e pervade, fa quasi vedere l'inevitabilità, della sporcizia di un interno di famiglia degradato fin sotto ogni livello di guardia.

La madre ripete una ritualistica anti-malocchio, compreso il sale, dedicandola alla figlia. Il padre, contrabbandiere di basso livello, è violento come solo quelli senza coraggio sanno esserlo, quelli che arrivano a segregare la figlia in una vita di prostituzione sotto il suo controllo, usurpandole la vita.
Lo fa perché ritiene ovvio scaricare su di loro l'eredità personale, familiare e sociale di ciò che ha passato a sua volta, e così parte la spirale infinita... mangia avidamente con gesti che ne simboleggiano l'abbrutimento, mentre la madre, Pascalina di Gesù coniugata Colantuono, fa “due attività: una piena di cazzimma, l'altra caritatevole verso di sè e verso l'anima di chi la chiama”, ossia vende eroina nel vicolo, e contemporaneamente piange i morti del suo quartiere, accompagnandoli nell'aldilà. Dopo averli uccisi.

C'è anche un sesso dilagante e sotteso, nelle menti distorte di questo ambiente, che serve solo a chiedersi in quanti modi possa diventare il terminale estremo di una infinita serie di sublimazioni di potere, di violenza, di ignoranza, di sradicamento dalla normalità, senza eros e speranza ma intriso di segnali di afflizione.
È un mondo cui Carmela, la figlia che si illudeva di potersi fare una famiglia, non voleva appartenere, un mondo in cui ci si prostituisce quasi per natura, anzi per contro-natura, perchè è natura contro sé stessi, contro gli altri, contro la natura stessa, ma si accorge presto che non può sfuggirgli (“Quando ero piccerella ero la prima della classe, ora mi sono dovuto scordare tutte le tabelline, come si coniugano i verbi e come si fa un un'analisi grammaticale. […] Io conosco cose concrete, dove le regole, se esistono, le ha inventate qualcuno che me lo vuole mettere nel culo”).

Durante uno dei suoi passatempi preferiti, ovvero fare il guardone, il padre scopre la figlia che si intrattiene in un'automobile con il suo ragazzo, la sua reazione è feroce, urla, spari, sangue... uccide il ragazzo, e da bravo Padrone trascina la figlia nella prostituzione: la punizione inflitta da chi non ha il controllo su ciò che non può controllare.
È in questo momento che la giovane compagnia di autori ed attori di Teatro di Legno concede un momento di altissimo pathos e coinvolgimento, con un gesto che racchiude non solo simbolicamente, ma umanamente e con la più elevata riuscita emotiva e realistica, un mondo in cui c'è talmente poco spazio per un sentimento di umanità, da doverlo guardare attraverso i particolari: la madre veste lentamente la figlia, intimamente violentata, con amore e con dolore. Con un movimento che accoglie la figlia ormai persa e dispersa, ma sempre carne sua, e che inconsapevolmente introduce e dà un senso ad un finale funesto quanto catartico.

Luigi Imperato e Silvana Pirone hanno saputo dar vita ad una drammaturgia che avrebbe potuto facilmente sostituire l'attenzione con l'effetto del pugno dello stomaco insito nell'argomento, e che invece contiene, in questa versione di Non Merita Lamenti (la precedente, di durata ridotta, fu finalista al Premio Scenario 2009), la giusta dose di crudezza e di intimità che non respinge lo spettatore, ma anzi ne attrae l'empatia.
Fedele Canonico, Ilaria Cecere e Annamaria Palomba si muovono con la giusta grevità dei loro personaggi, ma anche con oscillazioni, movenze che in un sottofondo di fisarmonica sempre più ritmata si fanno fisse o violente, ma sempre piene di senso.
Con una speciale menzione per Annamaria Palomba, una madre che incisivamente esplora ogni anfratto della melma in cui deve vivere, e ne esce con una testa alta pur se sporcata infine anche dalle sue scelte: quando un poliziotto-cliente della figlia dimentica la pistola, Carmela non esita molto, e la usa contro sé stessa. Si uccide. Non c'è più mediazione. La madre compie la vendetta mai osata, assolda due killer che uccideranno il padre, ed assume la sua definitiva, genetica forma di un pozzo senza fine che tutto può contenere e chiudere dentro, dipingendo i chiaroscuri dell'idea che nessun limite può esserci per certe vite. Anche quando non viene concesso il giusto omaggio della società alla figlia suicida, perché non è morte cristiana e pertanto appunto non merita lamenti: “Ma io so' tosta, e piango tutto quello che ho ingoiato”.

