martedì 20 novembre 2012

La Corte della Formica – una cronaca quasi quotidiana

La prima serata della Formica è corsa via fra storie di Storia, e storie di finta Storia, ovvero di Leggenda, e va detto anzitutto che la prima sensazione è stata quella dell'importanza del format: il retrogusto che rimane dopo i primi tre spettacoli, è quello della differenza di risultato fra adattamento e scrittura dedicata...

(Le quattro puntate si trovano su www.teatro.org)

sabato 10 novembre 2012

L'ottava edizione della Corte della Formica

(pubblicato su www.teatro.org)


È una corte nata per far risaltare spazi e per conferire luce, quella che ormai dal 2005 ha inventato un genere che mancava, ha cambiato format, ha fatto conoscere autori ed interpreti, e si è inserita con la sua autorevolezza in un panorama, quello del corto teatrale, che mancava di uno strumento adeguato alle sue potenzialità.

È stata presentata l’ottava edizione de “La Corte della formica”, il festival nazionale di corti teatrali che si svolgerà dal 13 al 18 novembre: per il secondo anno lo spazio scenico è quello del Teatro Piccolo Bellini, dove i diciotto corti in gara dimostreranno la vitalità del testo breve incentrandosi stavolta sul tema “L'uomo e il suo tempo”.
Un terreno di confronto sul quale si alterneranno le idee di tradizione e di avanguardia, del passato e del futuro, selezionate privilegiando qualità e sperimentazione (da Giovanna II D’Angiò a Guglielmo Tell ed alla vergine Maria, dal Noir al gioco, dall’amore agli esperimenti onirico-metafisici, alla memoria, ai paradossi dell’animo umano, all'attualità, ai miti di Napoli, fino al racconto della Storia del teatro in 15 minuti...), come lo stesso ideatore e Direttore artistico Gianmarco Cesario ha ricordato nel Foyer del Bellini, elencando interessanti pillole di anteprima dei lavori in gara che parlano di gusti invero accattivanti, e di serate che si preannunciano originali e adatte a dimostrare ancora che la brevità è un pregio, se coglie l'essenza di un discorso che conserva l'anima del buon teatro.

La giuria, presieduta per il terzo anno da Gerardo D'Andrea, comprende Claudio Finelli, Roberto Azzurro, Paolo Coletta, Hilenia De Falco, Francesca Rondinella, Gabriele Russo e Alessandra Stella, ed il festival è arricchito da due sezioni che allargano il raggio d'azione pur restando in tema: “Scrivere a corte” e “La Corte della Formica Movie”, per premiare un racconto ed un cortometraggio cinematografico e per ricordare la vocazione del teatro come residenza ufficiale del pensiero artistico ed intellettuale, anche declinato in altre forme.

La rassegna cinematografica è coordinata da Lucio Allocca, in collaborazione con la Pigrecoemme Scuola di Cinema e la Stella Film, mentre quella dei corti di narrativa è coordinata da Claudio Finelli, in collaborazione con la casa editrice Homo Scrivens. Per l’intera durata della manifestazione, la mostra fotografica di Flaviana Frascogna “La Corte Pix” sarà ospitata nel Foyer del Bellini.

Va ricordato infine che l'incasso della manifestazione è destinato interamente alle compagnie partecipanti, un aspetto che per i nostri tempi è già di per sé una scelta esemplare di cosa significa essere anzitutto appassionati, e credere così a fondo in questo mondo fatto di assi di legno.

domenica 21 ottobre 2012

Tutti a bordo, si improvvisa

(pubblicato su www.teatro.org)



Quando ci si trova fuori ad un teatro, prima dello spettacolo, e ci viene chiesto di annotare su un foglio un pensiero, una emozione, oppure nomi e situazioni, comincia a cambiare subito l'atmosfera della serata, soprattutto per chi si avvicina da profano al teatro d'improvvisazione, ed in particolare alla forma italiana nata circa sei anni fa, l'Imprò, dopo aver importato per un ventennio, della nobile ed antica forma dell'Improvvisazione, soltanto le versioni del match di improvvisazione canadese, e del theatersport anglosassone.

Dall'urna dalla quale vengono estratti via via i pensieri degli spettatori, nascono i soggetti dello spettacolo stesso, poichè se un contenitore e di certo dei legami mentali esistono sulla scena e fra gli attori (in questo caso, ci troviamo in un aeroporto, con tre steward ed una hostess ad alternarsi fra i più esperti e virtuosi della scena nazionale come Giorgio Rosa, Tiziano Storti, Renato Preziuso e Deborah Fedrigucci), ebbene tutto il resto risiede appunto in un vaso pieno di foglietti estemporanei, che costoro trasformeranno in trame, in atteggiamenti, in reinvenzioni ludiche delle stesse parole scritte.
Una delle prime sorprese sta nel ritmo, che la compagnia QFC mantiene sempre al di sopra delle aspettative grazie a capacità attoriali personali e ad una conoscenza dei testi di cui si intuisce il substrato: la scena cambia in pochissimi secondi, il che significa averne l'input casuale pressoché in tempo reale, ed immediatamente ripartire con un canovaccio costituito a volte da una sola parola sconosciuta, che quando si rivela ridefinisce la struttura del racconto, ne fa ricominciare altri vincolati estemporaneamente dal pubblico, e così via.
In alcuni momenti si colgono gli sguardi degli attori che si cercano come se sapessero riannodare un'intesa al volo, anche senza sapere cosa l'altro starà per dire, ed è proprio così, funziona così bene che le parti comiche non si fanno attendere, creano anche uno loro ripetizione intrinseca richiamandosi a distanza di più scene, ed adottano un linguaggio teatrale di tutto rispetto. Così come si può immaginare sia il controllo della tecnica del suono e delle luci, altre componenti di un tutt'uno che si affida alla comprensione reciproca e delle cuciture artigianali dello spettacolo.


Il numero e la qualità delle sovrapposizioni, di conseguenza, è ovvio che muta ad ogni spettacolo (ogni sera sarà diversa dalla precedente, e pertanto è inutile ricordare anche le scene più riuscite perchè probabilmente non si ripeteranno (in questo caso facendo una menzione particolare per Mr. Tom Tom e Mr. Garmin, coscienti del fatto che solo i presenti a quel singolo spettacolo capiranno...), e se questo può far pensare ad una estemporaneità della sua stessa riuscita, va detto che anche gli attori degli spettacoli più classici essendo soggetti ad una loro migliore o peggiore disposizione, si produce un risultato affatto diverso, con... l'aggravante di avere tutto già preparato e predefinito; ma è utile ricordare soprattutto il senso antico da cui proviene l'idea di salire su un palcoscenico senza un testo predefinito, e risalire ai canoni della commedia dell'Arte, dei movimenti anti-censura, delle performance plautine ed istrioniche: lo è per trovare un comune denominatore, che oggi magari ha meno virtù catartiche, ma conserva una ragione di anarchia che rimane dipinta in quell'attimo di sorpresa che più di ogni altra cosa, forse, unisce attori e spettatori, perchè non è infrequente leggere sulle loro maschere la stessa espressione che l'attimo inventato suscita nello spettatore.

giovedì 4 ottobre 2012

Nessuno, fu.

