martedì 26 aprile 2011

Les femmes et les mots.

(pubblicato su www.teatro.org)

Les femmes, la folie, la ville, les mots.
Ma soprattutto queste ultime, les mots, le Parole. Sono sia parole con la p minuscola che con la P maiuscola, quelle di Leslie Kaplan e del suo Luisa è pazza, e non a caso le prime parole pronunciate da Frédérique Loliée sono "Mi hai tradita, hai preso le mie parole...!"

Al teatro San Ferdinando giunge il progetto co-prodotto dal Teatro Stabile di Napoli insieme con Theâtre des Lucioles di Rennes e Fondation d’Art Arteria di Varsavia: in una scena che le attende con uno spoglio, grandissimo pannello bianco, lei e Patrizia Romeo salgono dalla platea, e parlano.
Si lanciano parole usandole come armi e come scudi, si contrastano e si auto-contraddicono, in discorsi spesso inversi ed in continua perdita di riferimento dialogico, e fino a far sospettare dell'esistenza di una forza propria ed autonoma delle parole che usa loro come meri strumenti, utensili per materializzarsi.
Scorrono immagini di gente che si affretta a fare non si sa cosa nè perchè, tra alcuni refrain che ritornano ossessivamente ("Ho avuto una infanzia difficile...") ed una scena che si trasforma in squallidi palazzotti da 167 fra cui le due entrano, escono e sostano, facendo prevalere dissonanze e discordie, fra le quali suona solo sporadicamente il Luisa è pazza in sottofondo, perché Luisa non si vede mai, è come una terza sagoma ideale su cui appendere le parole, mentre le stesse parole non sembrano appartenere nemmeno a loro, se le passano come in un gioco dadaista, si trasformano da sole ("Nel tuo parlare dici la verità per mentire meglio").

C'è un sovvertimento della grammatica esistenziale, delle regole in codice e dei punti di riferimento -anche in versione rap- che spazia culturalmente da Feuerbach allo Spinoza del Deus sive natura ("Tutta quella civiltà, cultura, etica, per arrivare così..."), lasciando un appiglio soltanto per quella che potrebbe sembrare una comunicazione irrinunciabile benché assurda: loro due non possono evitare di comunicare, e noi non possiamo evitare di rammentare il significato più letterale delle comunicazione, ovvero quello di mettere qualcosa in comune.

Fuori e dentro le pareti di una casa in cui intrufolarsi nella sua non-quotidianità, come quando Patrizia Romeo si fa lo shampoo in una delle stanze, ed in un ritmo incessante sostenuto con una precisione davvero ammirevole, risaltano alcune perle come la logica del nepotismo spiegata con l'esempio del presidente francese, come la questione se Dio sia "di origine straniera", ed alcuni scambi all'arma bianca ("dici qualunque cosa che ti passa per la testa: sei proprio depressa..." - "Anche quando sei con qualcuno, tu parli da sola"): solo su Dio si accapigliano davvero e fisicamente, ma sempre per risalire e rimanere poi su un piano dialettico, ed infine ironico quando si incentra su un argomento come quello della femminilità, che però, per le sue implicazioni proprio sul piano del linguaggio e dei codici di riferimento, ci sarebbe piaciuto vedere sviscerato in maniera più ampia ("La prova che la donna non è una gran cosa, è che Dio non si è sposato...").

Contrappunto ideale, e momento di maggiore suggestione, perciò, non può che essere il suo opposto: il silenzio, un silenzio che si avviluppa intorno e dentro ad un lungo abbraccio fra le due donne, l'una in piedi e l'altra aggrappata, stretto fra le nuvole.
Nel finale, oltre alla Parola, si confonde anche il Suono: un crepitio indistinto e fastidioso estende il concetto della mancanza di Forma anche all'onda sonora, fino a dissolversi tutto, nel buio.