La scenografia di Monica Costigliola, nel suggestivo finale, rinchiude, inserra tutto in una cella di legno, una bara onnicomprensiva in cui le mandate della serratura sono l'ultimo rumore, inquietante ma forse perfino a suo modo confortante, come può essere una cerniera sul lutto.

martedì 22 marzo 2011

Il Re è vivo. Il Re è morto.

(pubblicato su www.teatro.org)

Diciamolo subito, la sensazione è quella di trovarsi di fronte ad un vero evento. Prima ancora di analizzare la presenza della regia, le prove attoriali, i dettagli della tecnica e quant'altro, quello che colpisce è proprio il risultato d'insieme che regala un sentore particolare, che si spiega sia coi dettagli che con la riuscita complessiva.
Andiamo con ordine. Anzi, procediamo per dettagli, quelli che fanno spesso la differenza, da subito, dall'accoglienza in una stanza che Maurizio Balò disegna con una scacchiera bianconera per pavimento, simbolo della partita di cui si sta giocando solo il finale, e da un'ambiente limpido quanto nudo, lasciando subito intravedere un Beckett rigoroso e quasi autoritariamente essenziale.

O anche da un sorprendente e riuscitissimo Clov (Milutin Dapcevic) impietrito nei movimenti che suggeriscono ben più e ben altro che una gamba offesa, gesti cadenzati nell'espletamento delle cose quotidiane fino alla mania, e singulti inverosimili in luogo di una risata. Ed ancora, i genitori di Hamm che sbucano d'improvviso dai loro bidoni con fare burattinesco, che fa risaltare particolarmente una delle battute più famose della pièce, affidata alla madre Nell: "Non c'è niente di più comico dell'infelicità". O infine, dulcis in fundo, un Hamm che l'eccellente Vittorio Franceschi rende più vedente di chi ha dieci decimi, sostituendo alla sua cecità la vista della presenza corporea pur non muovendosi mai dalla sedia cui è condannato: controlla Clov con un gesto accennato, dispone di lui con un'espressione del viso o alterando la voce, fa le sue mosse “scacchistiche” attraversando atteggiamenti che sono sapienti danze prima di spietatezza, poi di comprensione e finanche di compatimento...

