sabato 21 maggio 2011

Calpestare le linee

(passeggiata su una carta geografica con l'orecchio teso ad est di Umberto Eco)
Cabeza de Vaca scopre davvero le cascate dell'Iguazù, ma quando torna a casa e racconta quello che ha visto lo prendono per matto. L'Eldorado si impoverisce, diventa qualche pepita...” (U. Eco)
Iguazù, è uno dei luoghi in cui si avverte meglio una certa sensazione dell’esserci, e di essere riusciti a ricostruire una mappa personale degli appuntamenti con se stessi. Il primo ricordo è che ci sono tre diverse zone convenzionali che compongono quel territorio, trovandosi all'incrocio fra le delimitazioni amministrative di Brasile, Argentina e Paraguay: da ogni lato, senti che guardare il lato opposto è proprio come calarsi dall'alto di una cartina geopolitica, e scendere fino a che la visualizzazione diventa geografica, finché quelle linee perdono di senso, lasciandolo soltanto alle linee rotte e frammentate della costa del fiume, ai dirupi da cui ci si affaccia, alla identità territoriale unica su cui sono poste tre diverse bandiere a distanza di pochi metri.
L’appuntamento con questo senso del viaggio è antico. Dovrei aver avuto undici anni, perché era l'estate precedente l'ultimo anno delle scuole medie. Senza un preciso assegno, come si diceva allora, all'inizio di quei quattro (!) mesi di vacanze mi venne in mente di preparare qualcosa per l'anno successivo, e così diedi uno sguardo al programma; scelsi la geografia, o almeno la scelsi come base di partenza, presi quello che allora si chiamava un quaderno di computisteria e cominciai a disegnare una ad una tutte le regioni italiane, a mano ed a colori, copiando un po' dagli atlanti, e poi a scrivere alcune pagine su ognuna, con i dati sulla superficie, gli abitanti, la densità, le caratteristiche orografiche, i confini, le bellezze antropiche e naturali, l'economia, nozioni storiche e linguistiche come anche culturali e floro-faunistiche. Una volta credo si chiamassero ricerche.
Poi l'Italia finì. Prima o poi, pure doveva finire, e del resto le regioni sono solo venti. E finirono anche molto presto. Cominciai quindi a guardare a nord, e passai all'Europa. Demografia, economia, storia, cultura... uno ad uno, tutti gli Stati europei rimasero disegnati sulle pagine del quaderno, ora colorati e classificati secondo i temi.
Ma naturalmente finì anche l'Europa, e così arrivò l'Asia, magica e meravigliosa, l'immensa Asia, poi l'America, l'Africa ed infine l'Oceania.
Il quaderno non era finito perché avevo aggiunto non so in quale modo alcuni altri fogli o prolunghe artificiali, ma il mondo si, quello era finito. Quell'estate si sentiva per radio la canzone Stranamore di Roberto Vecchioni, e la ricordo perchè pensai che mi sarei dovuto sentire un po' come il protagonista di quella storia, quando "il più grande / conquistò nazione dopo nazione, / e quando fu di fronte al mare si sentì un coglione / perché più in là non si poteva conquistare niente..."
Ed invece no. Non mi sentivo affatto perso o disperso, anzi. In quei pochi giorni mi sembrava di aver solo cominciato un viaggio, o meglio ancora, di aver preso più coscienza del valore di un viaggio in sé. Dovevo senza dubbio iniziarne subito un altro.
"Passavo ore al liceo, a tenere l'atlante sotto il banco. Andavo in Siberia, da lì in Kamchatka. Alla base della geografia c'è immaginazione e curiosità. E che la geografia sia legata alla ricerca del paradiso terrestre mi sembra ovvio: le prime carte geografiche, in Occidente, cercavano appunto di localizzarlo. Sono affascinato dalla geografia immaginaria, perché ogni geografia in statu nascenti lo è, altrimenti registra quello che si sa già" (U. Eco)
Una volta consegnato, il primo giorno di scuola, quello che si rivelò essere l'intero programma dell'anno già svolto, pensai che c'era poco altro che poteva venir fuori da un'aula o da un sussidiario, anche se il fascino delle carte geografiche rimaneva sempre intatto.
L'attrazione per una carta geografica è una cosa alquanto complessa ed entusiasmante, a partire da quelle cosiddette politiche, davanti alle quali il primo pensiero, la prima domanda era se ci fosse, e se si quale, un collegamento fra i colori scelti per distinguere gli stati tra loro: le carte sulle pareti delle aule erano un luogo a metà fra la mente che li scolpiva immaginandoli, ed i sentieri, i fiumi e le montagne reali su cui posare un piede o da guardare camminando a ritroso, come quando si torna da qualche posto e si vuole che la memoria visiva padroneggi un panorama per l'ultima volta, prima di tornare indietro.
Nelle carte di scala più ridotta, quelle difficili anche da aprire e tenere sul tavolo, c'erano di sicuro le scoperte più ricche. Quelle che mai avrei potuto riprodurre sui quaderni.
Per riuscire ad aprirle per intero bisognava metterle in terra, e poi sdraiarvisi sopra, con la faccia a pochi centimetri, come sorvolando il terreno da un elicottero, per accorgersi di particolari difficili da vedere nell'insieme, curve altimetriche, affluenti, villaggi... era solo difficile muoversi senza rischiare di stracciare la carta, il resto veniva da sé. Andava e veniva, da sé. Posso ringraziare le circostanze che mi hanno consentito, negli anni, di andare in tanti di quei posti su cui avevo già volato; una delle cose più affascinanti, una volta che ci si trova in uno dei luoghi già immaginati, è la sensazione di stare con un piede sopra una linea che si ricorda perfettamente di aver già visto, e vissuto in quel modo. Toccare una strada o mettere la mano in un fiume, è come sdraiarsi ancora su quella carta, per terra, oppure come aver mantenuto fede ad un appuntamento preso molti anni prima. Come andare ad un appuntamento preso a distanza di così tanto tempo. È come potersi fidare di se stessi. 