Antica, disonorata società


(pubblicato su www.teatro.org)

Una tenda alla veneziana, pur se alzata, occupa l'intero spazio fra il pubblico ed il palcoscenico, preannunciando quella che sarà poi, quando verrà completamente calata, la prospettiva da cui guardare, anzi quasi spiare i protagonisti di 'u tingiutu.
Ci troviamo infatti sempre come un passo fuori ad ogni scena, come se per guardare le cose da dentro ci fosse bisogno di essere anche materialmente dentro alle loro fitte trame malavitose, di appartenere ad una delle famiglie che lottano per la supremazia, di concedere la propria vita a quel patto di sangue da cui in genere non si esce più, ed anzi nel quale si trascinano dentro anche tutte le colleganze, familiari e non.
In un'agenzia di pompe funebri si prepara un cadavere al rito funebre, fra scene di quotidiana realtà che tuttavia già contengono in nuce alcuni elementi cardinali, particolarmente importanti proprio perché fanno comprendere meglio che se un tipo di mentalità parte già dal basso, è pressoché normale che poi, trasferendosi in alto, porti a conseguenze ambientali diffuse, oggi chiamate contiguità, come quelle raccontate da Dario De Luca e dalla compagnia Scena Verticale alla Galleria Toledo.
Alla scena iniziale segue un improvviso agguato in cui muoiono tutti, e conta poco il loro nome, quando ci si trova all'interno delle lotte intestine fra clan e miniclan.
Numerosi bui di scena servono per elevare la tensione e contemporaneamente ad agevolare i cambi di scena ed i continui flashback, solo al termine dei quali la trama si chiarisce, spesso ad un ritmo molto lento, a volte perfino esasperato, in sintonia con l'atmosfera cupa -se non proprio una cappa di angoscia- che alla lunga diviene anche un po' sgradevolmente amara.
Il filo che conta è quello dei classici rapporti di forza, che sono tutto ("Tu sei zero, anzi no, non sei niente, perchè zero è un numero...", detto con sorprendente ispirazione matematica per i numeri naturali) e che tessono ogni livello della vita quotidiana, laddove gli Ulisse, gli Achille e gli Aiace dell’Onorata Società calabrese fanno uso improprio di parole come rispetto ed onore, inverando classici simboli della purezza interiore che ognuno di loro ritiene di possedere, e contrapponendosi alla civilizzazione esterna: geniale l'esempio della festa della Madonna, alla quale come attrazione principale viene invitato Pupo, ma solo a condizione che non canti Gelato al cioccolato, supposto simbolo allusivo e sconcio ("Mamma non la cantava!!! Pupo viene alla festa della Madonna, ma non gliela facciamo cantare...").
'U Tingiutu da il meglio di sé nel suo essere emblema del potere territoriale e della necessità di essere e di avere un boss qualunque, anche in un mini-ambiente: dove ci stanno due persone, là deve esserci uno che comanda, e così via, fra gerarchie e scale, senza le quali costoro non sanno vivere, non sanno riconoscere nemmeno sé stessi, e soprattutto non sanno riconoscere un altro essere umano.
Ottima la chiusura musicale, quando rimangono in scena soltanto le note e le parole di Un mondo d'amore di Gianni Morandi, che in alcune sua parti in cui evoca fiducia ed affidamento, sembra assurdamente perfetta per descrivere anche quel mondo (Uno non tradirli mai, han fede in te / Due non li deludere, credono in te...)

venerdì 8 aprile 2011

Sotto il bandito niente...

(pubblicato su www.teatro.org)