Scelgo questa attenzione al dettaglio ed alla regia di Massimo Castri, perché parlare di Finale di partita, in sé, non è “difficile”: lo diventa invece, e molto, se ci si vuol trovare un'interpretazione che scenda nei meandri beckettiani per risalirne con un'idea che ne faccia risaltare gli aspetti formali e tematici senza concedere troppo ad intellettualismi eccessivi, considerando che è uno dei testi senza dubbio più discussi, studiati ed analizzati, al punto estremo ed esemplare di aver trovato in Theodor Adorno uno studioso talmente appassionato da risultare quasi del tutto incomprensibile, o quantomeno di comprensione molto difficile (e comunque di certo più difficile dello stesso testo di Beckett... in Trying to Understand Endgame del 1961, Adorno sostenne ardite tesi che continuò a difendere persino dopo che lo stesso Beckett esplicitamente e personalmente gli contestò vis-à-vis...), fino ad una dotta ed originale spiegazione come quella di Andrew Hugill per interpretare Finale di partita nientemeno che in chiave tecnico-scacchistica.
La trama, come è noto, vede Hamm, cieco e condannato a stare su una sedia a rotelle e Clov, il suo servo, in un perenne rapporto conflittuale, fra litigi che non impediscono ed anzi accentuano una reciproca dipendenza spesso incomprensibile a loro stessi: Clov vorrebbe continuamente andarsene, Hamm sembra non trattenerlo, ma questo sviluppa un gioco di attrazione e repulsione che fanno da mossa e contromossa scacchistica. Incombe, di tanto in tanto, anche la presenza degli anziani genitori di Hamm, privi degli arti inferiori ed ospiti di bidoni della spazzatura. Durante le prove allo Schiller Theatre di Berlino, Beckett disse: "Hamm è il re in questa partita a scacchi persa sin dall'inizio. Nel finale fa delle mosse senza senso che soltanto un cattivo giocatore farebbe. Un bravo giocatore avrebbe già rinunciato da tempo. Sta soltanto cercando di rinviare l'inevitabile fine."
Certo, nonostante egli stesso sostenesse anche che non ci fosse niente da spiegare, perché tutto veniva già detto nel testo, i riferimenti psicanalitici, metafisici, simbolici ed allegorici sono tali e tanti che viene quasi istintivo giocare a trovarne.
Ci sono però dettagli, parole che segnano il confine fra i testi, come quando Hamm, il vecchio Re, diventato infine oltre che un pezzo da difendere anche uno strumento di attacco, dice: "Finita. È finita. Forse sta per finire. […] è ora di farla finita, tuttavia esito...", ed entrambi, in un balletto dell'assurdo molto realistico...:"Perché rimani con me?" e subito l'altro: "Perché mi tieni con te?", e così tanti altri spunti all'interno dei conflitti fra i due, anche metateatrali (“A che servo io?” - “A darmi la battuta!”), tutti tranne uno, l'unica cosa alla quale Clov non risponde mai, ovvero la sollecitazione a volte ordinatoria, altre autocompatita di Hamm: "Perdonami!"

Vittorio Franceschi anzitutto, ma anche gli altri interpreti di questa edizione perfetta, affondano le mani nel Beckett meno interpretato e più preciso, e quel che tirano fuori è un finale di partita sicuramente ed obbligatoriamente persa, che forse però significa anche aver finito (finalmente) di perdere... ed è una fine coperta soltanto da un vecchio straccio, con cui ancora una volta Hamm, il vecchio Re, si ricopre dicendo “Tu resterai con me.”

giovedì 17 marzo 2011

Mamme, mammoni, mammà...!

(pubblicato su www.teatro.org)

"Mamma - Piccole tragedie minimali" è uno degli ultimissimi scritti di Annibale Ruccello, rappresentato dallo stesso autore al Festival di Montalcino nel 1986: quattro brevi atti unici nei quali il tema così ruccelliano della fiaba è ancora presente e completamente protagonista soltanto nel primo episodio (“Le fiabe”, appunto) ed ancora un po' nel secondo (“Maria di Carmela”), pur se in maniera quasi strisciante e soprattutto per il ritmo e la musicalità della forma in filastrocca.
Annibale Ruccello trascorse la sua breve vita in un momento storico in cui era alquanto elevata l'attenzione di varie arti verso le vicende popolari, e contemporaneamente cominciava a consumarsi la loro perdita di identità storica e culturale a causa prima delle influenze consumistiche del post-dopoguerra, e poi del sopravvento della tecnologia che stava per sfociare nelle prime tendenze globalizzatrici.