(pubblicato su www.teatro.org)


La disposizione evoca un’arena per la tauromachia, Odissea anch’essa, ed il terreno scuro della scena realizzata da Francesco Esposito, che invade l’intera platea del Teatro Bellini, ci si attende venga solcato dai piedi nudi di un combattimento, sia esso fisico, sia esso spirituale, un po’ meno forse ideologico. E la lotta arriva presto, decomposta fra la sua storia procellosa ed il balzo nella contemporaneità.

Una quantità di attori impiegati notevole (Diletta Acquaviva, Claudio Javier Benegas, Pippo Cangiano, Viviana Cangiano, Roberto Capasso, Marco Mario De Notaris, Adriano Falivene, Annarita Ferraro, Stefano Ferraro, Giuseppe Fiscariello, Martina Galletta, Serena Mattace, Gioia Miale, Marco Palvetti, Elena Pasqualoni, Danilo Rovani, Lorenza Sorino, Luca Varone) si divide fra due piani fisicamente distinti, prendendo il via fra i popolani ed i loro stracci, che nei movimenti coreografici di Eugenio Dura invadono e scavano, strisciano ed ondeggiano, pronti ad essere guidati da un nonnulla che sappia far leva sui bisogni primari.

In questo “Odissè - In assenza del padre”, l’uomo dal multiforme ingegno è l’Assente, laddove l’obiettivo si focalizza su un Telemaco cui appunto manca il padre, ovvero il riferimento, come i suoi contemporanei mancano, al di qua della storia, degli stessi riferimenti che dovrebbero insegnare loro a non guardare ed a non ascoltare, prima ancora che a guardare e ad ascoltare. Egli non è ancora uomo, né all’altezza di ciò che gli si richiede, non sa e non può sostituire il genitore, mentre la crapula dei Proci dilaga.

La regia di Gabriele Russo lascia evocare Ulisse e la sua lontana epopea, lontana nello spazio ed anche nei sentimenti, da suggestioni come una barchetta di carta portata con le mani, secchiate di acqua della portata delle onde, oppure Scilla e Cariddi in versione coppia medio-borghese. Il senso dello smarrimento però si allarga alla generazione contemporanea, il testo lo evoca molto più spesso di quanto non facciano credere le esitazioni personali di Telemaco, e su questo punto ci si sarebbe potuti aspettare però una maggiore frequenza di pretesti per i contesti, un segno di nesso che facesse inglobare con più linearità la simbologia dei Proci (politicanti retrivi e corrotti che a chiare lettere rimandano alla passività del popolo la colpa della sua condizione di sottomissione) inserita nell’oggi del controllo mediatico della massa e dell’inanità di apparenti strumenti di democrazia partecipata come un referendum “Creatività controllata, creatività addormentata”.

Mentre del popolo restano le catene ataviche dell’insipienza (“Noi giovani faremo qualcosa. Ma cosa? Qualcosa!”), arriva perciò anche una lettura diversa di Ulisse (“Non più un Re, ma un rivoluzionario”), e magari più simile al legame che Omero (o chi per lui) fece del suo nome, nel libro XIX, al verbo ὀδύσσομαι (essere odiato): Odisseo è colui che odia, e chi odia porta la crasi. La disposizione dei personaggi in questo aiuta, nel contrapporre i due gruppi: popolani contro Proci, controllati contro controllori fra TV e Chiesa in echi di lontani osservatori a partire da Elias Canetti, in un finale che nello scambio di cappelli/simbolo della struttura autopoietica del Potere, e di parole copiate, trasformano inevitabilmente i nuovi ribelli in nuovi oppressori dalla mente abbacinata; ed è utile che questo si sperimenti mettendo in gioco anche un Teatro legato ad una tradizione come la sua.

sabato 8 settembre 2012

Chi è Hans, e chi Heiri?


(pubblicato su www.teatro.org)

Martin Zimmerman il coreografo e Dimitri de Perrot il compositore, entrambi in grado già di avvolgersi su se stessi, svanire nel nulla e creare con le loro molteplici abilità circensi abbondanti fantasie, si circondano di cinque loro simili, creature/creazioni il cui punto di partenza è ciò che non può essere visto in un primo momento, ma che appare quando l'attenzione cala.
La Fondazione Campania dei Festival, fra la prima e la seconda parte dell'edizione 2012 del Teatro Festival, ed in occasione del concomitante World Urban Forum 2012, ha presentato al Teatro Mercadante la performance surreale Hans was Heiri.

Hans was Heiri, ovvero John era Henry: nella drammaturgia di Sabine Geistlich, Z&dP cercano cosa distingue e cosa rende simili gli uomini e le cose, ne deformano l'apparenza e soprattutto giocano con il senso del riferimento comune.
Ma anzitutto, con il loro teatro corporeo, si uniscono ad elementi come il legno, che esalta l'idealità della mano dell'uomo che ne sa modellare le forme, e ne rivelano i segreti, come se stessero perennemente in quel loro laboratorio ricavato in una ex fabbrica di Zurigo, che sul palcoscenico trovano casa nell'ambientazione delle costruzioni di Ingo Groher e Christiane Voth.
E soprattutto, con i movimenti incastonati nel movimento più grande delle quattro stanze che girano roteando, mescolando corpi e situazioni, dimostrano che non intendono, come potrebbe sembrare, sottrarsi alla gravita, no: loro vogliono piuttosto impadronirsene, modellandone le alternanze sulle loro abilità, danzando intorno alle geometrie come se fosse un'unica, decisa presa di distanza dalla realtà. Oppure una sua trasfigurazione.
Il percorso è interamente accompagnato dalla campionatura eseguita dal vivo di musica e suoni, e gli elementi sfruttano anche il contrasto di luci che tenta di conferire l'effetto di nascondere spesso la presenza degli attori nel buio (ma questo è riuscito male, giudizio che rimane sospeso e sospettoso di problemi tecnici contingenti non risolti).
Gli equilibri, la grande coordinazione e lo sfruttamento di forme apparentemente simmetriche, ma in realtà decisamente eccentriche, la giocoleria ed un linguaggio scenico poco qualificabile se non evocando magari uno sfottò concettuale di Marcel Duchamp, restano il maggiore risultato.
Si sente il progetto scorrere partendo da un suono che è come un cane da guardia di un mini-mondo di cinque persone che ruotano intorno a sé stesse e che sovrappongono il loro stesso senso, perché come dicono loro, “ci prendiamo tutti molto sul serio, ma non prendiamo niente sul serio”.
Fra le scene riprodotte con un certo insistito accento narrativo, va ricordata la seduta yoga dalla spiccata memoria alternata fra gli anni 60 e 90, intervallata da un'acrobazia leggerissima come è quella eseguita sulle note di “Calling You” di Jevetta Steele, tirando nel vortice su con se l'altro nell'aria a fluttuare, e quindi il finale, che si immerge di nuovo in piena Age of Acquarius.

lunedì 20 agosto 2012

Eppure... eppure...

