giovedì 24 novembre 2011

Sogno di una regia d'estate


(pubblicato su www.teatro.org)

C'è un ambiente surreale, e quinte sospese, o meglio appese a mollette da bucato rosse, una piccola orchestra di accompagnamento sul fondo, vestiti dalla dominanza cromatica rossa quasi moderni, salvo i mantelli che richiamano l'antica nobiltà: appare così, con un tocco subito elegante, la scena del Sogno di una notte d'estate riletta da Carlo Cecchi (il titolo è stato modificato in tal senso dalla traduttrice, la poetessa Patrizia Cavalli).
Entrano la compagnia ed il capocomico, nella riproduzione di quella che è la scena di norma meno commentata e considerata, fra le tre dell'intreccio shakespeariano, nella quale una compagnia sgangherata di artigiani intende mettere in scena una rappresentazione più che dilettantesca sul tema di Piramo e Tisbe, ed è quella scelta dal regista per ritagliarsi la sua parte, trasferendo peraltro l'ambiente in linguaggio pressappoco vernacolare, che risulta quasi un'incursione fra i suoi allievi.

L'idea infatti è stata quella di portare in scena il saggio di diploma degli allievi attori dell'Accademia "Silvio D'Amico" del giugno 2009, e non nasconderò che il primo impatto è stato vagamente, e per principio, dubbioso: di Shakespeare se ne sono visti, giocati e trasformati più che ogni altro autore, per ovvi motivi (il primo ricordo infatti vola subito a Peter Brook, alla sua scatola bianca vuota ed alle fate maschili che si esibivano al trapezio), e così la prima domanda che spesso ci si pone è se ognuna di queste riproposizioni abbia un senso almeno filologico, attraverso mezzi, linguaggi ulteriori che ne facciano risaltare significati che così disvelano l'essere universale del testo, oppure non siano soltanto un ritmo di vestiti e trovate cangianti che semplicemente si indossano, come se le Ninfe del Sogno declamassero il loro essere Ninfe senza tanto accorgersi di avere un vestito rosa anziché verde, mentre magari gli avrebbe donato di più quello da Ninfa.
Ma qui il dubbio dura poco.
Il loro richiamare quasi un gioco infantile, il Puck versione fantasy-punk, il bosco sempre acceso di colori sgargianti, brillanti, un accento forte sul luccichìo, sul salto e sul colorare che fanno quasi ricordare le moderne trasmissioni televisive per i bambini, questo modo di incontrare le visioni come se gli occhi fossero sempre spalancati come i loro, ecco, tutto restituisce un senso che fa pensare di aver trovato dentro Shakespeare una serie di spot gioiosi come magari sarebbe potuto essere stato nelle situazioni buffe e comiche (perfino quando inciampano nel tappeto d'erba) della commedia fantastica concepita all'epoca, giocose e magiche, piene di finzione quanto di incanto ed equivoci, led luminosi nei quali restano catturate le invenzioni del Bardo. Delizioso e geniale.

Un sogno divertente e divertito, quello di Cecchi, e contemporaneamente solido e deciso come i suoi colori, come i suoi costumi ed i suoi movimenti, come la festa dei matrimoni attesa dopo il pericolo dello scambio di coppie fra Lisandro, Demetrio, Ermia ed Elena, ma anche leggero, come devono essere state agli occhi di Shakespeare le contaminazioni delle Metamorfosi di Ovidio e dell'asino d'oro di Apuleio.


A corpo ed a misura

(pubblicato su www.teatro.org)


Tra le meno conosciute eppure tra le più piene di elementi di intreccio e di problematiche, Misura per Misura di Shakespeare arriva al Mercadante con Eros Pagni nella veste dell'immaginario Duca di Vienna, ed offre in un tempo relativamente concentrato la sua lunga alternanza di temi che hanno il pregio maggiore nel disporre dei personaggi a piacimento della vita, nel senso che molti di loro vengono messi in una luce diversa secondo le situazioni, rendendo una vivissima interpretazione dell'animo umano di fronte alle scelte ed ai dubbi.
Lussuria e fedeltà, etica e politica, giustizia ed opportunismo, sono solo alcuni dei motivi di riflessione in questa che viene spesso inventariata come problem play, ovvero come campo di prova sia per la commedia che per la tragedia, in una storia che vede il Duca Vincenzo lasciare temporaneamente il potere al suo fedele Angelo, dalla reputazione di assoluta giustizia e castità.
Naturalmente Angelo ben presto, assiso sullo scranno del Potere, si rivela nei due eccessi di rigorosità perfino eccessiva, e di lussuria indulgente al crimine, non sapendo che in realtà il Duca non avrebbe abbandonato il suo territorio, essendovi rimasto sotto le mentite spoglie di un frate, proprio per controllare la sua natura ipocrita. Gli intrighi si sprecano, si autoalimentano e si accavallano, così come i lati oscuri che fanno saltare di volta in volta l'attenzione sul "colpevole" fra più di un personaggio.