Era un mondo popolare che conosceva bene, anche come studioso delle tradizioni e soprattutto dell'antropologia, nel periodo in cui era cosa giusta leggere i saggi di Ernesto De Martino e di Levi Strauss; ne venne fuori un interesse per le classi subalterne che produsse testi, come anche questo, nei quali i suoi eroi appartengono ad una umanità ambigua, ambivalente, sporca e, per certi versi, appunto, eroica.
La dimensione serve alla regia di Giusy Crescenzo per creare la possibilità quasi di partecipare al vissuto soggettivo dei protagonisti, attraverso una disposizione scenica che rende gli spettatori come una parte avvolgente, rispetto alle tre attrici (Fabiana Fazio, Valeria Frallicciardi ed Alessandra Mirra), abili a mantenere la sincronia precisa voluta dalla scelta di rendere molto spesso i monologhi come una voce una e trina, o spezzata appunto nei tre diversi toni; questo è stato sicuramente l'effetto più originale e riuscito, che ha permesso anche di aprire un ventaglio più ampio su personaggi grotteschi o mostruosi, quasi promotori o portatori sani di incubi, spesso patetici, ma mai impetranti pietà.

Le storie, dunque: ne “Le fiabe”, una mamma narra la storia di Catarinella, Miezuculillo e del Re dei piriti. Con un secchio per lavare in terra nelle mani, imitano ognuno dei personaggi della storia familiare raccontata (Ce stava 'na vota... 'nu pate e 'na mamma e ddoie figlie... una se chiamava Rosetta e ll'ata... cchiù grossa... se chiamava Catarinella), ed all'interno della storia prende corpo anche una filastrocca vera (Catarinella sì... Catarinella sò...) ed una nenia (Papà papà papà... tieneme astritto e nun me lassà...), prima dell'apparizione di un padrone di casa orribile (Miezuculillo, il cui destino di coprofago tralasceremo...) che ricorda forse una fiaba di Basile, quella in cui la ragazza mangia gli gnocchi destinati al padrone e viene arrestata, salvo lieto fine tra lei ed il principe, mentre qui, come in ogni finale di Ruccello, non manca il dramma.
“Maria di Carmelo”: vita quotidiana di una donna ospite di un manicomio perchè convinta di essere la Madonna, reso con la tesa ruvidità e scabrezza dei suoi deliri antichi e post-moderni insieme, ed un degradato rapporto con le suore.
“Mal di denti”, tratto da “Notturno di donne con ospiti”, ovvero una mamma che nella sofferenza temporanea del mal di denti, nel giorno di Venerdì santo, scopre che la figlia Adriana è incinta; le sue considerazioni spaziano dal senso comune di vergogna/rabbia al rifiuto del pensiero di scendere di un gradino sociale (!) imparentandosi con il figlio di un operaio, fino alla tragedia del suicidio della ragazza.
“La telefonata”, un'unica, lunga e concettualmente infinita telefonata della mamma di Forcella che nel preoccuparsi dei massimi sistemi dell'umanità ovvero telenovelas, grandi fratelli ed altre estreme ed allucinanti presenze televisive oggi pervasive, contemporaneamente bada ai suoi figli e nipoti, cui con afflato terzomondista sono stati imposti nomi come Veruska, Morgana, Ursula e Isaura, in una simbolica e gobale perdita della tradizione, e di corruzione sotto la potente ala delle moderne, peggiori liturgie di massa. Con terremoto finale.

Per la scelta di triplice e contemporanea narrazione, però, e grazie forse proprio alla precisione delle cadenze interpretate dalle tre attrici, a volte sembra sia andato perso molto del lato tragico (fino a dissiparsi del tutto nella istantaneità di momenti come il suicidio di Adriana ed il terremoto finale), come se per dipingere sui volti la fabula ed a volte l'affabulazione, si fosse rinunciato ad un certo grado di pathos realistico; l'agire sul lato farsesco, insomma, o perfino ambiguo, anche attraverso il voluto accento maschile/femminile, sbilancia a volte i personaggi tragi-comici sul loro lato meno greve dei propri deliri verbali alterati geneticamente.
Efficace però è il distacco ancor più marcato fra il legame con la tradizione orale della favola di apertura, che ricorda e rende bene l'abilità di Ruccello nel genere (aveva anche collaborato con De Simone alla raccolta delle “favole napoletane”) e l'insopportabile livello di infima modernità soprattutto dell'ultimo racconto, per una messa in scena complessiva in grado di far toccare quasi fisicamente agli spettatori prima un lirismo del disagio, poi una ineluttabilità del presente.