Quel periodo lungo o breve in cui nel dormiveglia quasi non ci si rende conto di quale sia la realtà, se quella sognata dalla quale si sta uscendo o quella nuova fatta di un soffitto e di pareti intorno nella quale si sta entrando, e durante il quale tutto si confonde, e sembra che ogni cosa abbia le fattezze di entrambi i lati che per un po’ ancora saranno indifferenziabili: era questo il contorno nel quale i suoi pensieri stavano cercando di ritrovare, o meglio riconoscere l’ambiente che attendeva il suo risveglio, ma quella mattina sembrava proprio che Eleonora non ne volesse sapere, di svegliarsi del tutto.
E così era difficile distinguere se fosse vero, che il mondo in cui pensava di trovarsi ora, dopo 213 anni, fosse così poco diverso da quello che ricordava, eppure i pensieri “nuovi” non ispiravano poi così tanto contrasto rispetto a quelli vecchi, non abbastanza da far sentire il peso della differenza che si aspettava, della civiltà di una libertà fatta di determinazioni oculate ed orientate alla crescita sociale del popolo che non era nelle condizioni di fare le scelte più ragionate (perché di sicuro doveva esserci, ad esempio, un metodo di comunicazione di massa ormai illuminato ed adoperato come strumento di crescita dell’opinione pubblica); così come, ne era certa, si sarebbe sentito perfino l'odore, di quella tanto sospirata libertà di pensiero, si, sapeva che ormai chiunque avrebbe potuto scrivere o dire qualunque cosa, senza che per questa sola ragione potesse essere perseguito per una legge o un editto che fosse emanato in un Regno immerso nel Mediterraneo o in Bulgaria, e di sicuro non c’era più bisogno di riunirsi in segreto per parlare di libertà, perché non doveva essere più possibile immaginarla al di fuori di una carta costituzionale non soltanto scritta, ma anche e soprattutto materiale…
Ne era certa, eppure queste due presenze, queste due immagini che dovevano essere così diverse se non inconciliabili, per quanto sembrasse incredibile non si respingevano. Non capiva perché, ma si amalgamavano, a volte perfino con colori simili. Impossibile pensare che questo lato di qua fosse fatto ancora di tutto ciò che l’aveva vista ergersi per rimanere sempre in piedi, dritta, anche davanti al boia, di là. No, impossibile... eppure, in quel momento in cui non si capisce se le cose si confondano oppure no, ebbene era difficile distinguere. Tanto da suggerire anche pensieri strani. Pochi istanti.
Era difficile, si, e per qualche ragione, d'istinto, le sembrò che ce ne fossero anche ben poche motivazioni. Eleonora si lasciò andare dunque più a quel lato della realtà dal quale proveniva, e si riaddormentò.

Durate, et vosmet rebus servate secundis
Resistete, e mantenetevi per giorni migliori
(Virgilio, Eneide, I, 207)

20 Agosto 1799. Data dell'esecuzione di Eleonora de Fonseca Pimentel in Piazza del Mercato.

sabato 14 luglio 2012

Pigliate 'na Bastiglia

Alcune uscite delle Metropolitane delle città che riempiono di aspettative il visitatore, sono come dei sipari davanti ai quali ci si siede comodamente, aspettando di vedere qualcosa che si è già immaginato, che sta lì ad attenderci, un appuntamento che apre la sua vista centimetro per centimetro, mentre si sale per la scala mobile che porta direttamente di fronte al Monumento, alla Piazza, al motivo che ci ha condotto proprio lì; è uno dei modi più spettacolari per giungervi di fronte, perché è come uno scenario che cala dall'alto e contemporaneamente crea un contrasto moderno/antico assai particolare. Una sensazione di scoperta che ho ricercato spesso.


Una di queste occasioni, però, rimase pura immaginazione, perché non sapevo, tanti anni fa, fresco di studi adolescenziali, che la leggendaria fortezza della Bastille era stata completamente distrutta, smantellata e dispersa pietra dopo pietra, e che della sua memoria era rimasta soltanto la piazza che porta il suo nome. Nulla, nemmeno un rudere commemorativo, in perfetto stile franco-drastico.
Salendo su per la scala mobile, dunque, pensavo con grande sorpresa di aver calcolato male l'uscita, e di essermi perso quindi l'effetto-sipario, ma ben presto divenne chiaro che non c'era nulla da vedere, e quel vuoto non diventò una delusione, ma qualcosa che mi suggeriva altro, un'assenza che andava inquadrata in un significato o che si identificasse addirittura con il significato stesso.
Col tempo mi apparve abbastanza chiaro che quel significato doveva essere il legame fra i molteplici livelli del Simbolo e la sua essenza di Immagine ormai astratta che non aveva più bisogno della realtà.

Le immagini del 14 luglio 1789 impresse nella memoria sono molto suggestive: nella pagina del suo diario, quel giorno il Re scrisse soltanto "Niente". E poco dopo il Duca de Liancourt lo informò dei fatti, ed alla sua domanda "E' una rivolta?", si sentì rispondere "No, è la rivoluzione".
Ma anzitutto, l'atto stesso dell'aver assalito la prigione-fortezza della Bastiglia, la mattina del 14 luglio, fu un evento secondario e collaterale rispetto agli eventi che incalzavano: gli insorti avevano attaccato l'Hôtel des Invalides per procurarsi le armi, ricavandone poco meno di 30.000 fucili e qualche cannone, ma nemmeno una manciata di polvere da sparo o una palla di cannone, e fu perciò soprattutto per impossessarsi delle munizioni che decisero di marciare anche contro la Bastiglia, che di certo era considerata, va detto, un emblema del potere monarchico.


Né la "presa" poteva dirsi realmente un'impresa poi così straordinaria, dal momento che per il costo eccessivo di gestione e di manutenzione, era ormai stata quasi abbandonata, in procinto di essere definitivamente dismessa, e relegata alla funzione assai limitata di prigione che ospitava soltanto 7 detenuti (quattro falsari, due malati mentali e un libertino) (1), e "difesa", diciamo così, da una guarnigione composta da 82 cosiddetti "invalidi", ovvero i veterani che non potevano più combattere, e qualche guardia svizzera.
Insomma, più soltanto simbolo di così, è difficile immaginare; e tuttavia, la memoria tramandata fino ai nostri giorni l'ha messa nell'Olimpo delle azioni da leggenda, tanto da identificarla quasi con una figura retorica che richiama l'intera Rivoluzione francese, e che si identifica con il giorno di oggi, 14 luglio.
In realtà i fatti vennero subito inventati e diffusi per dare un valore all'impresa di qualità
accidentale; circa una o due ore dopo il mezzodì, arrivò una resa nemmeno tanto combattuta da un lato, né onorevole dall'altro, con conseguenti azioni di rappresaglia dei rivoltosi, dal consueto, cruento impeto punitivo. Nemmeno questo rappresenterebbe un ricordo epico, insomma.
A proposito, subito dopo i quattro falsari sparirono, ed i due malati mentali furono rinchiusi nell'ospizio di Charenton dietro esplicita richiesta dei parenti. Se fosse accaduto solo dieci giorni prima, almeno avrebbero liberato il conte Donatien-Alphonse-François de Sade, al secolo Marchese de Sade... sarebbe stato un bel colpo, almeno questo, mentre trovatisi a corto di trofei, presero un torchio da stampa presentandolo come atroce macchina di tortura, e non avendo reperito neanche un prigioniero politico, se ne inventarono uno per l'opinione pubblica, scegliendo fra i sette uno con la barba bianca e chiamandolo Conte di Lorges (peccato solo che il vero Conte fosse morto cento anni prima): una elementare quanto rozzamente efficace operazione di marketing politico.