Data la natura stessa del testo, cui Marco Sciaccaluga si attiene con fedeltà, si risente di una certa differenza fra un avvio alquanto pesante ed un prosieguo assai più coinvolgente, poichè la lente di Shakespeare si sofferma in avvio in maniera alquanto eccessiva sulla morale e sull'osservazione dei caratteri, con monologhi e stasi (sottolineati peraltro da Tom Waits) per una commedia nera come quella che voleva essere, mentre nello svoglimento degli eventi, via via tutto si intreccia con battute e movimenti molto più rapidi e dai passi e tempi veloci, cambi di scena con soluzioni efficaci nei quali anche gli attori sembrano essere più a loro agio, creando un insieme di scena compatto e convincente.
A tutto questo giova anche una scenografia indovinata ed un'ambientazione che a volte sconfina nel modernariato (il Duca comunica i suoi desiderata via telefono, si alternano giacche e cravatte di adulti contro dark e punk di giovani) e che si appoggia ad una struttura semovente che si trasforma di continuo, nella quale i personaggi si inseguono ad occupare gli spazi di volta in volta, fino a costruire quasi l'immagine della Narren Schiff (La nave dei folli) di Sebastian Brant, proprio quella che ispirò poi Jheronimus Bosch.

"Non giudicate, per non essere giudicati;  perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati": è senz'altro questa, l'ispirazione che ha generato il discorso centrale del Duca, e proviene direttamente dal Vangelo secondo Matteo. Uno spunto particolarmente adatto a non centrare appunto la colpa su uno solo dei suoi personaggi, perchè se da un lato minaccia la punizione, dall'altro si riferisce allo stesso esaminatore e pertanto minaccia di non giudicare...

Poteri e Consorti

(pubblicato su www.teatro.org)

La serva schiavizzata segue i percorsi delle parole autoreferenziali che vaniloquiano monologhi con se stesse come in un gioco nel quale il bambino è costretto a rimanere da solo nel suo recinto con un paio di palle colorate: è il gioco del Potere che gioca la moglie del Presidente, autorizzata a pensarsi nel pieno e soprattutto nel centro della vita sua e di quella degli altri: nella commedia scritta da Thomas Bernhard a metà di un periodo tormentato come il decennio degli anni '70, fra attentati anarchici e repressione, anni che Bernhard vide da vicino e che incise con tratti sarcastici e cupi nel suo Der Präsident, i suoi personaggi prendono vita nell'incarnazione dell'amoralità sotto le forme di emblemi e caratteri che in questa edizione di Carlo Cerciello devono essere state assunte sulla scena con forme che probabilmente sono servite ad enfatizzare il loro carattere di visibilità contemporanea.
Questo perchè soprattutto dal punto di vista dell'impatto visivo, le distanze che si frappongono rispetto al testo di Bernhard vivono attraverso concetti che se da un lato conferiscono visione postmoderna, dall'altro rinunciano a mettere in scena gli accenti di un aspetto tipico delle sue commedie politiche, ovvero una finalità di smascheramento che insieme si trucca e si toglie il trucco, che insieme nasconde e rivela un volto che può ridursi ad una smorfia o ad uno sberleffo: visualizzare con idea ieratica la moglie del Presidente in cima ad una enorme, onnicomprensiva gonna di plissè nera, che tutto ingloba e tutto divora intorno, è uno degli esempi appunto di questa sostituzione, del passaggio dai tavolini e dalle figure statiche se non ristagnanti, a questi protagonisti, una che seppur fissa sembra muoversi attraverso il suo inglobamento, l'altro iperattivo nel suo appetito subliminal-sessuale.

