sabato 28 gennaio 2012

Et voila, Mr. Clown

(pubblicato su www.teatro.org)

Le pelli caprine dei Satiri romani, le ghirlande floreali dei Sileni danzanti che precedevano le grandiose azzuffate dei gladiatori nelle Arene, la Commedia dell'Arte e la parade da fiera del '500, i Giullari ed in una certa misura i Menestrelli delle corti rinascimentali: la storia dei clown è una lunga e fortunata sintesi di valori e contraddizioni dagli infiniti passaggi di trasformazioni personali, familiari e di genere; ed il modo in cui si presenta David Larible, veronese di origini francesi, fa ricordare forse una delle figura più importanti della storia del clown moderno, quel Paul che nella storica formazione dei Fratellini era il personaggio più innovativo e dirompente, inserendosi fra il clown bianco ed il Toni, e lavorando praticamente senza maschera.

Larible non è soltanto un attore, ma regista di se stesso ed autore, calca le piste da sette generazioni come trapezista, pattinatore, giocoliere, ballerino, acrobata a cavallo ed altro, finché ha scelto la sua specializzazione di clown ottenendo successi continui, fino al Clown d'oro del Festival di Montecarlo, l'Oscar dei circensi, e le richieste pregiate di Woody Allen e Jerry Lewis.

Tutto questo lo si fa, nel suo mestiere, soltanto quando si va oltre il mestiere, se ci si diverte, se si è capaci ogni sera di morire con quello spettacolo, e di rinascere il giorno dopo, spesso per reinventarlo, perché una delle doti più elevate di Larible è quella dell'interazione con il pubblico: per ottenere il massimo effetto possibile, bisogna calarsi nella realtà circostante, percorrere la sala con sguardo veloce, “sentire” il pubblico che si ha ogni volta di fronte e rispondere alle sue esigenze per scegliere fra le possibili strade da percorrere. In questo, lo show da il meglio di sé, e dopo un avvio concettuale in cui esprime il mondo onirico e sognatore dal quale necessariamente deve fuoriuscire il Clown, dopo la trasformazione da uomo delle pulizie che osserva con rispetto e circospezione  ma soprattutto con la consueta irriverenza Gensi, il clown bianco, il simbolo dell'autorità del successo raggiunto, mette tutto a soqquadro, taglia la scena, e lo spazio di un intero palcoscenico diventa perfino troppo piccolo per due protagonisti, perché uno di loro sta per impadronirsi di tutto.

Ed è una conquista che avviene con trovate che proprio per il loro apparire semplici, come un getto d'acqua dalla bocca oppure una palla che non c'è da tirare lontano e riprendere, ebbene danno l'esatta dimensione del lavoro, della genialità e della sapienza antica che contengono, perché come per tutte le Arti, la differenza fra la bravura e la genialità sta soprattutto nel saperle far arrivare al pubblico, e nel farle apparire semplici, laddove invece sottendono una padronanza assoluta della tecnica.
E così, man mano che procede questa conquista dello spazio intorno, ed il pubblico viene chiamato a partecipare, prima un bambino, poi un altro, poi una coppia, poi 5-6 persone alla volta, fino a sketch più complessi dove la scelta istintiva e studiata di chi chiamare con sé conta ancora di più, l'intero pubblico diventa parte integrante di questa concezione globale, come corde di uno strumento nuovo appositamente inventato per l'occasione.

Quando decide poi di avviarsi verso la conclusione dello spettacolo, Larible torna a narrare col suo silenzioso movimento, sempre perfettamente comprensibile, di un posto dove forse i sogni svaniscono per tornare ad occuparsi del proprio quotidiano, ma stavolta il sogno si realizza, e l'energia accumulata viene reinserita in un finale in cui può esplodere l'artista, insieme col suo lieto fine.