Se tale è la genesi del simbolo-Bastiglia, è superfluo ma doveroso specificare che nulla toglie al valore, all'importanza ed alla collocazione nella storia dell'evento-Rivoluzione francese, ma serve certo a ricordare come funziona spesso la trasmissione di una leggenda, i cui fatti storici lasciano presto il posto alla ricostruzione che serve al meccanismo della tradizione per potersi tramandare secondo quanto si vuole scrivere sulle macerie da parte di chi quelle macerie ha procurato.
E se da un lato fa bene conoscere qualche dettaglio in più, sebbene a discapito dei colori del quadro sempre raccontato, dall'altro mi pare che aiuti anche l'evento principale a dire di se stesso che nessun simbolo è davvero necessario ad illustrarne un corpus che ha tanta più sostanza quanto più sia aperto lo sguardo che gli si concede. Vive la Revolution.

(1) “quatre faussaires, dont le procès était en cours d'instruction; deux fous, Auguste Tavernier et de White; un noble, criminel, enfermé à la demande de sa famille, le comte de Solages” (Frantz Funck-Brentano, Légendes et archives de la Bastille, Paris, Hachette, 1935).

sabato 12 maggio 2012

Che fai tu, luna, in ciel...?


La "luna gigante" di questi giorni (che per una distanza temporaneamente  inferiore alla media è apparsa più grande del 14% rispetto alla norma) avrà spinto qualche sguardo a fermarsi su alcuni dettagli che in verità normalmente già con uno zoom facilmente reperibile, se non a occhio nudo, sono facilmente visibili.
La fantasia dell'occhio è mediata da quella che il nostro tempo influenza, e così anche se taluni potrebbero ancora scorgere sul disco lunare luoghi fantastici, dimore di divinità oppure tratti disvelatori di essenze umane, oggi potrebbero farlo soltanto conservando la consapevolezza della fantasia.

Guardiamo la sua superficie, percepiamo secondo i suoi tratti ciò che la nostra mente suggerisce, magari troviamo anche le corrispondenze del bosco dove si radunavano gli Elfi delle tenebre e gli Elfi della luce, ma sappiamo, purtroppo sappiamo, che sta lavorando soltanto la nostra fantasia, che quello non è esattamente il luogo dove magari Re Oberon e la moglie Titania, regina delle fate, si recarono per le nozze di Teseo ed Ippolita (in tal caso saremmo stati in ottima compagnia, con William Shakespeare), e che se ne guardiamo sempre la stessa faccia, è semplicemente a causa dell'effetto della rotazione sincrona, in quanto il suo periodo di rotazione è pressoché uguale al suo periodo di rivoluzione (The dark side of the moon, la sua faccia nascosta, fu svelata per la prima volta nel 1959, con le immagini inviate dalla sonda russa Luna 3).

Il punto è che non possiamo più permetterci di credere a quelle spiegazioni sognanti ed imaginifiche con cui ad esempio si ricostruivano fino a nove sfere concentriche (oltre l'Empireo) per spiegare la costituzione del cielo. Non è una deriva nostalgica, personalmente sono molto felice di sapere che il cielo è composto dell'atmosfera di un pianeta e che non è nemmeno azzurro, se non in conseguenza della sovrapposizione di onde elettromagnetiche di lunghezza variabile. Ma serve per pensare che andando molto avanti, non possiamo più immaginare quale sia stato lo sguardo del passato, quanto esso abbia influito sul pensiero e sulla vita individuale e sociale, e per ipotizzare che il nostro è un deficit di contestualizzazione ormai del tutto incolmabile.
Mi fermerò quindi sull'aspetto della comprensione antica delle cose, e della loro percezione. Mi vengono in mente due esempi cui ho pensato spesso in passato, e poiché si tratta proprio della luna e delle stelle, si spiega anche il momento in cui ritornano.

C'è un testo di Plutarco giunto incompleto, che è come un cannocchiale puntato dalla scienza coeva verso la luna: De facie quae in orbe lunae apparet (“Intorno al volto che appare nel cerchio della Luna”), più noto semplicemente come De facie; in esso il fratello dell'autore, Lampria, in un dialogo con l'accademico platonico Epigone e con altri astronomi e filosofi, forniscono quella che è la summa, lo stato delle conoscenze sull'Astro, sia riguardo le apparenze dipinte sul suo volto, sia sulla sua sostanza fisica. Si parte dai versi di Agesianatte, che ci vede un bellissimo volto femminile (“...tutta intorno rifulge di fuoco, ma in mezzo più blu dello smalto si mostra un occhio di donna e morbida fronte, e un viso ti appare dinanzi”), alle teorie dei quattro cerchi concentrici dell'universo degli Stoici (in cui la luna è una miscela “d'aria e di fuoco blando”), al cristallo d'acqua ghiacciata di Empedocle, criticato per la sua idea che la terra percorresse orbita obliqua roteando intorno al proprio asse. Lampria sostiene che non esiste una gravitazione centrata nell'universo, giacché ogni entità tende a conseguire la propria posizione, e che la Luna è fatta della stessa terra del nostro pianeta, oltre che proprietaria di una sua autonoma forza di gravità; e non brilla di luce propria, ma riflette la luce del sole (questo lo diceva anche Parmenide).
Ed aggiungeva, cosa interessantissima: “...se la Luna è fatta di terra si dimostra un oggetto bellissimo, nobile ed elegante, mentre temo che in veste di astro o di luce o corpo divino e celeste, risulti brutta e deforme”. Il volto lunare insomma, era bello in quanto imperfetto come la Terra.
Dall'esito dei dialoghi è questa l'idea che prevale, dunque: è un elemento fatto della stessa nostra terra, con montagne e valli che formano le ombre che vediamo, e non esclude affatto che possa anche essere abitata, nonostante i dubbi per la temperatura e la rarefazione dell'aria sollevati da Teone. E di più, per Plutarco la Luna aveva anche un suo ruolo preciso, nel cosmo: una specie di influenza umida e femminile sulla Terra, da cui derivava ad esempio la crescita delle piante, il gusto del vino e le maree.

Ma la conclusione dell'analisi è più completa della sua presenza fisica: lei ha uno scopo, ha un senso, ed è quello che conosce il padre di Zeus, lo scienziato Cronos, e che rivela egli stesso dal suo confino, relegato dal figlio in un'isola britannica: la Luna è il posto in cui dopo la morte corporale, vanno a stare i Buoni, prima che la seconda morte separerà definitivamente l'intelletto dall'anima. Ed è questa la ragione per la quale essa, unica fra tutti gli Astri, ha una natura divina; meglio, è una divinità, e va venerata in quanto tale, ed in quanto attigua alle distese dell'Ade, ed è “signora di vita e di morte”.
Sono idee filosofiche e fisiche assai profonde per l’epoca, ma soprattutto uno stato dell'arte che dovrebbe dare un'idea di quanto possa essere difficile immaginare un animo ed una mente antica calata nel mondo delle sue conoscenze.

Provate ad immaginare, ad esempio, un navigatore di qualche secolo fa.