"Quando torna a casa e racconta quello che ha visto lo prendono per matto. L'Eldorado si impoverisce, diventa qualche pepita...": forse è per questo che non ho tenuto mai dei diari di viaggio. Eppure ci ho sempre pensato.
Forse perché quelle pepite del ritorno che ti ritrovi nelle tasche, ricordando i filoni d'oro, immensi e sotterranei visti sul luogo del desiderio che si materializza per qualsivoglia immaginazione, nelle tasche si sentivano come derubate del loro habitat, e nessun altro habitat sapevano che avrebbe mai potuto accoglierle. Tantomeno nei racconti. Tantomeno nella traduzione e nella condivisione, quella del tentativo di descriverle.
Soltanto chi è completamente innamorato delle Parole, conosce a volte la loro inanità.
Ed ogni traccia che è stata disegnata su una carta prima di essere stata vissuta di persona, può nascondere questo potere: come le mie sono state e saranno tante ancora, per altri potrebbero essere e saranno ancora completamente diverse.
"Il tunisino parte perché ha una geografia dei sogni. E al posto della mappa immaginaria, dei secoli scorsi, c'è la tivù. Si aspetta, appena arrivato a Lampedusa, di vincere due milioni in gettoni d'oro" (U. Eco)
Ovvero, come anche potrebbe dirsi, le tracce sono il potere. Magari anche un destino fortemente già inciso. Segni, lasciati sospesi finché non acquistano il senso che qualcuno attribuisce loro, magari perché ci si è sdraiato sopra anni prima, o magari perché ha sentito il jingle della risposta esatta in tivù. Ovvio per il nostro punto di vista preferire che sia un sentiero fatto in pietra, a materializzare la strada che congiunge un punto di patenza ad un arrivo, e sentire il vento, guardarsi attorno, ma il percorso in sostanza è lo stesso, ed avere una meta conta soprattutto, se non soltanto, per il viaggio da cominciare.
Pepite. L'Eldorado potrebbe stare dappertutto. Meglio tenere gli occhi aperti. Sarà per questo che il bisogno di viaggiare appartiene in modo così profondo a chi ha una propria mappa interiore; una cartina geopolitica su cui distendersi per fissare gli appuntamenti; un pensiero di quelli che accendono un sorriso automatico al solo tintinnio del lontano preannuncio del suo arrivo.
Mettere il piede su ogni punto della carta immaginato ed atteso. Calpestarlo come per assicurarsi che esiste il proprio punto sognato. E scendere in profondità, calandosi dall'alto.
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Le citazioni di Umberto Eco sono tratte dalla conversazione con Wlodek Goldkorn (potete scaricarla qui) pubblicata in questi giorni, in occasione dell'uscita del suo libro Costruire il nemico.
E' da lì, che è cominciata questa passeggiata.

