Formidabile, vero? Si, formidabile, ma forse non troppo sorprendente. E' ben noto, ormai, che il cervello risponde soprattutto alle sollecitazioni indotte da un fattore che ha una potenza ed una resa fra le più potenti in natura: l'aspettativa.
Guardiamo ciò che in tutto o in parte abbiamo già deciso di vedere, e lo stesso accade quando ascoltiamo, perché il cervello non è affatto una tabula rasa, quanto piuttosto una tavoletta complessa, la cui percezione sensoriale dipende anche dalle aspettative che ha sulla realtà, secondo l'esperienza che ha fatto (che gli abbiamo fatto fare), e pertanto secondo la linea retta più breve fra gli elementi da valutare, e la conseguente soluzione più semplice. Già, più semplice, perché l'incrocio di dati insegna questo, che l'aspettativa che abbiamo di fronte alle cose, normalmente, è costruita in maniera tale da fornire sempre quella che è, a prima vista come appunto e non a caso si dice, la soluzione più semplice da interpretare.
Non mi vergogno di ricordare che alcuni esperimenti assai empirici per dimostrare a me stesso questo principio, pur se mancanti di adeguata consapevolezza analitica, in giovanissima età mi suggerivano ad esempio che ad un tavolo di poker fra persone conosciute, nessuno si accorgeva mai che se si usava la massima disinvoltura, ovvero come se fosse un gesto assolutamente naturale ed appartenente al gioco, lo sperimentatore occasionale (io) poteva tranquillamente sostituire le sue carte a piacimento con altre, senza compiere gesti che facessero sospettare un sotterfugio, anzi proprio la naturalezza era l'elemento indispensabile per ottenere il risultato della soddisfazione dell'aspettativa altrui: tu mi conosci, stai giocando con me, ti aspetti una tranquilla partita di carte, io sotto agli occhi sfilo altre carte posando le mie in quantità, ed è fatta (salvo poi chiarire la cosa fra amici, se ci credete... n.d.r.).
Nonostante i buoni propositi scientifici, sarà meglio non estrarre dalla memoria altri ricordi, avendo un minimo di reputazione da difendere ed una fedina penale intonsa.
Di questo meccanismo possiamo citare anche un esempio analogo recentemente apparso nelle cronache scientifiche, il cosiddetto backfire effect; qualcuno forse lo ricorda, ne parlammo in questo articolo riferendoci a quella particolare attività del cervello appositamente dedicata a combattere una verità, ed a conservare gli effetti di una bugia.
Ma il pensiero con il quale evidentemente devo essermi svegliato stamattina, ed anche quello che mi sembra più utile qui, è il tentativo di allargare un po' il ragionamento. Facciamo un piccolo passo indietro di 722 anni, ed entriamo in una buia cella della Muda, una delle torri dei Gualandi, a Pisa. Ci sediamo, e per vedere la scena apriamo il 33° Canto della Divina Commedia, ai versi 67-75. Molti l'avranno riconosciuto, è Ugolino della Gherardesca, comandante navale e ghibellino di spicco, chiuso nella Prigione della Fame con i suoi figli Gaddo e Uguccione, ed i nipoti Anselmuccio e Lapo.
Dietro preciso ordine dell'arcivescovo, che intanto si era anche autoproclamato podestà, di quella cella fu gettata la chiave nell'Arno, lasciando i cinque a morire di fame.
Non è lui ad inserirsi direttamente nel nostro discorso, ma la sua trasposizione letteraria più celebre, quella appunto del canto dantesco:
Poscia che fummo al quarto dì venuti
Gaddo mi si gettò disteso a' piedi,
e disse: "Padre mio, ché non m'aiuti?".
Gaddo mi si gettò disteso a' piedi,
e disse: "Padre mio, ché non m'aiuti?".
Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid'io cascar li tre ad uno ad uno
tra il quinto dì e 'l sesto; ond'io mi diedi,
vid'io cascar li tre ad uno ad uno
tra il quinto dì e 'l sesto; ond'io mi diedi,
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, più che il dolor, poté il digiuno.
e due dì li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, più che il dolor, poté il digiuno.
Mi farò aiutare in questo percorso da Jorge Luis Borges, che nei raffinati Esayos Dantescos (1982) aveva notato e registrato assai bene questa particolarità presente in molti dei commentari danteschi, che lui definiva "una confusione tra arte e realtà": il verso 75 (Poscia, più che il dolor, poté il digiuno) fu interpretato dai glossatori antichi, fino a Geoffrey Chaucher e Benedetto Croce, in maniera poco problematica, ovvero nel senso che il dolore non potè uccidere Ugolino, ma la fame si. Dopo un certo periodo invece, molti diedero praticamente per scontato che il significato fosse diverso, ovvero che Ugolino, vinto dalla fame, superò infine anche il dolore per l'atto immondo, e mangiò i figli suoi. Tanto da farne perfino una icona nell'immaginario collettivo: questa statua al Museo d'Orsay rispecchia fedelmente, appunto, questa tradizione.
Auguste Rodin, Il Conte Ugolino (Musée d'Orsay) |
Una differenza non da poco.
Del secolare dibattito vi risparmio i dettagli, se non per riportare le conclusioni di uno studio delle costole dei presunti scheletri, sulle quali sono state rilevate tracce di magnesio ma non di zinco, come accade nei casi di cannibalismo.
L'aspetto interessante, invece, è che probabilmente, anche per i richiami che precedono i versi, Dante abbia potuto voler rendere volontariamente ambigua l'interpretazione: Ugolino rode il cranio dell'Arcivescovo Ruggieri (e si sa, questa era la sua condanna), poi sogna cani che lacerano i fianchi del lupo ("e con l'agute scane mi parea lor fender li fianchi"), indi spinto dal dolore si morde le mani, ode i figli offrirgli la loro stessa carne quasi facendo prevedere l'empio gesto ("tu ne vestisti queste misere carni, e tu ne spoglia"), ed infine, pronunciato l'ambiguo verso, torna al gesto efferato del rodere il cranio dell'Arcivescovo... sembra proprio una complessa trama precostituita allo scopo di creare, appunto, la nostra cara aspettativa!
Se fosse così, caro Dante, queste terzine si inscriverebbero magnificamente nelle ricerche scientifiche, offrendo un perfetto esempio della direzione che si prende una volta istradati con tanta perizia: suggerendo e simboleggiando l'atrocità a venire, essendo insieme parte del racconto e profezie dello stesso, lasciano intravedere il mostruoso delitto di Ugolino, portandocene sulla soglia, il che è peggio che negarlo o affermarlo.
Borges pensò che non fosse consapevole, questo tracciato, e che alla fine ciò che contava era che l'imprecisione e l'incertezza in cui si trovava Ugolino fosse la stessa materia (letteraria) di cui era costituito e nella quale tutti avrebbero dovuto sognarlo, ma ancora una volta conta poco la realtà, rispetto alla trama che ispira, di fronte alla quale, una volta che la nostra mente ha scelto di seguire la linea che reputa più attendibile, facciamo la scelta di credere in qualcosa senza farcene adeguati e seri dubbi.
Certo, è un limite, ma più che rammaricarsene, dovrebbe semplicemente tenersene conto, e magari offrire più spazio alle possibilità che abbiamo di interpretare la realtà secondo schemi non troppo precostituiti, almeno come piccolo contributo alla piccola, infinita battaglia per l'affermazione del dubbio.

non so voi, ma io ad esempio di fronte a questo tipo di scritte, mi fermo sempre un bel po' di tempo, per capire se devo spingere, o tirare...
resto perplessa anch'io e puntualmente sbaglio scelta....
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