martedì 15 marzo 2011

Psicoeffervescenze

(pubblicato su www.teatro.org)

Leggero, senza mai sconfinare nella pedagogia o nella banalità, come sarebbe magari stato invece facile fare: è il pregio più evidente di “ICS - Incognite con Soluzione”, che la regia di Claudia Natale affida ai giovani interpreti dell'Associazione Imprenditori di sogni: Serena Pisa, Roberta Astuti, Clelia Liguori, Gregorio De Paola, Yuri Napoli, Miriam Manco Martinee e Francesco Varriale.
La penna è di un altrettanto giovane Claudio Buono (che in anteprima sappiamo aver appena vinto il Bando Campano di Drammaturgia del Nuovo Enzo -giuria di Enzo Moscato e Antonio Latella- con il testo "Gretel e Gretchen"), il quale tiene a sottolineare di aver raggruppato alcune tematiche spontanee che sono sorte dal confronto comune sul tema, ed il risultato è appunto un insieme alquanto sorprendente di effervescenza psicanalitica che ha inizio ancor prima del sipario, quando i futuri spettatori vengono accolti alla mostra collegata da una pseudo-psicologa a colloquio ipernevrotico con tutti, ma lei è l'Es, ed in quanto tale può permetterselo, così come le è concesso chiarire anche che il teatro è pulsione, contrapposto alle mostre ed ai musei.
La storia è quella di Julian, aspirante scultore di ispirazione dadaista, che soccombendo alla legge del pane quotidiano accetta l'incarico per una statua neoclassica, da consegnare oltretutto in tempi brevi.
C'è poco spazio per la linearità degli eventi, perché tutto diviene ben presto uno psicostage, formalmente rappresentato da un laboratorio che è la fotografia esteriore del suo io, fra elementi di arredo poco omologabili o assimilabili (su tutti, una radio a valvole anni '40) fra i quali via via appaiono e si scontrano tutti i suoi personali daimon, ovvero i mostri ed i fantasmi in cui si incarnano le intermediazioni psichiche tra le dimensioni della sua personalità.
Con un certo effetto complessivo di sorpresa, se non di momentaneo spiazzamento, i personaggi che popolano la sua mente si presentano, si seguono ed a volte si inseguono, a partire dall'apparente amico Grillo, che evoca insieme il maggior numero di complessi e di patologie, saltellando compiaciuto fra sensi di colpa, insicurezze, malinconie, ansie, irrazionalità e paranoie, spadroneggiando a lungo come la parte pessimista di Julian a correggere le sue mosse, e schierandosi decisamente contro Judith, la sua compagna, per aver rovinato il loro sancta sanctorum (non è un caso il riferimento a Julian Beck e Judith Malina, i fondatori del Living Theatre).