Nella prima delle due scene, ispirata ad una propensione vagamente grotowskiana, la moglie del Presidente (una Imma Villa che regge benissimo il soliloquio, pur potendo ipotizzarne, tuttavia, un impeto ancor maggiore nelle sue variazioni e nei suoi sbalzi), in uno sfondo come quello dei fatti della Baader Meinhoff e delle bande anarchiche, si appara per i funerali di Stato ai caduti della scorta del Presidente, scampato invece per miracolo all’attentato. E non piange altri, che il suo cane, morto anch'esso ma di crepacuore, per lo spavento.
Ella è a tutti gli effetti il Potere, anzi il suo effetto collaterale ("assumere il ruolo della moglie del Presidente"), ovvero la Con-sorte, perché appunto il Potere si trasmette per osmosi, di fianco, di lato, di volto in volto, assorbendo chiunque cada o ricada nel suo raggio di interesse anche solo indirettamente, e perfino, come qui, per ius sanguinis.
Trasmutata in co-Potere, quindi, la Moglie schiaffeggia vieppiù la serva con parole come "Lei non ha nessun diritto di vestirsi di nero", tanto perchè sia chiaro che nemmeno le briciole delle apparenze, il Potere lascia ai sudditi, ed apostrofa inconcludenze quotidiane tipiche quali "Ma perchè mi è venuto in mente di andare al monumento al milite ignoto, quando volevo comprarmi un cappellino nuovo?"

Il Presidente invece si abbandona alla gozzoviglia anche volgare, intrattenendosi con la sua amante -non casualmente attrice- nella vasca da bagno di un hotel extralusso in Portogallo, e declama la sua visione dell'arte della politica, facendoci rendere facilmente conto che in qualsivoglia modo lo si possa considerare, l'unico vero limite deve ritrovarlo infine nello spazio che si rivela sempre troppo angusto, per il suo ego. Il tutto seguendo anche un ritmo frenetico (ecco il secondo quadro reinterpretato dalla regia), fino a sfociare nel ritmo della banda di monelli -uno dei migliori simboli da opéra-comique- della Carmen ("Nous marchons, la tête haute / Comme de petits soldats, / Marquant, sans faire de faute, / Une, deux, marquant le pas..."), sbeffeggiando il Potere con un riferimento peraltro citato anche esplicitamente, con il 33 giri in bella mostra accanto alla vasca da bagno.
C'è poi un tasto toccato più volte, e lasciato a porsi solo qualche domanda magari in attesa del processo coevo alle bande anarchiche, ed è quell'accenno che spesso viene fatto sui figli, prima dalla moglie del Presidente in tono accusatorio nei confronti della serva, e poi dal Presidente stesso (un Paolo Coletta che si getta senza esitazione alcuna in quell'ego, nuotandoci sempre con sicurezza), quando medita (ebbene sì, capita anche a lui) sui figli destinati ad uccidere i padri, e tanto basti per non aprire sull'argomento capitoli copiosi quanto ultronei.
Accennato ad un simbolo dell'elettronica inesplorato di accensione/spegnimento che si trova in cima al bagno a 5 stelle, resta da dire sull'ultima scelta interpretativa, ovvero quella di cambiare il finale: dalla visione nichilista del deperimento dell'uomo così come del Potere, che nel testo di Thomas Bernhard si realizza con la salma del Presidente composta su un catafalco, con una grande apertura dalla bara dalla quale si vede il suo volto, e con la processione formata dalla Moglie, poi dal Governo, poi dai Diplomatici ed infine dal Popolo, si giunge qui a spezzare la narrazione per dare lettura, con la voce delle due vittime (la serva e l'attrice), di una dichiarazione della terrorista Ulrike Meinhof -colei contro la quale all'epoca era in corso il processo- circa il suo rifiuto di accettare il ruolo fatuo e sottoposto della donna.