mercoledì 4 maggio 2011

...che ti aspettavi?


Formidabile, vero? Si, formidabile, ma forse non troppo sorprendente. E' ben noto, ormai, che il cervello risponde soprattutto alle sollecitazioni indotte da un fattore che ha una potenza ed una resa fra le più potenti in natura: l'aspettativa.
Guardiamo ciò che in tutto o in parte abbiamo già deciso di vedere, e lo stesso accade quando ascoltiamo, perché il cervello non è affatto una tabula rasa, quanto piuttosto una tavoletta complessa, la cui percezione sensoriale dipende anche dalle aspettative che ha sulla realtà, secondo l'esperienza che ha fatto (che gli abbiamo fatto fare), e pertanto secondo la linea retta più breve fra gli elementi da valutare, e la conseguente soluzione più semplice. Già, più semplice, perché l'incrocio di dati insegna questo, che l'aspettativa che abbiamo di fronte alle cose, normalmente, è costruita in maniera tale da fornire sempre quella che è, a prima vista come appunto e non a caso si dice, la soluzione più semplice da interpretare.
Non mi vergogno di ricordare che alcuni esperimenti assai empirici per dimostrare a me stesso questo principio, pur se mancanti di adeguata consapevolezza analitica, in giovanissima età mi suggerivano ad esempio che ad un tavolo di poker fra persone conosciute, nessuno si accorgeva mai che se si usava la massima disinvoltura, ovvero come se fosse un gesto assolutamente naturale ed appartenente al gioco, lo sperimentatore occasionale (io) poteva tranquillamente sostituire le sue carte a piacimento con altre, senza compiere gesti che facessero sospettare un sotterfugio, anzi proprio la naturalezza era l'elemento indispensabile per ottenere il risultato della soddisfazione dell'aspettativa altrui: tu mi conosci, stai giocando con me, ti aspetti una tranquilla partita di carte, io sotto agli occhi sfilo altre carte posando le mie in quantità, ed è fatta (salvo poi chiarire la cosa fra amici, se ci credete... n.d.r.).
Nonostante i buoni propositi scientifici, sarà meglio non estrarre dalla memoria altri ricordi, avendo un minimo di reputazione da difendere ed una fedina penale intonsa.
Di questo meccanismo possiamo citare anche un esempio analogo recentemente apparso nelle cronache scientifiche, il cosiddetto backfire effect; qualcuno forse lo ricorda, ne parlammo in questo articolo riferendoci a quella particolare attività del cervello appositamente dedicata a combattere una verità, ed a conservare gli effetti di una bugia.
Ma il pensiero con il quale evidentemente devo essermi svegliato stamattina, ed anche quello che mi sembra più utile qui, è il tentativo di allargare un po' il ragionamento. Facciamo un piccolo passo indietro di 722 anni, ed entriamo in una buia cella della Muda, una delle torri dei Gualandi, a Pisa. Ci sediamo, e per vedere la scena apriamo il 33° Canto della Divina Commedia, ai versi 67-75. Molti l'avranno riconosciuto, è Ugolino della Gherardesca, comandante navale e ghibellino di spicco, chiuso nella Prigione della Fame con i suoi figli Gaddo e Uguccione, ed i nipoti Anselmuccio e Lapo.
Dietro preciso ordine dell'arcivescovo, che intanto si era anche autoproclamato podestà, di quella cella fu gettata la chiave nell'Arno, lasciando i cinque a morire di fame.
Non è lui ad inserirsi direttamente nel nostro discorso, ma la sua trasposizione letteraria più celebre, quella appunto del canto dantesco:

Poscia che fummo al quarto dì venuti
Gaddo mi si gettò disteso a' piedi,
e disse: "Padre mio, ché non m'aiuti?".
Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid'io cascar li tre ad uno ad uno
tra il quinto dì e 'l sesto; ond'io mi diedi,
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, più che il dolor, poté il digiuno.

