martedì 19 luglio 2011

Una Tana interiore

(pubblicato su www.teatro.org)

Difficile trovare una aderenza simbiotica più importante, in uno spettacolo, come quella fra location e testo che la regia di Francesco Saponaro ha ottenuto ambientando La tana di Franz Kafka nelle Catacombe di San Gennaro.
Cunicoli mentali che si irraggiano fra i corridoi del vestibolo del II secolo, soste dell'angosciosa ricerca della costruzione più che perfetta fra gli arcosoli, e tutto questo, ed è forse anche l'effetto più sorprendente, conservando un'atmosfera che perfino dirada la claustrofobia della narrazione di questo strano e non definito animaletto: lo si immagini come meglio si vuole, mentre dedica chissà quanta parte della sua vita al sommo scopo di costruire la sua tana.
Non una tana qualunque, però: La tana, quella che dovrà diventare rifugio inespugnabile, definitivo luogo per antonomasia che gli assicuri la sicurezza assoluta. Per arrivare a tanto, scava indefinitamente ed erige una complessa struttura fatta di labirinti, passaggi segreti, piazzeforti, botole… tutto inutile, come ben si può immaginare, quando una ricerca così spasmodica nasconde invece l'inquietudine della vera soglia del pericolo, quella sua interiore, che rende inutili le strenue difese e tecniche di controllo esteriore, per quanto sofisticate ("Non è detto che colui al quale faccio venir la voglia d'inseguirmi sia un nemico vero e proprio, può essere benissimo un innocente qualunque [...] Invece non viene nessuno e io devo affidarmi a me stesso [...], sembra quasi che io stesso sia il nemico in attesa della buona occasione di irrompere con buon esito.", dal testo di Kafka).
La drammaturgia di Gianni Garrera sceglie momenti di scambio instabile che si dipanano fra tre ambienti diversi delle aree cimiteriali ctonie di Capodimonte, e le luci scelte, soprattutto nella parte centrale e finale, suggeriscono stati d'animo che fanno propendere per un'attenzione estetica all'animo del lavorìo sotterraneo, piuttosto che alla sua irrefrenabile angoscia. Scelta che aumenta il legame con il genius loci, e con quel modo assai particolare che aveva il popolo napoletano di vivere l’ipogeo e l’aldilà.
In questo quadro, una Mascia Musy irreale, paradossale e sempre sotto il pericolo di qualcosa di incombente, interpreta ottimamente questo animale che rifiuta di rendersi conto che il Nemico non è fuori, ma dentro di lui, e per un pomeriggio esalta, abbellisce e fa comprendere il ricordo di quando questo sito costituiva senza ombra di dubbio, una tappa obbligata dei visitatori del Grand Tour.

Frammenti superficiali di Mishima

Espressione visiva e concettuale, più performance e ricerca sul linguaggio che teatro: iAi - azioni in scena, ispirate dall'opera di Yukio Mishima, porta al Ridotto del Teatro Mercadante per il Fringe uno spettacolo fatto di elaborazioni visive e sonore che si collocano fuori dagli schemi attesi su di un palcoscenico.

Unico interprete, Alessandro Martinello per Tam Teatromusica vuole ispirarsi alle Lezioni spirituali per giovani samurai, del quale tuttavia è più evidente l'ambizione culturale e l'anelito all'incontro-scontro interiore e con altre tecnologie, piuttosto che il viaggio di vita, parole ed azioni, di fisicità e di pieni e vuoti dello spazio intorno.
In una fondamentale eleganza ben mantenuta di stile e di estetica che unisce la carne e gli elementi della scena, dalla spada alla pergamena, iAi si propone di procedere per accumulo di segni, essenziali ma emblematici; questo indubbiamente aiuta l'accostarsi alla yamatologia, e tuttavia nella loro relazione estremamente fluida con la realtà, anzi nel tentativo di ricrearla, trova però un linguaggio asincrono che  seppur voluto, resta a metà fra l'elaborazione soggettiva dello spettatore, e la sua intrinseca ed in fin dei conti assai dubbia non-descrittività.