Questo, però, sarete in pochissimi a poterlo fare, perché bisogna essersi trovati in assoluta assenza di inquinamento luminoso (la brillanza artificiale del cielo notturno si ottiene sommando le sorgenti entro un raggio di almeno 200 km). Ebbene, la prima volta che mi è capitato, la sensazione istantanea è stata quella di capire... o di pensare, perlomeno, di capire cosa provava, cosa sentiva chi un tempo alzava lo sguardo al cielo di notte, e ricordai immediatamente una cartina celeste del '400 che vidi disegnata chissà dove (mi cruccio di non averla ancora ritrovata), nella quale il cielo era una cupola, appoggiata sulla terra come un coperchio su uno scaldavivande: si capisce perfino il pensiero di chi descrisse le stelle come buchi nel cielo da cui filtra la luce dell'infinito. Sembra perfino facilissimo, il pensiero di navigare senza carte, bussole o altro: è tutto così chiaramente disegnato là sopra... e chissà quante e quali implicazioni, anche una percezione come questa doveva avere nella vita quotidiana, oltretutto. Ma anche per capire una scelta militare o una disposizione politica, bisognerebbe entrare nella mente quotidiana del tempo, mentre il nostro senso della storia ci obbliga ad incasellare e sistematizzare gli eventi leggendoli con gli occhi posteriori di chi comprende la realtà e le dinamiche fisiche e sociali secondo i ragionamenti attuali.

Potrebbe sembrare solo un dettaglio, o addirittura una forzatura, parlare dello sguardo all’insù dei popoli antichi, ma probabilmente è invece una delle migliori esemplificazioni di come sia complicato anche ricostruire magari un pensiero legato ad un'epoca, se da essa siamo così impossibilitati già a riceverne i messaggi, i modelli e le visioni con cui si confrontavano quotidianamente gli osservatori della Luna e delle stelle.

domenica 22 aprile 2012

Cyrano? C'est moi...

(pubblicato su www.teatro.org)

“...godetevi il successo, godete finché dura, che il pubblico è ammaestrato e non vi fa paura...

Io sono solo un povero cadetto di Guascogna, però non la sopporto la gente che non sogna [...]
Non me ne frega niente se anch' io sono sbagliato, spiacere è il mio piacere, io amo essere odiato [...]
...si spegne la mia rabbia e ricordo con dolore
che a me è quasi proibito il sogno di un amore [...]
...ma dentro di me sento che il grande amore esiste,
amo senza peccato, amo, ma sono triste […]


Venite gente vuota, facciamola finita, voi preti che vendete a tutti un' altra vita;
se c'è, come voi dite, un Dio nell'infinito, guardatevi nel cuore, l'avete già tradito,
e voi materialisti, col vostro chiodo fisso, che Dio è morto e l' uomo è solo in questo abisso,
le verità cercate per terra, da maiali, tenetevi le ghiande, lasciatemi le ali;
tornate a casa nani, levatevi davanti, per la mia rabbia enorme mi servono giganti [...]


...dev'esserci, lo sento, in terra o in cielo un posto
dove non soffriremo e tutto sarà giusto.
Non ridere, ti prego, di queste mie parole,
io sono solo un' ombra e tu, Rossana, il sole [...]
...perché oramai lo sento, non ho sofferto invano,
se mi ami come sono, per sempre tuo, per sempre tuo, per sempre tuo... Cirano

sabato 21 aprile 2012

La Nuit.

(pubblicato su www.teatro.org)

Scopatori, giornalai, pizzaiuoli, acquafrescai, cantanti, innamorati, carcerati, traditi, guappi, papponi, sciantose, amanti, prostitute, cafoncelli, soldati, malafemmene e fronnalimonisti: se avessero fatto in tempo ad esistere con Viviani, non sarebbero mancati nemmeno gli scartiloffisti.


È la varia umanità che rotea nelle idee di un medley costruito da Mario Aterrano attorno ad una Lei, la 'gnora che rappresenta il fulcro posto all'angolo di passaggio di un vicolo nel quale ti fermi, ed in breve tempo succede tutto, ma è un tutto fatto di niente, come il niente in cui Viviani affondava le mani, tirandone fuori personaggi che anziché durante la Grande Guerra o la successiva, campavano tutti i giorni, e la loro era la guerra quotidiana, per vincere la quale di norma si doveva arrivare a mangiare almeno una volta.
E fra dileggi, vaneggi, vanaglorie, disturbate, eroismi, campanilismi ed afflati universali, il regista costruisce un percorso che unisce alcuni dei tratti più significativi dello Stabiese, scendendo nell'essenza dei movimenti di chi a quattro anni già calcava le assi dei palcoscenici popolari indossando un frac: Raffaele Viviani è stato tagliato e cucito, prendendo soprattutto spunto dalle sue opere concepite nella maturità (in particolare dai Dieci Comandamenti), ed affondando le mani in una versione che predilige il musical agli altri possibili sbocchi.
Con questo abbrivio, le voci affidabili di Anna Spagnuolo e Patrizia Spinosi, come protagoniste particolari fra gli altri, passano attraverso le note di ben trenta fra canzoni, accompagnamenti musicali e macchiette di VIviani, fra cui non è facile scegliere cosa ricordare, e la lista del tutto personale perciò comprende almeno Bambenella, Montemurro, Madame Legery, Fore 'o vascio e 'a Rumba d'e scugnizze. Con quest'ultima, in particolare, che nasce dalla percussione inventata su una cassetta di legno. Una scelta che fa risaltare quindi l'aspetto musicale, che viene sottolineato dalla chitarra e dagli arrangiamenti di Michele Bonè, accompagnato da Giuseppe Di Colandrea al clarinetto.
Se cadesse nella facile deriva oleografica, potrebbe essere un programma di cui potrebbe farsi volentieri a meno, ed invece la rivelazione è l'atmosfera di convinta partecipazione corale, e dello spirito chansonnieristico di Aterrano in particolare, che rende il tutto un appuntamento serio ed insieme leggero, anche grazie all'idea registica di puntare su quattro quadri (i mestieri, i vicoli, il dopoguerra ed il varietà), fra i quali si muovono con una certa sicurezza i personaggi che si avvicendano come le voci di quel vicolo, fra le piacevoli interpunzioni danzanti di Carolina Aterrano, e con un ricordo particolare nella felice interpretazione di Marco Palmieri con il suo Mimì di Montemurro.

giovedì 29 marzo 2012

Buoni, cattivi maestri

(pubblicato su www.teatro.org)

Ci sono un po' troppi lati, dai quali si può leggere questa storia così ignominiosa dell'Italia repubblicana. Davvero un po' troppi.
Le interpunzioni del sax di Stefano Russo giungono a proposito anche per questo. Spezzano un ritmo incessante di idiozie e di scandali al contrario, ed è uno dei pochi interventi marcati di una regia che giustamente fa qualche passo indietro per lasciare più scena alla sostanza, che è davvero tanta.
Aldo Braibanti sulla scena definisce subito i termini della questione: si tratta del "più eclatante caso di discriminazione che l'Italia ricordi"... ma il fatto vero, è proprio invece che l'Italia non ricorda.