Mi farò aiutare in questo percorso da Jorge Luis Borges, che nei raffinati Esayos Dantescos (1982) aveva notato e registrato assai bene questa particolarità presente in molti dei commentari danteschi, che lui definiva "una confusione tra arte e realtà": il verso 75 (Poscia, più che il dolor, poté il digiuno) fu interpretato dai glossatori antichi, fino a Geoffrey Chaucher e Benedetto Croce, in maniera poco problematica, ovvero nel senso che il dolore non potè uccidere Ugolino, ma la fame si. Dopo un certo periodo invece, molti diedero praticamente per scontato che il significato fosse diverso, ovvero che Ugolino, vinto dalla fame, superò infine anche il dolore per l'atto immondo, e mangiò i figli suoi. Tanto da farne perfino una icona nell'immaginario collettivo: questa statua al Museo d'Orsay rispecchia fedelmente, appunto, questa tradizione.
Auguste Rodin, Il Conte Ugolino (Musée d'Orsay)


Una differenza non da poco.
Del secolare dibattito vi risparmio i dettagli, se non per riportare le conclusioni di uno studio delle costole dei presunti scheletri, sulle quali sono state rilevate tracce di magnesio ma non di zinco, come accade nei casi di cannibalismo.
L'aspetto interessante, invece, è che probabilmente, anche per i richiami che precedono i versi, Dante abbia potuto voler rendere volontariamente ambigua l'interpretazione: Ugolino rode il cranio dell'Arcivescovo Ruggieri (e si sa, questa era la sua condanna), poi sogna cani che lacerano i fianchi del lupo ("e con l'agute scane mi parea lor fender li fianchi"), indi spinto dal dolore si morde le mani, ode i figli offrirgli la loro stessa carne quasi facendo prevedere l'empio gesto ("tu ne vestisti queste misere carni, e tu ne spoglia"), ed infine, pronunciato l'ambiguo verso, torna al gesto efferato del rodere il cranio dell'Arcivescovo... sembra proprio una complessa trama precostituita allo scopo di creare, appunto, la nostra cara aspettativa!
Se fosse così, caro Dante, queste terzine si inscriverebbero magnificamente nelle ricerche scientifiche, offrendo un perfetto esempio della direzione che si prende una volta istradati con tanta perizia: suggerendo e simboleggiando l'atrocità a venire, essendo insieme parte del racconto e profezie dello stesso, lasciano intravedere il mostruoso delitto di Ugolino, portandocene sulla soglia, il che è peggio che negarlo o affermarlo.
Borges pensò che non fosse consapevole, questo tracciato, e che alla fine ciò che contava era che l'imprecisione e l'incertezza in cui si trovava Ugolino fosse la stessa materia (letteraria) di cui era costituito e nella quale tutti avrebbero dovuto sognarlo, ma ancora una volta conta poco la realtà, rispetto alla trama che ispira, di fronte alla quale, una volta che la nostra mente ha scelto di seguire la linea che reputa più attendibile, facciamo la scelta di credere in qualcosa senza farcene adeguati e seri dubbi.
Certo, è un limite, ma più che rammaricarsene, dovrebbe semplicemente tenersene conto, e magari offrire più spazio alle possibilità che abbiamo di interpretare la realtà secondo schemi non troppo precostituiti, almeno come piccolo contributo alla piccola, infinita battaglia per l'affermazione del dubbio.



p.s.

non so voi, ma io ad esempio di fronte a questo tipo di scritte, mi fermo sempre un bel po' di tempo, per capire se devo spingere, o tirare...