mercoledì 6 luglio 2011

Critica della ragion del non


C'è una regola aurea, presente in ogni religione ed in ogni sapienza della storia dell'umanità, che può definirsi come la regola, o meglio, l'etica della reciprocità: è quel codice etico per il quale ad ogni essere umano deve riconoscersi un trattamento giusto, che nella rete delle relazioni interdipendenti diventa una specie di assicurazione globale valida per tutti: io tratto bene te, perché tu farai altrettanto con me. E' chiaro quindi che diventa anche il fondamento stesso della pacifica convivenza, del rispetto e dello stesso concetto di giustizia.
Ci sono tracce di questo principio molto chiaramente espresse già nel pensiero greco, da Pittaco a Talete, a Sesto Pitagorico, Isocrate ed Epitteto. Provate a guardare, ad esempio, su questa pagina, un riepilogo di come questa sia sempre stata concepita come una regola etica universale.
Ebbene, dopo una rapida rassegna, sarà chiaro il concetto, immagino, eppure c'è qualcosa che colpisce credo inevitabilmente. Sembra un dettaglio. Non lo è.
E' una questione di forma, ma la forma, molto spesso, molto di più di quanto si creda, assume un valore di sostanza particolarmente marcato. L'esempio di quanto sostengo, credo l'esempio sovrano, soprattutto nella nostra civiltà, viene dal Vangelo secondo Matteo (7, 12). Prima di citare il testo originario, cerchiamo per un istante di ricordarci esattamente qual è, il principio dell'etica della reciprocità sopra ricordata, secondo il modo in cui emerge dai nostri ricordi di qualunque contatto abbiamo avuto ed abbiamo, con la religione cristiana. Anzi, se non siamo credenti o frequentiamo pochissimo le funzioni, ancora meglio, perché questo ricordo, se c'è come sono sicuro che ci sarà, vuol dire che è proprio un elemento-cardine della tradizione e della traduzione, dato che sarà presente perfino in coloro che hanno poca o nulla dimestichezza con l'argomento, il che mi aiuta a dimostrare la bontà di quanto mi salta agli occhi.

Ecco la citazione: "Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te stesso".
Si suppone che sia uno dei massimi e più conosciuti principi del Vangelo. Peccato solo che sia falso. E non di poco. Certo, a molti sembrerà invece che sia la stessa cosa. A me sembra invece perfino l'opposto.
L'originale del Vangelo secondo Matteo, infatti, dice: "Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro."
In fondo il senso è lo stesso, cambia solo l'aspetto del verbo, da positivo a negativo, si dirà.
...SOLO?
Mi scuso con questa inelegante inserzione di una parola a lettere maiuscole, serve per accentuare la mia indignazione. Dunque, sono arrivato a quello che mi sembra il punto più importante: l'uso del "non".
Il "non" è certamente alla base del principio dell'etica e della giustizia ("non nuocere" e "non nuocere all'altro"), ma c'è da chiedersi perché, anche laddove viene ribaltato nel principio dell'aiutare chi soffre, perdonare chi ha sbagliato e sollevare chi è caduto ("Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a Voi", appunto), una intera massa di persone che dovrebbero ereditarne il precetto, lo conserva invece con il suo reciproco negativo. Non fare.
Voglio tralasciare il lato dottrinale teologico, ed usare questo dato come una piccola riflessione su tutti i "non", sulla infinità di altri "non", di cui ci circondiamo in maniera da affaticarci la vita, e rendercela molto meno attraente di quello che può invece essere, specialmente nella sfera dei rapporti interpersonali.
Da quando conosciamo le proibizioni e gli obblighi con tutti i "non" che i genitori pronunciano verso i figli, fin quando discutiamo con la persona amata.
Diciamo pure che un bel "non" verso se stessi sarebbe anche apprezzabile di tanto in tanto, ma qui parliamo solo del "non" verso gli altri, quindi a questo punto sovvertiamo l'aspetto del verbo, trasformandolo semplicemente da negativo in positivo. Elementare, come spesso sono le cose rivoluzionarie. Facciamo un esperimento, o anche mille in qualunque situazione, e vediamo se qualcosa cambia davvero.

"Non devi fare una cosa" potrebbe diventare "Ti spiego come potresti fare meglio questa cosa".
"Non mi contraddire" potrebbe diventare "Cerca di capire meglio cosa sto dicendo, prima di rispondere così".
Probabilmente fa bene anche alla percezione di se stessi, sentirsi parlare così.
Non sarà determinante per le sorti dell'umanità come lo è l'etica della reciprocità, certo... ma potrebbe essere qualcosa che chiameremo etica della disponibilità, ovvero una forma di dono, e forse, nella quotidianità, questo atteggiamento, questa disposizione, questo andare verso l'altro, sono quanto di più necessario si possa offrire. Gratis, oltretutto.