(pubblicato su
www.teatro.org)

Accompagnato da una figura vagamente androgina, nonché da un roteare di
velocipedi ricostruiti con biciclette e dai primi sussulti di
accompagnamento non verbale ma verbalizzato con singulti stridenti e
strillati, Francois Villon, o ciò che dovrebbe rappresentarlo, appare in
tutta la sua silenziosa rumorosità, nel buio ed impiccato, come sarebbe
dovuto avvenire nel gennaio del 1463, quando il primo dei poeti
maledetti, dopo essere stato destituito dallo status di chierico e
sottoposto alla tortura dell'acqua, venne condannato alla forca e
successivamente salvato dal suo stesso appello presentato al Parlamento
francese: una contro-sentenza oltretutto sorprendente, per un organo che
quasi mai ribaltava le sentenze, ed in attesa della quale Villon in
carcere scrisse la sua opera forse più famosa, quella Ballata degli
impiccati così piena di paura da risultare sorprendente, per colui che
aveva sempre dimostrato uno sprezzo notevole delle conseguenze delle sue
azioni.

Sento di dover fare questa premessa per la sua stretta connessione non
solo e non tanto storica, quanto rispetto alla resa drammaturgica e
scenografica di questo
Villon - il Romanzo del peto del Diavolo
di Andrea Saggiomo: da quella forca il Poeta salta fuori con una caduta
ed è come se sospendesse l'attimo di vita per reinserirvi, nel suo
momento decisivo, gli elementi che lo avevano contraddistinto nel suo
passaggio terreno ora in bilico, ovvero un arco vitale smodato, ed una
poetica enigmatica quanto sonora. Sono elementi che lo proteggono, è
vero, ma a volte anche lo sovraespongono. Non a caso, allora, Villon
letteralmente atterra proprio in un
cerchio di sale, simbolo
per eccellenza del circolo magico neopagano e poi medioevale di rituale
autoprotettivo, archetipico di uno stato di coscienza che junghianamente
diventa affermativo del proprio sé.
In questo senso, dentro al cerchio (in cui trova un soldo) avvengono le
scritture più riuscite di un testo senza quasi testo, perchè giocato
quasi esclusivamente sulle essenze delle voci, dei corpi, delle luci e
dei suoni: il migliore momento è senz'altro quello in cui a terra, nel
suo cerchio, il poeta, faccia a terra, raccoglie con ossessiva e lunga,
pertinace tentazione di autodifesa, i libri che gli sono stati gettati
addosso, e se ne ricopre la testa, come per nascondersi da un giudizio
terreno e per celare, occultare, proteggere un anfratto di anima da
conservare, per rimanere dentro sé stesso.

Sotto una luna sospesa sulla scena, sulla quale si proiettano immagini
dai colori decisi ed alternativamente monocromi, Saggiomo sperimenta col
suo corpo e con quello di Gaëlle Cavalieri, alcuni passaggi stessi di
Le Testament e della Ballade des pendus (“
Dono e lascio il mio corpo alla nostra madre terra...”),
ma la riuscita dell'operazione è inficiata dai troppi accenti sul verso
estremo del fronte dell'angoscia, dell'inquietudine, in cui scene
immutevoli e prolungatissime probabilmente opprimono o quanto meno
sottraggono spazio ad innumerevoli possibilità offerte dal personaggio,
così come una scelta sonora con volumi difficilmente comparabili e
compatibili fra le differenze delle scene stesse, come quello della
cagnara in un crescendo ansiogeno, e nell'assenza di resa esegetica che
avrebbe donato molto senso, come nel caso del lungo abbraccio con lo
scheletro che diventa una danza - la danza macabra-simbolo
dell'uguaglianza degli uomini nella morte, un classico del V secolo.
Viene da ricordare, senza scomodare nemmeno tanto le canzoni che gli
dedicò Georges Brassens, quanta parte ebbe Villon ad esempio nel
Gargantua e Pantagruel
di François Rabelais, per pensare a quanta riscrittura un po' forzosa
come questa, risulti anch'essa sovraesposta come gli elementi della
vicenda di Francois Villon, con la differenza che stavolta, nel cerchio
di sale, non è stato trovato alcun soldo.

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