Viene da pensare, per contrasto, alle icone più classiche del pensiero sui clown, quelle del dopo, lontano dalle piste circensi e senza più maschera, quelle stesse che anche l'appassionato Picasso dipingeva come malinconiche in quanto solitarie, senza il loro pubblico. Come quando si chiude una scatola di giochi.
Piace pensare che ci sia ancora una sensazione come questa, sia per la sua parte esaltante che per quella nostalgica. Forse una sintesi non rende giustizia alle due componenti: e se la seconda non la conosciamo, e lasciamo che appartenga più all'immaginario, la prima, quella cui si assiste dalla platea, trova sempre il suo principale punto di riferimento, tanto semplice quanto ineccepibile, nella risata di un bambino.



Menti e sentimenti

(pubblicato su www.teatro.org)


Me ne starò sdraiata qui, e annegherò”.

La protagonista di uno degli one-women plays di Arnold Wesker affronta soprattutto con questa caducità, quella sequenza di elaborazione del lutto che segue necessariamente un taglio cairologico nella vita di una donna che dopo 25 anni e 3 figli, viene abbandonata dal marito. Oltretutto con una lettera. Oltretutto per una “rubamariti” giovane, bella, ricca e sana.
Va detto subito che il testo è stato (per fortuna) rielaborato ed attentamente interpretato dal lavoro di Niko Mucci e della stessa Nunzia Schiano, la quale essendo ben al di sopra delle possibilità espressive offerte dall'originale scrittura medio-borghese, ha arricchito di umanità e verosimiglianza, anziché farsene ingabbiare, un lavoro privo degli accenti di crudità realistici che un simile dramma interiore poteva forse difficilmente far scaturire, del resto, da idee maschili.


Il coinvolgimento del realismo dei ritratti della solitudine di Edward Hopper, in cui tutte le donne guardano di lato, la lettura di Alda Merini, le suggestioni dei disegni dal vivo di Sissi Farina ispirati al solo ascolto, i costumi di Alessandra Gaudioso che la vestono, come dire, nella stessa scia di se stessa, senza cercare di trasformarla nella rivale-rubamariti come sarebbe stato plausibile supporre almeno per una delle fasi del lutto, oppure quell'anelito mai accontentato ad uscire, uscire, dietro suggerimento degli amici, perché non esce mai, se non solo alla fine, ma solo per suggestione... sono alcuni degli elementi di particolare valore di un lavoro intenso, che non si fermano alle tappe suggerite una narrazione originale che invece punta con decisione soprattutto alle fasi della distruzione pietosa dell'immagine di Lui (“Perché? Perchè? Perchè?” - “Tu non lo sai che cosa hai fatto, perché se l'avessi saputo non l'avresti fatto” - “Su di te ho fatto un investimento, ora dovevo incassare i frutti, e tu me li hai rubati” - “Tutto ormai è avvelenato”).


Sulla scena non c'è mai "solo” un'attrice; grazie al sapiente dosaggio di bravura ed esperienza della Schiano, si avverte la presenza ed il peso di una vita messa in discussione da un atto che sebbene esterno, agisce la materia delicata di una mente sconvolta, o meglio destabilizzata, che come interlocutori ha oggetti e ricordi, praticamente mai altre persone se non occasionali telefonate che sono solo spunti per l'esplorazione dell'io che cerca di oggettivizzarsi, ma che non riesce a scampare da se stesso, come una cambiale che non passa mai all'incasso, e come tutti gli oggetti su cui nel finale si avventa il pensiero ormai stanco ma ancora vigile nel saper farsi del male, quando si pone di fronte agli oggetti dell'affetto messi in vendita all'asta. Fotografie e cose quotidiane che diventano personalissimi memorabilia, e che anzi acquistano ai suoi occhi l'unico valore proprio nel loro vissuto e nel loro contenuto di emozioni condivise, non quantificabile con gli strumenti commerciali di un'asta.


venerdì 27 gennaio 2012

Figli di nessun Dio


(pubblicato su www.teatro.org)

Paolo Mazzarelli e Lino Musella. Per una volta, si vadano a pronunciare anzitutto due nomi, a riconoscere lo stretto legame attore/autore che hanno creato con Figli di un brutto Dio.
Lo scostamento fra i personaggi invece, è forte, ed il loro ottimo modo di alternarli ci fa avanzare fra umanità triste e vera, ed altra umanità ancora più triste ed ancora più vera, sebbene all'apparenza ricca e moderna, quando la scena si trasferisce dietro le quinte di un tubo catodico che ingloba coscienze e vicende, stritolando tutto ed anzi togliendo senso a tutto, dalla banalità del quotidiano alla sacralità della vita e della morte.