Nell'ottima alternanza di Fabio Bussotti e Mauro Conte, che con la loro presenza esemplare sia nei contrappunti, sia nei due monologhi finali forniscono una prova eccellente, emerge dunque una storia nella quale non c'è un solo spunto, uno qualunque, cui l'Italia degli anni '60 possa aggrapparsi per giustificare una via crucis.
Al di là della storia che si può leggere in una trama che sembra un film neorealista di serie B piuttosto che la realtà dei fatti accaduti, sarebbe bene credo soffermarsi invece su alcune parole che si possono leggere sui verbali del processo: un "plagio maturato in ambienti pseudoartistici", compiuto da “un frustrato perché basso e stortignaccolo […] un buono a nulla, perché artista, e in quanto artista un corruttore d’anime” che bisogna "ricacciare agli inferi".

Se i cattivi maestri avessero piacere a considerarsi eroi, sarebbe stato un bel racconto, ma non ci scommetterei. A proposito, al di là del merito lombrosiano della sofisticata tecnica giuridica applicata con tanta veemenza, stiamo parlando di un reato di nome Plagio, che all’epoca in quanto residuato bellico del Codice Rocco, era appunto considerato pressoché nullo, e così sarebbe rimasto fino alla sua futura e non lontana cancellazione dall’ordinamento giuridico, se una notevole sequela di personaggi politicamente determinati non fossero riusciti a mettere il record, meritando un Guinness, ovvero creare l’unico condannato della storia per questo reato, Aldo Braibanti. Per non dimenticare gli effetti collaterali delle conseguenze sul suo compagno Giovanni Sanfratello, sottoposto sia ad aberrazione mediche fra cui un numero di quaranta elettroshock, sia a condanne ineffabili quali l’obbligo di non leggere libri che avessero meno di cento anni.
Le frasi che Massimiliano Palmese  fa pronunciare ai due pluripersonaggi sono a volte di una spiazzante autorità morale, come nella difesa di Braibanti ("ma quella era la sua volontà... oppure avrei dovuto plagiarlo!" e "…ma l'amore stesso, è un plagio!"), e sono parole che si ascoltano meglio, nell'essenza di due sedie lontane ma che sembrano sempre strettamente affiancate.
Gesti di accompagnamento e nessun oggetto, ma l’aria viene egualmente solcata, ci sono fin troppi pesi a smuoverla, quest’aria irrespirabile come deve essere stata quella della quotidianità della vita di un omosessuale in quel periodo. Al mirmecologo Aldo, difeso poi soltanto dalla severa lucidità di Pasolini e non molti altri, il tardivo rincrescimento della società concesse nel 2006 il vitalizio della legge Bacchelli, che non modifica una sola piega dell’incredibile serie di sovversioni “al contrario” ("credevo che insegnare le proprie idee liberamente non fosse un reato nella nostra Repubblica, ma che fosse un reato impedirlo").

La sovversione di una sovversione forse dovremmo chiamarla eversione, o inversione; ed i due monologhi incrociati finali riescono anche a far sentire questo volo strano, che alle orecchie continua a fornire sensazioni tristi, siglando l’ottimo mix fra ricostruzione della cronaca ed espressione della recitazione.
Ancora oggi, sentire pronunciare le parole della sua condanna, ovvero 9 anni di carcere (la stessa pena comminata per i 2.121 morti del Vajont…) più le spese processuali, più le spese per il suo mantenimento in carcere, fa un certo effetto, in cui trovare attualità e passato congestionati, fa pensare a cosa ci siamo persi nella storia, ma soprattutto, fa schifo.

lunedì 19 marzo 2012

Bukowski, s'il vous plaît

(pubblicato su www.teatro.org)

Maneggiare, masticare, spolpare e tratteggiare Charles Bukowski è molto meno facile di quanto si pensi.
Il rischio della banalità e della convenzione, si, proprio il contrario di quell'idea cui si andrà automaticamente al sentire pronunciare il nome dello Scrittore del sogno americano frantumato, è forte.

Raramente infatti si è andati oltre una sterile convenzione di scandaloso slancio anti-perbenista, e si è lasciato trapelare il bisogno ossessivo di affetto, e perché no, di tranquillità umana che si ergeva con una certa imponenza dietro quel trasparente plexiglass governato da disperazione e miseria, da certezze come sesso ed alcol, da orizzonti perversi e marginali abitati da prostitute, ladri, miserabili e falliti. Il poeta seduto a guardarsi, insomma, anziché quello di cui fare sfoggio di aforismi dopo una ricerca su Google, o con i segnalibri puntati sulle pagine di Storie di ordinaria follia.

Lo fa Alessandro Haber. Lo fa con una voce prestata al reading ed al canto, un canto rauco ed una interpretazione credibile, insieme con arrangiamenti che uniscono la sua voce con il sax di Luca Velotti ed il pianoforte di Marco Di Gennaro.
E lo fa incarnando poesie e scritti dell'arte di Bukowski in un ibrido contaminato (ma forse al termine di una ricerca fin troppo armoniosa) in cui parole, suoni e presenza dell'attore seguono una linea che viene disegnata con una tinta personale inevitabile, nella quale Haberbukowski non manca mai di trasmettere il suo piacere nelll'identificazione con l'orgogliosa marginalità. Come se si facesse un regalo.

A proposito, finalmente uno che fuma, che se ne accorge e che dall'alto del suo ruolo e della memoria di tempi non tanto lontani in cui nei locali il fumo avvolgeva la pinta di birra, dice al pubblico “ehi, beh, se qualcuno vuole fumare, sale qui, fa un personaggio che fuma, e...”. Detto da un non-fumatore quasi perfetto.
Nel programma non appare soltanto Bukowski, ma di certo è lui che la fa da padrone, sul cartellone, sul tempo quasi totale riservatogli, sulle scelte espressive e sulla presa che ha sulla platea, partendo da Una tapparella abbassata e passando per Ragazze pulite e tranquille in abito di percalle, Donna che dorme, Confessione, Una poesia è una città e molte altre.
Saltiamo ad un iperclassico come Ode alla vita di Pablo Neruda, facciamo due passi con Luigi Tenco (Vedrai vedrai e Mi sono innamorato di te), e lasciamo l'ultima firma al bis di Paolo Conte. Insieme a te non ci sto più.

Ti sei compiaciuto, Haber, si sentiva; ma questa scelta di essere così presente e dentro l'operazione si può accettare con compiacimento equivalente, e con un viscerale amore per il disordine del mondo e per questo ricordo di un viaggio ostinatamente perseguito, alla ricerca di una felicità. Una qualunque.










domenica 11 marzo 2012

Quelli del '99, quelli della BNF, quelli che se ne stanno a casa


Nell'ultimo passaggio per Parigi, speravo come sempre di rimanere sorpreso da una diminuzione del consueto disappointment sparso doviziosamente in atteggiamenti e mentalità, e così puntando su un cavallo vincente come la cultura, sono andato alla BNF, la Bibliothèque nationale de France, una megastruttura nel XIII arrondissement voluta da Mitterrand, una delle sue cosiddette grandi opere, non a torto considerate spesso soprattutto grandi megalomanie.
Tuttavia, nel mio desiderio di rinvenire testi francesi che parlassero della rivoluzione napoletana del 1799, per acquisire altri punti di vista e trovare nuovi spunti di riflessione su quello che ancora oggi ritengo uno degli accadimenti, nella storia moderna, che hanno il peggiore rapporto fra importanza reale, considerazione fra gli studiosi e conoscenza contemporanea, pensavo che fosse una tappa obbligata, recarsi da colei che per farsi notare vanta 7,5 ettari di costruzioni, 4 torri di 79 metri, un giardino (non accessibile al pubblico) di 12 000 m² davanti al deambulatorio del Rez-de-jardin, 2.900.000 m² di pavimenti, 385 km di scaffali, innumerevoli linee squadrate di sentore razionalista fra pareti ricoperte in maglie di tessuto metallico INOX, e soprattutto collezioni fisiche stimate in 30 milioni di oggetti, di cui 575.000 visibili nella sede principale.

