(passeggiata su una carta geografica con l'orecchio teso ad est di Umberto Eco)
“Cabeza de Vaca scopre davvero le cascate dell'Iguazù, ma quando torna a casa e racconta quello che ha visto lo prendono per matto. L'Eldorado si impoverisce, diventa qualche pepita...” (U. Eco)

L’appuntamento con questo senso del viaggio è antico. Dovrei aver avuto undici anni, perché era l'estate precedente l'ultimo anno delle scuole medie. Senza un preciso assegno, come si diceva allora, all'inizio di quei quattro (!) mesi di vacanze mi venne in mente di preparare qualcosa per l'anno successivo, e così diedi uno sguardo al programma; scelsi la geografia, o almeno la scelsi come base di partenza, presi quello che allora si chiamava un quaderno di computisteria e cominciai a disegnare una ad una tutte le regioni italiane, a mano ed a colori, copiando un po' dagli atlanti, e poi a scrivere alcune pagine su ognuna, con i dati sulla superficie, gli abitanti, la densità, le caratteristiche orografiche, i confini, le bellezze antropiche e naturali, l'economia, nozioni storiche e linguistiche come anche culturali e floro-faunistiche. Una volta credo si chiamassero ricerche.
Poi l'Italia finì. Prima o poi, pure doveva finire, e del resto le regioni sono solo venti. E finirono anche molto presto. Cominciai quindi a guardare a nord, e passai all'Europa. Demografia, economia, storia, cultura... uno ad uno, tutti gli Stati europei rimasero disegnati sulle pagine del quaderno, ora colorati e classificati secondo i temi.
Ma naturalmente finì anche l'Europa, e così arrivò l'Asia, magica e meravigliosa, l'immensa Asia, poi l'America, l'Africa ed infine l'Oceania.
Il quaderno non era finito perché avevo aggiunto non so in quale modo alcuni altri fogli o prolunghe artificiali, ma il mondo si, quello era finito. Quell'estate si sentiva per radio la canzone Stranamore di Roberto Vecchioni, e la ricordo perchè pensai che mi sarei dovuto sentire un po' come il protagonista di quella storia, quando "il più grande / conquistò nazione dopo nazione, / e quando fu di fronte al mare si sentì un coglione / perché più in là non si poteva conquistare niente..."
"Passavo ore al liceo, a tenere l'atlante sotto il banco. Andavo in Siberia, da lì in Kamchatka. Alla base della geografia c'è immaginazione e curiosità. E che la geografia sia legata alla ricerca del paradiso terrestre mi sembra ovvio: le prime carte geografiche, in Occidente, cercavano appunto di localizzarlo. Sono affascinato dalla geografia immaginaria, perché ogni geografia in statu nascenti lo è, altrimenti registra quello che si sa già" (U. Eco)
Una volta consegnato, il primo giorno di scuola, quello che si rivelò essere l'intero programma dell'anno già svolto, pensai che c'era poco altro che poteva venir fuori da un'aula o da un sussidiario, anche se il fascino delle carte geografiche rimaneva sempre intatto.
L'attrazione per una carta geografica è una cosa alquanto complessa ed entusiasmante, a partire da quelle cosiddette politiche, davanti alle quali il primo pensiero, la prima domanda era se ci fosse, e se si quale, un collegamento fra i colori scelti per distinguere gli stati tra loro: le carte sulle pareti delle aule erano un luogo a metà fra la mente che li scolpiva immaginandoli, ed i sentieri, i fiumi e le montagne reali su cui posare un piede o da guardare camminando a ritroso, come quando si torna da qualche posto e si vuole che la memoria visiva padroneggi un panorama per l'ultima volta, prima di tornare indietro.
Nelle carte di scala più ridotta, quelle difficili anche da aprire e tenere sul tavolo, c'erano di sicuro le scoperte più ricche. Quelle che mai avrei potuto riprodurre sui quaderni.
Per riuscire ad aprirle per intero bisognava metterle in terra, e poi sdraiarvisi sopra, con la faccia a pochi centimetri, come sorvolando il terreno da un elicottero, per accorgersi di particolari difficili da vedere nell'insieme, curve altimetriche, affluenti, villaggi... era solo difficile muoversi senza rischiare di stracciare la carta, il resto veniva da sé. Andava e veniva, da sé. Posso ringraziare le circostanze che mi hanno consentito, negli anni, di andare in tanti di quei posti su cui avevo già volato; una delle cose più affascinanti, una volta che ci si trova in uno dei luoghi già immaginati, è la sensazione di stare con un piede sopra una linea che si ricorda perfettamente di aver già visto, e vissuto in quel modo. Toccare una strada o mettere la mano in un fiume, è come sdraiarsi ancora su quella carta, per terra, oppure come aver mantenuto fede ad un appuntamento preso molti anni prima. Come andare ad un appuntamento preso a distanza di così tanto tempo. È come potersi fidare di se stessi.
"Quando torna a casa e racconta quello che ha visto lo prendono per matto. L'Eldorado si impoverisce, diventa qualche pepita...": forse è per questo che non ho tenuto mai dei diari di viaggio. Eppure ci ho sempre pensato.
"Quando torna a casa e racconta quello che ha visto lo prendono per matto. L'Eldorado si impoverisce, diventa qualche pepita...": forse è per questo che non ho tenuto mai dei diari di viaggio. Eppure ci ho sempre pensato.
Forse perché quelle pepite del ritorno che ti ritrovi nelle tasche, ricordando i filoni d'oro, immensi e sotterranei visti sul luogo del desiderio che si materializza per qualsivoglia immaginazione, nelle tasche si sentivano come derubate del loro habitat, e nessun altro habitat sapevano che avrebbe mai potuto accoglierle. Tantomeno nei racconti. Tantomeno nella traduzione e nella condivisione, quella del tentativo di descriverle.
Soltanto chi è completamente innamorato delle Parole, conosce a volte la loro inanità.
Ed ogni traccia che è stata disegnata su una carta prima di essere stata vissuta di persona, può nascondere questo potere: come le mie sono state e saranno tante ancora, per altri potrebbero essere e saranno ancora completamente diverse.
"Il tunisino parte perché ha una geografia dei sogni. E al posto della mappa immaginaria, dei secoli scorsi, c'è la tivù. Si aspetta, appena arrivato a Lampedusa, di vincere due milioni in gettoni d'oro" (U. Eco)

Pepite. L'Eldorado potrebbe stare dappertutto. Meglio tenere gli occhi aperti. Sarà per questo che il bisogno di viaggiare appartiene in modo così profondo a chi ha una propria mappa interiore; una cartina geopolitica su cui distendersi per fissare gli appuntamenti; un pensiero di quelli che accendono un sorriso automatico al solo tintinnio del lontano preannuncio del suo arrivo.
Mettere il piede su ogni punto della carta immaginato ed atteso. Calpestarlo come per assicurarsi che esiste il proprio punto sognato. E scendere in profondità, calandosi dall'alto.
Mettere il piede su ogni punto della carta immaginato ed atteso. Calpestarlo come per assicurarsi che esiste il proprio punto sognato. E scendere in profondità, calandosi dall'alto.
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Le citazioni di Umberto Eco sono tratte dalla conversazione con Wlodek Goldkorn (potete scaricarla qui) pubblicata in questi giorni, in occasione dell'uscita del suo libro Costruire il nemico.
E' da lì, che è cominciata questa passeggiata.
E' da lì, che è cominciata questa passeggiata.