L'apertura, con i due falliti della vita -giusti echi autoriconosciuti di Uomini e Topi di John Steinbeck- tocca varie corde, che anziché nel patetico riescono a sorprendere ed anzi anche a commuovere, fra dettagli come una copia nella valigia dei due clochard di Umanità Nova, il periodico di anarchismo sociale e percorsi autogestionari soffocato nel Ventennio, e soprattutto lo sguardo che non c'è, quello di Paolo Mazzarelli, il fallito certificato non solo dalla società, ma anche dalla sua stessa mente. L'altro, intanto, aggiusta telefoni o calcolatrici, inventa arti di sopravvivenza fra idraulica ed elettronica, commenta l'inanità di tutto ciò che passa invano, dalle guerre in poi, e tiene da conto la loro comune valigia di compagni di viaggio: da una parte le cose da mangiare, dall'altra le cose da vestire, da un'altra ancora le cose da aggiustare. E' soprattutto qui, che Mazzarelli e Musella, oltre a dare prova di eccellente sintonia, fanno qualcosa che oggi non è molto frequente trovare sui banchi del mercato delle sensazioni: emozionano.
Loro sono le frattaglie della vita; anzi della civiltà, anzi meglio, di un certo tipo, di civiltà, quella del consumo e dell'immagine, sottolineati dai video proiettati sulla musica dei This Will Destroy You e con suoni di didgeridoo che sembrano veri e propri rimproveri ancestrali.

Subito dopo, gli occhi sembrano ingannarsi, per essere trasportati da un teatro alle scanalature mercificatorie dell'ormai ex tubo catodico, a spiare (reality nel reality...) il colloquio fra il povero abitante del 21° secolo del Regno di Sua Emittenza ed il presentatore di successo che deve selezionare gli aspiranti cerebrolesi certificati del suo reality, in cui imperano regole studiate per l'effetto über alles (“Non si possono avere rapporti sessuali completi... vabbè, insomma, ci siamo capiti, no? Basta che alla fine, ti fermi un attimo prima...”).
Quella che già di per sé è una bella tragedia mentale singola e collettiva, però, lo diventa anche umanamente, per l'intrecciarsi di una storia che vede il fratello dell'aspirante concorrente in fin di vita, e perfino uno scambio di persone fra gemelli, fino alla sciagura del fratricidio di chi ha visto nei suoi ultimi 3 mesi di vita il coronamento del sogno supremo della partecipazione ad uno show, motivo sufficiente per togliere appunto la vita a suo fratello.

Il vicedirettore reality e soft-news fa il bilancio di produzione, destreggiandosi fra ricavi consolidati netti, risultato operativo al netto di ammortamenti e ridimensionamento del TFR, fino ad un blaterare osmotico con impronunciabili parole inglesizzanti, fino ad ammutolirsi: è il vero e proprio Rosario con cui il marketing prende possesso delle anime con ogni mezzo, anche insegnando ad un fratricida di fresco lutto come passare da “lutto, nero, ombra” magica e subitanea Luce, tutto per bucare lo schermo, come si dice oggi, con quel richiamo al buco che sembra tanto significativo.

Oggi saranno meno di cento, gli ultimi Magi, mentre la maggioranza divenuta utente sembra soffrire di telepensiero eterodiretto, come se il massimo numero dei canali fosse anche una cifra corrispondente al senso della vita: il raffinato ritorno ai due clochard nel finale serve allora per rinchiudere dentro le loro stesse follie le tracimazioni del fallimento della società, ed a contestualizzare concetti come la perdita delle speranze, l'essere figli illegittimi della realtà, che al di fuori della barbarie illusoria simbolizzata oggi dalla televisione, riacquistano così, nella loro realtà materiale di ingiustizia, nella mancanza di lavoro, nella povera considerazione del dover campare, e nei gesti e negli sguardi dei due esemplari protagonisti, la medaglia della Poesia.