Nove ragazze vestite come scolare in divisa fascista entrano in scena eseguendo esercizi di ginnastica ritmica con i cerchi olimpici decoubertiniani, e sono movimenti dominati dal tono declamatorio, stentoreo e retorico che le accompagna ("Io credo...").
Ma c'è poco tempo per soffermarsi su di loro, perché una fin troppo moderna forma di nichilismo sta per invadere tutto: è il branco idiota, sono quattro amici (diciamo così) con nomi come Loris e Spiga, che in una provincia del profondo nord-est, nell'ambientazione che l'autore individua come sagra di Pezzan, a degna conclusione di una serata più idiota di loro, violenta due ragazze, una delle quali viene anche ammazzata quasi per sbaglio, ma è un gesto dal quale scaturisce solo un gusto necrofilo, benché inizialmente inconsapevole.
Con un chiaro richiamo della regia, costoro replicano in una versione ipermoderna la vita da Drughi di Alex DeLarge&soci, ovvero quel capolavoro che fu Arancia meccanica, romanzo del 1962 di Anthony Burgess e soprattutto trasposizione cinematografica di Stanley Kubrick: i loro anfibi ed una maschera sul volto li ricordano subito, ma soprattutto visivamente quei pantaloni a scacchi rievocano l’uso vistoso ed optical del black&white del pavimento della casa in cui Alex guidò i suoi prodi ad un'aggressione fisica in cui, però, vi era in nuce quantomeno la profezia di una una violenza "estetizzante", mentre questa proposta all'Elicantropo, è solo la fotografia necessaria della moderna, squallida violenza da buco nero, da sotto vuoto cerebrale spinto. Una scarsità di giustificazioni cui fa da contraltare unico, forse, la favola raccontata dalla Maestra nel finale ("C'era una volta un Re..."), nella quale il Re è soltanto colui che cercò di sottrarre ai giovani l'unica cosa che avevano più di lui: il futuro.
Con la solita, abile mano, Carlo Cerciello conduce i suoi giovani attori (su tutti, ancora una volta un ottimo Raffaele Ausiello), in un terreno che è loro congeniale, perché probabilmente parla di un mondo la cui crudezza spesso scabrosa oggi è diventata comune da osservare guardandosi intorno, e loro rispondono con una certa sicurezza, con buoni movimenti ed alcuni meccanismi d'incastro precisi, anche se non frequenti, trattandosi soprattutto di monologhi.
La narrazione, infatti, sebbene scorra su un simile filo, è affidata ad alcuni testi di autori anch'essi giovani, il cui linguaggio è appunto estremamente realistico, tanto da indurre necessariamente ad alcune domande di inclinazione sociologica che lasciamo volentieri alla coscienza di ognuno.

Le storie, dunque: c'è il videochattista violentato dopo un incontro “al buio”, a sorpresa (rivelatosi forse un po' troppo, a sorpresa...), il quale poi sceglierà come nick successivo "orfanostuprato"; c'è l'adolescente che vive la verità della sua relazione più in modo virtuale attraverso Facebook, che reale ("Dopo 10 anni, da fidanzata a single senza passare per relazione complicata...?!?") e che prepara la sua vendetta “reale” con afflato perfino poetico ("La lama di questo coltello raggiungerà il suo cuore come non ho fatto io..."); c'è il serial killer di prostitute che provvede anche poi a farle a pezzi (“Tanto ormai è un corpo inanimato..."), con la classica convinzione di ripulire il mondo, e punte di razzismo altrettanto classiche per le “negre grasse”; c'è la zotica (risparmiamoci i sinonimi vernacolari) di estrazione-vicolo dei Quartieri che va a Roma per sperare di presentare un festival dal nome che dice tutto (Napoli Pop Music), e per arrivarci passa per tutti i letti da cui sospetta la possibilità di un qualunque tipo di favore, fino a risultare perfino a quell'ambiente (!) una "macchietta della sagra del vino" che tuttavia fino in fondo riesce a considerarsi al di sopra della media del suo stesso squallore ("A loro, del vicolo..."); c'è l'amica che trasforma l'altra in trasgressiva, portandola fino al rango invero ammirevole di Reginetta del Peep Show, per poi rivelarle di essere stata violentata da piccola, e così il sapore di quella sua illusoria e scadentissima libertà/superiorità di femmina esercitata a colpi di sesso, si rivela in tutta la sua desolazione; e c'è la povera crista il cui quasi-marito non si presenta all'altare, motivo per cui lei per sei anni si chiude in casa, anzi proprio nella sua stanza, e mangia: una classica fame abominevole da compensazione, che contrapposta al salutismo dei genitori, è l'unica cosa a tenerla ancora viva. Anzi, vegeta. Anzi no, c'è dell'altro: chatta. Mangia e chatta, sempre con la massima acredine possibile, da manuale, e lo fa perfino con una ragazzina di 13 anni, simulando con cattiveria un'altra identità, fino a vederla suicidarsi in diretta-webcam. Ma lei ha ancora e solo fame.

Ecco, se un limite c'è, in queste storie, lo si trova facilmente in una certa riproposizione di schemi situazionali e psicologici alquanto scontati, finché alla fine viene da riflettere sul fatto che, al di là della perizia della scrittura, e dell'accento sullo sfascismo da italietta giustamente e ben visualizzato, questa non sia invece, e purtroppo, proprio una precisa esigenza dettata dal ritrovarci in un'epoca in cui spesso le espressioni prevalenti che si trovano in natura, sono di un livello talmente basso che uno degli strumenti più efficaci per la loro resa narrativa deve venire soprattutto dal rimanere ad un altrettanto basso livello di ricerca di senso e di sofisticazione.