La materializzazione tocca poi ad altre forme della sua coscienza, dalla statua neoclassica/aspirante dada alla parte razionale di Radio Ratio, a Max, un ex di Judith con cui confrontarsi sempre ed inevitabilmente (il suo opposto, come chiarisce Max stesso nel tentativo di rappresentarsi come caricatura della realtà, contrapposta alla sua arte "L'opera omnia di uno scrittore russo non vale un mio bacio alla francese").
Ma soprattutto, tanto per sottolineare come il “permesso” si oppone al “possibile”, la presenza pervasiva, invasiva e di vero confronto è quella, guarda caso, di una madre edipica raffigurata con le spire avvolgenti dei suoi arti capaci di inglobare i tentativi di Julian di affrancarsi, fino alla pronuncia di una condanna cui sottostare, resa in una delle forme probabilmente più evocative ed insieme divertite possibili, di sicura ed esilarante presa sul pubblico: "Invece di consegnare la statua, ti iscriverai a giurisprudenza!"
Una piccola fuga arriva dall'alcol, Julian si ubriaca per esorcizzare i demoni e funziona, ma dura poco, e dopo inani ispirazioni dada di “distruggere per creare”, subito soppresse dal super-Io, in un finale in cui sembra prevalere la Madre-interferenza che impedisce alla Ragione di prevalere, con un exploit forse troppo facile Julian si veste dei panni razionali necessari ad affrontare il suo compito: grazie soprattutto all'unica sua vera interlocutrice reale, quella Judith che pur rimanendo figura variamente oppressiva in qualche modo lo sblocca, l'artista serve a sé stesso un lieto fine, e si assume le responsabilità che lo portano a terminare la statua.
Magari funzionasse con tanta celerità anche una seduta dallo psichiatra, verrebbe da dire...
Della girandola di realtà ed irrealtà, sorretta da un palese approccio entusiasta di tutto lo staff, i protagonisti più efficaci sono stati sicuramente Grillo e Judith, grazie all'interpretazione particolarmente incisiva di Serena Pisa e Gregorio De Paola.
L'opera finita, ancorché rimaneggiata scultura, si chiamerà non a caso "la donna che visse due volte", divenendo infine la sua catarsi, in cui trovarci dentro anche quel "perché non parli?" che in risposta, però, riceve solo un "perché non ho niente da dire..."