Signor benzinaio, Signor camionista...

Signor benzinaio,
Signor camionista,

premesso che ho la fortuna di andare finalmente a piedi al lavoro, e di non essere pertanto più sottoposto alla schiavitù del trasporto obbligato mediante mezzo di locomozione privato che necessita del tuo lavoro, e che pertanto parlo con animo del tutto scevro da qualsivoglia spirito di disagio provocato in questi giorni dalle note vicende scaturite dalle forme che sta assumendo la tua protesta, oltre che da una visione che generalmente tende a prescindere dalle particolarità e dalle contingenze transeunti del momento (cosa che invece purtroppo noto che è sovente l'unica miope occhiata fugace lanciata dalla maggior parte dei commentatori), ebbene qualcosa la lascerei comunque detta. Due cose.
Anzitutto, credo che nessuno dovrebbe avere il potere di bloccare il Paese o pezzi di esso. Nemmeno che so, i controllori di volo, per intenderci, e che pertanto il solo principio che una cosiddetta categoria abbia tale facoltà nel momento in cui ritenga di dover dare mostra di una prova di forza del genere, sia la prima vera questione su cui riflettere. Una cosa è creare disagi, altra è cercare tale forzatura, per evitare la quale a volte intervengono apposite norme di salvaguardia, più o meno rispettate, a garanzia di servizi indispensabili e quant'altro. Eppure resta evidente che ci sono alcuni mezzi di produzione di beni e di servizi che hanno un peso specifico maggiore di altri, se sono in grado anche solo di far temere "tempi bui" e provocare ansia da accaparramento, scene indegne di un livello di civiltà come quello che crediamo di aver raggiunto.
E qui passiamo alla seconda considerazione: se è vero che nessuno dovrebbe avere questo potere, aggiungerei che dal punto di vista ideologico tanto meno voi, non dovreste assolutamente averlo, perchè il simbolo stesso sul quale si formano le vostre rivendicazioni, il bene della benzina, è una delle peggiori cause di disagio interno ed esterno di una economia che da quarant'anni sta dando segni di cedimento, essendo stata però foraggiata ormai con tale convinzione e forza e disequilibrio, da rendere veramente difficilissimo, sofisticato, probabilmente non più indolore, il pensiero del suo cambiamento ed i passaggi necessari ad attuarlo. Che avverrà, senza dubbio, e del quale bisognerà solo contare, allora sì, i morti ed i feriti.

Non è colpa vostra (oddio, essendo parte di un corpo non è facile quantificare le percentuali, ma non credo che sia un problema interessante, qui, la ricerca delle colpe) se ne avete partecipato, il banchetto predisposto da altri è quello al quale chi si trova si siede, e di conseguenza si trova a lottare per mangiarne a sufficienza.
E tuttavia, con il distacco di chi non ne partecipa in maniera diretta, ma di certo indiretta, vedere tanto disagio legato alle pessime scelte del trasporto su gomma e dell'omaggio infinito al Dio del petrolio, ebbene fa una tristezza la cui grandezza è pari soltanto alla consapevolezza che tutto questo subirà necessariamente una svolta, che sia un altro Interesse superiore, o la stessa Terra a decidere.

lunedì 16 gennaio 2012

Rose con molte spine

(pubblicato su www.teatro.org)


Tratto dai “Processi Verbali” di Federico De Roberto, scritto di fresca scapigliatura ma più ancora di sangue naturalista e verista, Il Rosario appartiene al suo poco ricordato autore forse più di altri suoi lavori, sia per l'adesione stilistica a quella narrazione impersonale che divenne poi un principio, sia perchè probabilmente in Sua Eccellenza la Madre Donna Antonia Sommatino furono disegnate le ombre della sua, di Madre, la gelosa e dominatrice Donna Marianna.
Mario Santella ha sposato questa narrazione, insieme con un'adesione rigorosa, essenziale ma non priva di idee, delle scene di Flaviano Barbarisi ed Anna Seno e dei costumi di Marina Mango, e crea un leggero impatto contrastante ma convincente con lo stile prevalentemente ipotattico, articolato e subordinato del testo, perfino partendo dal silenzio della cecità: le tre figlie “superstiti” entrano ed escono bendate, senza capire, senza poter capire, per indossare poi per tutta la scena l'abito della madonna, a causa del voto fatto per riportare la pace in casa.