Non vorrei soffermarmi sulle osservazioni che del resto già abbondantemente sono sorte altrove sulla mastodontica quanto fredda e non sempre comoda struttura, mi limiterò a ricordare l'esperienza di un giornalista che era alla ricerca di testi, entusiasta di essere circondato da un numero così impressionante di libri (nella sua testa, ovviamente, dato che di libri, fra corridoi, strade, ascensori e clima da star trek radical chic, per un bel po' di tempo non se ne vedono nemmeno sui poster, salvo il negozio di souvenir all'entrata, con bookshop annesso).
Noi ci lamentiamo della nostra burocrazia e facciamo bene, ma spesso all'estero ci sono occasioni per “consolarsi”, ed ecco una di queste: cercare un libro alla BNF. Dopo qualche tempo passato a guardarsi intorno per capirne il funzionamento, mi si dice che bisogna chiedere di consultare un testo preciso ad uno sportello di accoglienza. Peccato che io non cercavo alcun testo preciso, ma immaginavo di seguire fra gli scaffali di qualche sezione specifica i libri presenti, per trovarne alcuni interessanti, più o meno come si faceva una volta, quando si andava in biblioteca e si perdeva un po' di tempo in questa bellissima attività. Mi sbagliavo. Bisogna chiedere subito un testo preciso.

Arrivato il mio turno, ho spiegato alla gentile assistente l'argomento, non senza difficoltà perché naturellment non capiva una parola né di italiano, né di inglese, ma parlava soltanto francese (vi risparmio il mio pensiero su un luogo che pretende di essere il meglio al mondo nel suo campo, ma il cui impatto con lo straniero è del solito modello francese, ovvero “o capisci la nostra lingua, oppure peggio per te, anzi ti consideriamo pure un poveretto, ma ti concediamo egualmente di stare qui, soprattutto per farti sentire a disagio per come guardiamo chi non parla francese”), e così fra il mio pessimo francese ed il suo inesistente inglese, sono riuscito a farle capire quale fosse l'ambito della ricerca che mi premeva di svolgere. Dovendo però necessariamente individuare un testo di cui chiedere la visione, pena il mancato ingresso nelle fauci del Leviatano, scelgo l'unico, fra i pochi trovati (…), che mi sembrava interessante, ovvero “Bonnamy, Général: Coup d'oeil rapide sur les opérations de la campagne de Naples, jusqu'à l'entrée des français dans cette ville - 1800”: quello che cercavo era esattamente un coup d'oeil, il punto di vista di un militare francese, et voilà, sembrava che si stesse mettendo bene...

Dopo circa 30 minuti di tentativi dunque, ci capiamo, mi stampa il titolo del testo di cui chiedere la visione e mi manda di nuovo all'accettazione, dove si sceglie il tipo di ingresso o abbonamento da comprare. Non ricordo il costo, ma trattandosi, come avevo ormai capito, di un testo solo, per principio non mi è sembrato poco.
Quasi dimenticavo: questo iter è stato possibile soltanto previa esibizione del tesserino dell'Ordine dei giornalisti, perché senza manifestare un concreto interesse diretto, e bontà loro essere un giornalista napoletano che voleva documentarsi su fatti napoletani legati alla rivoluzione francese lo era, a quanto ho capito non mi avrebbero nemmeno fatto cominciare a spiegare cosa volessi: questo lo ricordo come uno degli aspetti più sconcertanti, ma non ho indagato oltre; resta il fatto che senza questa “giustificazione”, non avrei potuto neanche iniziare il percorso.
Faccio la card rossa valida per 3 giorni, espleto altre formalità fra cassa, accoglienza e guardiani, e finalmente mi si indica la strada del Sapere: un tornello elettronico, una porta, un ascensore. E poi un corridoio, ed una scala mobile infinita, non saprei valutare l'altezza ma di sicuro era quella che il suo progettista, l'architetto Dominique Perrault, aveva installato per simboleggiare il viaggio verso la conoscenza (beh, si, avevo studiato un po'...).

Il viaggio verso la conoscenza dunque scende verso l'infinito fino ad arrivare in un atrio dal silenzio che sembra schiacciare colui che discendeva, poi altri tornelli, un guardiano davanti ad altre pesanti porte in metallo ed un desk di accoglienza dove tre impiegate stavano in beata solitudine davanti ai loro computer, inattive. Ho preso una strada laterale perché ho creduto che non fosse quello l'ingresso, sembrava più un secondo livello di accessi per il quale ci fosse bisogno di altre procedure, ma alla fine di due lunghi corridoi scopro che non c'era null'altro. Torno indietro ed inserisco la mia card nel tornello: niente. Nessuno mi dice nulla. Riprovo. Niente. Chiedo al guardiano, che naturalmente mi manda al desk senza spiegazioni, e qui di nuovo la scena dell'accoglienza francese esclusivamente in francese: mostro le mie credenziali, chiedo se magari interessava loro studiare anche il mio C.V., e comincio a seccarmi perché dopo tutto l'iter completato nei piani alti, non capivo in cos'altro poteva consistere il secondo step. La gentile impiegata, dopo aver consultato il suo terminale, mi dice che “oh, certo, ecco il problema: non ha prenotato la visione!

“Prenotare la visione” significa trovare una finestra di tot minuti in cui risulta esserci una postazione informatica libera, nonché esservi formalmente assegnati mediante riconoscimento della card, senza essere sicuri della quale non si può entrare.
Mi trovano uno spazio e mi concedono 40 minuti di tempo. Non capisco bene per cosa, ma ormai volevo solo entrare, e la card così magicamente ha aperto le porte. Poi altre porte. Poi il corridoio del jardin esterno, quello inaccessibile, e lungo l'intero percorso la grande sala suddivisa per sezioni. Arrivo alla mia, mi rivolgo alla nuova assistente, e trovandola particolarmente disponibile approfitto per chiederle qualcosa in più, dopo essermi infine assiso sulla postazione assegnata, e dopo aver aperto la mia finestra temporale e visualizzato il testo che avevo individuato nell'iperurano, al piano di spora, che mi è apparso in tutta la sua bellezza elettronica, sullo schermo davanti, in formato PDF.
Molte grazie, per carità, ma se volessi toccarlo, che so, o addirittura sfogliarlo, anche magari sotto minaccia armata alle spalle? No, mi spiega che faceva parte di una collezione inaccessibile (come quasi tutte, sospetto), e che quello era l'unico modo di leggerlo. Volendo, però, potevo stamparne qualche pagina da lì, e perfino scaricarlo e copiarlo su una mia pen drive, ma questo mi sarebbe costato un extra. Ok, ok, va bene così, ma allora, mi scusi se mi permetto... se è in formato digitale e sta in una rete, non avrei potuto consultarlo anche da casa...?
Si, certo, può farlo anche da casa.
Ah. E se qui devo pagare un tot per scaricarlo, da casa cosa devo fare, iscrivermi alla BNF on line, pagare un abbonamento, o cosa?
No, no. Da casa, è gratis.