domenica 13 marzo 2011

Cupa Carmen

(pubblicato su www.teatro.org)
Carmen è il Regno della coreografia e della scenografia, dell’ambiente su cui disegnare movimenti e sogni. È sempre stato un riferimento di sentimenti potenti e di evocazioni anche ancestrali, sommovimenti emozionali in forma tellurica, attraverso la prosperità dell'invenzione musicale, una melodia sensuale ed avvolgente, e di un folklore tersicoreo di una Spagna, certo, tutta idealizzata, anzi proprio come sarebbe potuta essere stata immortalata in una cartolina francese di fine '800, ma forse così forte proprio grazie a questa sua inautenticità spinta, che grazie al tasso oleografico concede un grado sorprendente di potenza espressiva e simbolica.
Lo stesso George Bizet, del resto, quando finalmente ruppe la tradizione coeva dell'Opéra-Comique borghese, con questo soggetto e questa musica immorale e controcorrente, sentì di aver valicato il Rubicone, e nessuno meglio di Nietzsche potè avvalorarne la portata, giudicandola “l'amore come destino, come un destino cinico, innocente, crudele, l'amore esatto nella sua forma natura. Io non conosco altro esempio dove la tragica ironia che costituisce il nocciolo dell'amore sia stata espressa con tale severità, con formula così terribile come nell'ultimo grido di José: Oui, c'est moi qui l'a tuée, Carmen, ma Carmen adorée...”; e tale fu lo strappo, che l'aspettativa borghese del teatro al numero 5 di Rue Favart, dove naturalmente debuttò, necesariamente ebbe la stessa portata reazionaria e contraria, seguita invece dallo straripante successo solo dopo qualche tempo, ma già troppo tardi per non causare indirettamente la morte dell'Autore.
Certo, resta lecito cercarne anche interpretazioni che accendano luci diverse, evidenziando i tratti più o meno visibili di una zingara-maga incupita dall'aver intravisto il suo destino, oppure intimista fino all'annullamento di alcune parole d'ordine,come ad esempio, una a caso, Eros.
Questa Carmen di Micha van Hoecke e di Alain Guingal, coerentemente nella regia come nella esecuzione musicale, è però trasformata soprattutto, se non soltanto, in un senso di ineluttabilità: amore e morte non giocano a fare Eros e Thanatos, ma hanno quasi un appuntamento predefinito, anziché provocarsi a vicenda ed esplodere l'uno nelle braccia del'altro. E Carmen sembra avere scritta negli occhi sempre già la fine, come se avesse sempre nelle mani il copione aperto soltanto sull'ultima pagina, e stesse solo aspettando di arrivarci.
Soltanto per qualche minuto, coincidente l'entrata di Escamillo, tutto sembra volersi vestire del rosso e del nero di Eros e Thanatos, ma in un complesso disegnato in maniera fin troppo didascalica, stavolta esclusivamente potente, e sempre in chiave soprattutto cupa, con una teatralità dei movimeni di scena che meritava forse più una allocazione verdiana, e stride molto con il fatto che invece Carmen aveva rinunciato alla potenza perfino nello scandaloso “Prends garde à toi!”, e ad ogni tensione erotica (semplicemente inesistente), ovvero sfrontatezza, spregiudicatezza, superbia o maleducazione, come se quel passaggio di tensione delle 5 note che annunciano e precedono “La fleur que tu m'avais jetée” incombesse su molte altre scene, come una tragedia sottesa.
Le cose migliori viste e sentite si giocano sulle voci di Micaëla (Francesca Sassu) e Frasquita (Arianna Vendittelli) tenute lontane dal discorso interpretativo (laddove le principali di Carmen Adriana Topciu, Andrea Carè e Vitaliy Bilyy invece ne restano intrappolate); sulle voci bianche dirette da Stefania Rinaldi, e su alcune scene curate da Nicola Rubertelli.
Suggestivo il disegno sul velo dietro al sipario, e gli elementi della scenografia di chiara derivazione picassiani: nella taverna di Lillas Pastia le immagini sullo sfondo sono catturate dalle incisioni a bulino di Pablo Picasso del ciclo Carmen: sensuali, piene di sentimento, chiaramente ispirate dall'arte primitiva, nelle quali pochi tratti disegnano volti umani, costumi andalusi e teste di toro.
Inevitabile il teatro gremito, il nome basta per richiamare il pieno, ed una nota a margine da non sottovalutare, ovvero la buona pronuncia della lingua francese da parte di tutti i cantanti. Non molto, non abbastanza, per quello che dovrebbe essere il simbolo stesso dei temi del destino e della morte fusi fra elementi arabi e gitani, fra passioni umane ancestrali e raffinato lirismo, in un concetto che si racchiude in toto nello spirito del duende, tipicamente radicato nel territorio di cui Carmen calpesta le pietre spesso roventi: per toccarne il cuore e trasformarlo in movimento e canto, andrebbe riletto Federico García Lorca, che in «Teoria y juego del duende» spiega quale sia questo spirito andaluso, questo potere misterioso "che tutti sentono e che nessun filosofo spiega", con parole che nono dissipano certo i dubbi su questa cupa Carmen, anzi...: “I grandi artisti della Spagna meridionale, gitani o flamenchi, sia che cantino, ballino o suonino, sanno che non è possibile nessuna emozione senza l'arrivo del duende, che è insieme angelo e musa [...] Il duende di cui parlo - misterioso e trasalito - discende da quell’allegrissimo demonio di Socrate, marmo e sale, che lo graffiò indignato il giorno che prese la cicuta; e dall’altro malinconico diavoletto di Cartesio, piccolo come mandorla verde, il quale, stufo di cerchi e di linee, se ne andò per i canali a sentir cantare i marinai ubriachi. […] In tutti i paesi la morte è un fine. Giunge e si chiudono le tende. In Spagna, no. In Spagna si aprono. Lì la gente vive tra mura fino al giorno in cui muore e viene portata fuori al sole. Un morto in Spagna è più vivo come morto che in qualsiasi altro posto al mondo: il suo profilo ferisce come il filo di un rasoio.”