Thomas Bernhard
È l'ultimo salto, opinabile ancor più degli altri, fra quelli coi quali si son voluti cercare moderni parallelismi, se non pure superfetazioni in eccesso, il che se da un lato denota una decisione di intervento e riscrittura effettuato con partecipazione, va a sopraffare però l'affidabilità di ciò che già in origine era stato ottimamente esplicitato con i tratti essenziali quanto incisivi della stessa materia prima.




venerdì 11 novembre 2011

TourVillon


(pubblicato su www.teatro.org)

Accompagnato da una figura vagamente androgina, nonché da un roteare di velocipedi ricostruiti con biciclette e dai primi sussulti di accompagnamento non verbale ma verbalizzato con singulti stridenti e strillati, Francois Villon, o ciò che dovrebbe rappresentarlo, appare in tutta la sua silenziosa rumorosità, nel buio ed impiccato, come sarebbe dovuto avvenire nel gennaio del 1463, quando il primo dei poeti maledetti, dopo essere stato destituito dallo status di chierico e sottoposto alla tortura dell'acqua, venne condannato alla forca e successivamente salvato dal suo stesso appello presentato al Parlamento francese: una contro-sentenza oltretutto sorprendente, per un organo che quasi mai ribaltava le sentenze, ed in attesa della quale Villon in carcere scrisse la sua opera forse più famosa, quella Ballata degli impiccati così piena di paura da risultare sorprendente, per colui che aveva sempre dimostrato uno sprezzo notevole delle conseguenze delle sue azioni.

Sento di dover fare questa premessa per la sua stretta connessione non solo e non tanto storica, quanto rispetto alla resa drammaturgica e scenografica di questo Villon - il Romanzo del peto del Diavolo di Andrea Saggiomo: da quella forca il Poeta salta fuori con una caduta ed è come se sospendesse l'attimo di vita per reinserirvi, nel suo momento decisivo, gli elementi che lo avevano contraddistinto nel suo passaggio terreno ora in bilico, ovvero un arco vitale smodato, ed una poetica enigmatica quanto sonora. Sono elementi che lo proteggono, è vero, ma a volte anche lo sovraespongono. Non a caso, allora, Villon letteralmente atterra proprio in un cerchio di sale, simbolo per eccellenza del circolo magico neopagano e poi medioevale di rituale autoprotettivo, archetipico di uno stato di coscienza che junghianamente diventa affermativo del proprio sé.

In questo senso, dentro al cerchio (in cui trova un soldo) avvengono le scritture più riuscite di un testo senza quasi testo, perchè giocato quasi esclusivamente sulle essenze delle voci, dei corpi, delle luci e dei suoni: il migliore momento è senz'altro quello in cui a terra, nel suo cerchio, il poeta, faccia a terra, raccoglie con ossessiva e lunga, pertinace tentazione di autodifesa, i libri che gli sono stati gettati addosso, e se ne ricopre la testa, come per nascondersi da un giudizio terreno e per celare, occultare, proteggere un anfratto di anima da conservare, per rimanere dentro sé stesso.

Sotto una luna sospesa sulla scena, sulla quale si proiettano immagini dai colori decisi ed alternativamente monocromi, Saggiomo sperimenta col suo corpo e con quello di Gaëlle Cavalieri, alcuni passaggi stessi di Le Testament e della Ballade des pendus (“Dono e lascio il mio corpo alla nostra madre terra...”), ma la riuscita dell'operazione è inficiata dai troppi accenti sul verso estremo del fronte dell'angoscia, dell'inquietudine, in cui scene immutevoli e prolungatissime probabilmente opprimono o quanto meno sottraggono spazio ad innumerevoli possibilità offerte dal personaggio, così come una scelta sonora con volumi difficilmente comparabili e compatibili fra le differenze delle scene stesse, come quello della cagnara in un crescendo ansiogeno, e nell'assenza di resa esegetica che avrebbe donato molto senso, come nel caso del lungo abbraccio con lo scheletro che diventa una danza - la danza macabra-simbolo dell'uguaglianza degli uomini nella morte, un classico del V secolo.

Viene da ricordare, senza scomodare nemmeno tanto le canzoni che gli dedicò Georges Brassens, quanta parte ebbe Villon ad esempio nel Gargantua e Pantagruel di François Rabelais, per pensare a quanta riscrittura un po' forzosa come questa, risulti anch'essa sovraesposta come gli elementi della vicenda di Francois Villon, con la differenza che stavolta, nel cerchio di sale, non è stato trovato alcun soldo.