Lascio una riga in bianco, nel caso in cui qualcuno sentisse il bisogno di commenti estemporanei.
Da casa è gratis. Già. Il fatto è che la cosa migliore che tutta la scienza della Bibliothèque nationale de France, dei suoi architetti e dei suoi amministratori, hanno fatto finora, oltre ad alcune sale spaziose fornite di ben comode sedie e postazioni informatiche, a modesto avviso del vostro cronista è il progetto di digitalizzazione di libri, manoscritti e fotografie che permette di consultare, ad oggi, 90.000 volumi ed 80.000 immagini. A chiunque. Trovate tutto a questo indirizzo, si tratta di Gallica.
Meglio ancora, Gallica è una delle reti che sta confluendo nel più ambizioso progetto di Europeana, che già oggi rende accessibili da casa oltre 30.000 biblioteche europee ed oltre 20 milioni di oggetti: lo trovate a questo indirizzo.
Toh, questo si che ha vere ambizioni universali: pensate, è scritto in 29 lingue... e soprattutto, non fornisce solo i formati immagine, ma anche il testo ottenuto tramite OCR. Allelujah.

Dunque, dopo la simpatica informazione della serie “ma allora che so' venuto a fare qua?”, chiudo tutto, e cerco di resettare l'intera questione: non era questo, ciò che volevo... speravo di camminare fra i libri, restare a occhi spalancati davanti alle centinaia di migliaia di testi, essere sovrastato da scaffalature kilometriche... e allora facciamolo, anche a caso magari. Purtroppo però, ma sicuramente è questione di funzionalità oltre che di gusto, gli scaffali sono tutti ad un'altezza d'uomo, e pertanto data la vastità dello spazio a disposizione, danno la sensazione di essere dispersi, razionali ma disequilibrati.
Col numero di riferimento di un libro di Cuoco trovato sull'indice digitale, arrivo dunque al settore “Storia della Campania” e cerco qualche titolo che potrebbe essere interessante.
Non che ci si poteva aspettare altro, ma l'esito è stato davvero sconfortante, di testi ce ne sono soltanto 3:

Mario Battaglini – La Repubblica napoletana (testo in italiano)
Benedetto Croce – La Rivoluzione napoletana del 1799 (testo in italiano)
Vincenzo Cuoco – Histoire de la Révolution de Naples (testo in francese)

Stop. Tre testi che si conoscono a memoria, tutti e tre italiani, zero francesi. Come mi aspettavo, già. 213 anni dopo, il tema non cambia, e fra le rivoluzioni europee successive a quella francese, mi sembra che giaccia ancora sottovalutata, se non ignorata, quella che ha avuto le caratteristiche di originalità e di visione del futuro più forti fra tutte.
Torno a casa.

p.s.
Il testo che ho trovato, e che avrei trovato anche da casa, è quello che troverete seguendo questo link, lo sto leggendo, ma mi pare dica davvero pochissime cose interessanti. Il mio consiglio è di aprirlo da casa: oltre a risparmiare il viaggio e tutto il resto, al contrario che dalle postazioni della BNF, pensate che dalla vostra poltrona non si paga nemmeno il download.

sabato 10 marzo 2012

Movimenti, spazio ed immaginario


(pubblicato su www.teatro.org)


Anni di performance all'aperto, piazze del mondo da Miami a Mumbai, da Frankfurt a Dubai, e spazi dentro i quali lo sguardo si può perdere, per trovare forse anche la migliore delle dimensioni in una natura onirica che invita esplicitamente a “scollegarsi dalla realtà”: all'aperto, la realtà non ha molto bisogno di essere dimenticata, c'è il cielo, ci sono le stelle e le nuvole, c'è lo spazio, a modificare la percezione terrestre e ad integrare lo sguardo dello spettatore con gli elementi della natura.
Ma per disegnare intorno a tutto questo 5 pareti, nel cubo aperto da un lato che è un palcoscenico teatrale, ci vogliono idee ed energie speciali: i Sonics portano dunque il loro spettacolo Meraviglia a teatro, e le immagini che riescono a creare e ad evocare affrontano questa sfida con una esperienza ed un entusiasmo non comuni.
La triplice ottica sotto la quale si incontrano i movimenti degli eccellenti acrobati (con termine che esprime meglio di tutti l'abilità di Francesca Torta, Irene Chiarle, Liuzzo Federica, Lucio Rizzi, Claudio Bertolino, Giorgio Richetta, Alessandro Pietrolini e Micol Veglia) è quella dell'acrobazia, della scenografia e della coreografia/narrazione: sulla prima, va subito detto che ci sono scene di pura estasi del corpo, nelle quali si fatica a pensare che noi qui seduti a guardare apparteniamo, nella scala dell'evoluzione, allo stesso genere loro. Sia singolarmente che nelle frequenti combinazioni a due (in cui sembra di vedere a volte un corpo solo), i Sonics non trasmettono mai alcuna sensazione di fragilità o indecisione, assumono pose straordinarie anche in fermi prolungati e conservano una sensibilità per la presentazione estetica del movimento che non si ferma al lato acrobatico; senza dubbio è il lato più affascinante e davvero degno di una pozione magica da bere ed alla quale affidare ogni pensiero misterioso suggerito dallo spettacolo, il cui scopo è legare lo spettatore alla natura, ed insieme fargliene dimenticare la sostanza terrena.
La scenografia impegna macchine complesse, come la sfera di acciaio di 4 metri di diametro che alterna discese e risalite, nelle quali si intrecciano corpi e tessuti che formano un discorso concettuale che va sottolineato, e che lo unifica in un tutt'uno insieme con quello del corpo in movimento, perché il pensiero si sofferma sul recupero, in senso nobilitatore, del concetto di tecnica come ci era stato insegnato dal greco τέχνη, dove l'arte era quella del “saper fare".
Il terzo aspetto riguarda la narrazione: probabilmente lo spettatore tradizionale del teatro parte da un'aspettativa più accentuata, rispetto alla linea discorsiva, aspettandosi di essere guidato dalla riconoscibilità degli eventi piuttosto che dalla sollecitazione dei sensi, mentre in questo caso si esplica quasi esclusivamente (tranne alcuni brevi interventi di una voce narrante fuori campo) attraverso la coreografia, che evoca la storia di uomini “qualunque” che seguendo la scia della Terra, si lasciano attrarre da una forza misteriosa, e trasportare in un viaggio costellato di meraviglie.
Ci si trasforma in animali ed in impulsi ancestrali, si arriva a suggerire la deificazione e ad unire mente, corpo e natura in un logos che in alcuni momenti magari risulta anche un po' troppo ieratico, ma con una suggestione di fondo che porta ad unire gli elementi singoli ed a tenere fermo il timone su un possesso della scena che il pubblico dimostra di trasformare in un riuscito momento di comunicazione col suo immaginario.