(pubblicato su www.teatro.org)
C'è polvere, c'è molta polvere. Addosso, dappertutto, sui vestiti, sui capelli, nelle ossa e fino dentro l'anima. Quando i tre protagonisti, che aspettano già in scena, prendono vita, devono anzitutto scrollarsi di dosso, dagli abiti alle teste, il grigio di una polvere che invade e pervade, fa quasi vedere l'inevitabilità, della sporcizia di un interno di famiglia degradato fin sotto ogni livello di guardia.
C'è polvere, c'è molta polvere. Addosso, dappertutto, sui vestiti, sui capelli, nelle ossa e fino dentro l'anima. Quando i tre protagonisti, che aspettano già in scena, prendono vita, devono anzitutto scrollarsi di dosso, dagli abiti alle teste, il grigio di una polvere che invade e pervade, fa quasi vedere l'inevitabilità, della sporcizia di un interno di famiglia degradato fin sotto ogni livello di guardia.
La madre ripete una ritualistica anti-malocchio, compreso il sale, dedicandola alla figlia. Il padre, contrabbandiere di basso livello, è violento come solo quelli senza coraggio sanno esserlo, quelli che arrivano a segregare la figlia in una vita di prostituzione sotto il suo controllo, usurpandole la vita.
Lo fa perché ritiene ovvio scaricare su di loro l'eredità personale, familiare e sociale di ciò che ha passato a sua volta, e così parte la spirale infinita... mangia avidamente con gesti che ne simboleggiano l'abbrutimento, mentre la madre, Pascalina di Gesù coniugata Colantuono, fa “due attività: una piena di cazzimma, l'altra caritatevole verso di sè e verso l'anima di chi la chiama”, ossia vende eroina nel vicolo, e contemporaneamente piange i morti del suo quartiere, accompagnandoli nell'aldilà. Dopo averli uccisi.


È in questo momento che la giovane compagnia di autori ed attori di Teatro di Legno concede un momento di altissimo pathos e coinvolgimento, con un gesto che racchiude non solo simbolicamente, ma umanamente e con la più elevata riuscita emotiva e realistica, un mondo in cui c'è talmente poco spazio per un sentimento di umanità, da doverlo guardare attraverso i particolari: la madre veste lentamente la figlia, intimamente violentata, con amore e con dolore. Con un movimento che accoglie la figlia ormai persa e dispersa, ma sempre carne sua, e che inconsapevolmente introduce e dà un senso ad un finale funesto quanto catartico.
Luigi Imperato e Silvana Pirone hanno saputo dar vita ad una drammaturgia che avrebbe potuto facilmente sostituire l'attenzione con l'effetto del pugno dello stomaco insito nell'argomento, e che invece contiene, in questa versione di Non Merita Lamenti (la precedente, di durata ridotta, fu finalista al Premio Scenario 2009), la giusta dose di crudezza e di intimità che non respinge lo spettatore, ma anzi ne attrae l'empatia.
Luigi Imperato e Silvana Pirone hanno saputo dar vita ad una drammaturgia che avrebbe potuto facilmente sostituire l'attenzione con l'effetto del pugno dello stomaco insito nell'argomento, e che invece contiene, in questa versione di Non Merita Lamenti (la precedente, di durata ridotta, fu finalista al Premio Scenario 2009), la giusta dose di crudezza e di intimità che non respinge lo spettatore, ma anzi ne attrae l'empatia.
Fedele Canonico, Ilaria Cecere e Annamaria Palomba si muovono con la giusta grevità dei loro personaggi, ma anche con oscillazioni, movenze che in un sottofondo di fisarmonica sempre più ritmata si fanno fisse o violente, ma sempre piene di senso.
Con una speciale menzione per Annamaria Palomba, una madre che incisivamente esplora ogni anfratto della melma in cui deve vivere, e ne esce con una testa alta pur se sporcata infine anche dalle sue scelte: quando un poliziotto-cliente della figlia dimentica la pistola, Carmela non esita molto, e la usa contro sé stessa. Si uccide. Non c'è più mediazione. La madre compie la vendetta mai osata, assolda due killer che uccideranno il padre, ed assume la sua definitiva, genetica forma di un pozzo senza fine che tutto può contenere e chiudere dentro, dipingendo i chiaroscuri dell'idea che nessun limite può esserci per certe vite. Anche quando non viene concesso il giusto omaggio della società alla figlia suicida, perché non è morte cristiana e pertanto appunto non merita lamenti: “Ma io so' tosta, e piango tutto quello che ho ingoiato”.
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