Le ansie e le sofferenze di vite spietatamente costrette in una sorta di "volontaria" autosegregazione, sono gli stupefacenti capostipiti di Bernarda Alba, che come ricorda giustamente Santella, è uscita dalla penna di Federico García Lorca solo trent'anni più tardi.
Per metà della rappresentazione, tutto sembra girare intorno ad una Donna Antonia che così assurge quasi a convitato di pietra, contribuendo all'accrescimento di un'attesa da colmare infine solo con una adeguata 
entrée: ed arriva, Sua Eccellenza La Madre, con il volto ideale ed assoluto di Rita Montes a costruire una figura ieratica che riesce a trasformare quasi in una visione, un riferimento ancestrale che detiene con un solo guinzaglio e su un dito solo, potere di vita e di morte sui/sulle sue suddite.
Si sprecherebbero i lettini Junghiani, nel leggere nei rivoli di questo archetipico filo che non appare nemmeno più invisibile, essendo un filo di guinzaglio fatto di una strenua, invincibile, fortissima fattura, puro acciaio dal quale nessuna suddita può liberarsi, perché radica in animi di donne che non conoscono vie di uscita.
Tranne una. La figlia prima prediletta ed ora maledetta, la ribelle che infatti non può fare altro che scontare la sua condanna non solo con un termine procrastinato, ma pagandone anche interessi letali, talmente alti da far pensare che forse sarebbe stato perfino meglio pagarli subito, come le altre, anziché trasmettere ora anche a tre figli una sorte insopportabile.
Ma le figlie annaspano, non sanno cosa fare ma nulla possono fare, dovrebbero lottare contro se stesse e non ne saranno mai capaci, sotto gli strali che diventano condanne anche se provengono da detti popolari, in quanto attuati alla perfezione nella vita reale: “
Chi a 20 anni non sa, a 30 non fa, ed a 40 non fa e non farà”, “Sacco vuoto non può stare in piedi”... E se la Montes fornisce l'icona venerabile dell'Assoluto negazionista, Nunzia Durazzo appare la maschera più coinvolgente di questa inanità che pertiene alla semplice e disperata inazione.

Trovo geniale che il Tempo, l'unico tempo concesso alla comunicazione con l'esterno da sè, sia solo ed esclusivamente quello del ristrettissimo spazio che intercorre, durante la recita del Rosario, fra una litania e quella che le succede. Il ritmo incalza drammaticamente, fino alla chiosa che sembra una saracinesca: "Non vedete che dopo 9 anni ancora porto il lutto? E' morta!", suggellata da un incalzante Dies Irae che tuttavia, come nota finale, andando a pungere l'aspetto religioso rimasto finora solo sotteso, in quanto appunto sfondo della scena verista, obbliga a qualche considerazione sul senso della violazione del Rosario: la pratica mariana, venendo ad intersecarsi sia con l'asperità della grettezza del quotidiano, sia con una evidente profanazione di quelle stesse parole pronunciate ("Dateci oggi il nostro pane quotidiano... perdonate i nostri peccati, come noi perdoniamo ai nostri nemici"), salta agli occhi nel suo più comune e diffuso rito svuotato ed ipocrita, lo stesso di quello che anche oggi viene oltraggiato dalle stesse labbra domenicali.

La scelta del Dies Irae con cui la regia ha voluto sottolineare il finale, così, può suonare ambivalente, e sembra nelle prime note concordare con l'iracondia dell'apparente dominatrice, mentre dovrebbe fare da elemento che vi si rivolta contro, come in effetti senza dubbio è, magari ricordando le stesse parole con cui qualcuno che costoro dovrebbero tenere in una certa considerazione, un certo Gesù, commentava il Pater Noster (Matteo 6,7-15): "Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe".