sabato 25 febbraio 2012

Le teste dei Celti

Un simbolo rappresenta il riferimento comune di coloro che vi aderiscono: nella memoria greca della parola, è la tessera di riconoscimento che si usava quando due individui o comunità la spezzavano, per conservarne ognuno un pezzo, di modo che combaciando, l'unione fornisse prova dell'esistenza di un patto.

I meccanismi con cui vengono adottati, perciò, quelli per i quali si arriva all’autoriconoscimento ed al senso di appartenenza, dovrebbero indicare abbastanza chiaramente quali siano le motivazioni della scelta; capita però che uno stesso simbolo si faccia leggere in modi diversi, e fra questi forse col tempo si scopre che non la prima, forse nemmeno la seconda, ma una lettura ancora successiva possa spiegare molte più cose di quante gli stessi aderenti avessero pensato. E' un pensiero quasi automatico, nel momento in cui ci si imbatte in una fotografia come questa.

Chiarisco anche che mi permetto di parlare dei Celti, di quelli veri, per averne spesso apprezzato le qualità in vari settori delle scienza e della cultura, ma si sa che ognuno riscrive la storia un po’ come gli pare, e mi consta che l'autoriferimento alla supposta appartenenza alla civiltà gallica di cui costoro fanno largo uso, sia considerato un supporto “storico” all’idea politica di una certa indipendenza dal Romano (“Sia in Padania ed ovunque in Europa, i Celti erano sempre un gruppo di tribù autonome disorganizzato politicamente. Il venire meno dell’unità politica contribuisce sostanzialmente all'estinzione dell'autonomia Celtica. Per secoli i Romani hanno un pregiudizio innato nei confronti dei Celti e mantengono un repertorio di ostilità. Anche Cicero esprime un'attitudine xenofobica contro i Celti additandoli alla gente Romana tutte le volte che faceva al caso suo. I Romani caricavano le comunità Celte con pesanti debiti contratti tramiti prestiti forzosi e non necessari, ed i Celti difficilmente, semmai, possono avere una equa audizione nel sistema legale Romano per le loro istanze fiscali e politiche. L'indebitamento incomincia a rappresentare una forma di schiavitù verso i burocrati e collettori di tasse romani. Nei loro scritti storici romani (Livio) e politici (Cesare) puntavano a celebrare il carattere nazionale di conquistatori dei romani stessi. Loro non potevano far apparire i nemici di Roma troppo deboli o facili opponenti, però la loro inferiorità di cultura e morale doveva essere chiara. I Celti erano trattati e guardati in questo contesto. I romani non erano interessati alla loro storia come tale. Le piccole comunità galliche mantenevano una disciplina nel loro stile di vita ed erano disgustati e disapprovavano lo stile di vita dei romani nelle città” - come leggo da  questo sito, suppongo dotato di una certa dose di ufficialità).

Tralasciando lo stile, cui mi sono permesso di apportare quantomeno modifiche ortografiche, credo che non ci possa esimere da alcune considerazioni.
In quella foto, infatti, personalmente ci vedo qualcosa d’altro; per fissare questo pensiero e cercare di trasportarlo al giorno d’oggi, mi fermerei su un campo di battaglia durante la seconda guerra punica, e mi farò aiutare dalla memoria di uno storico come Giovanni Brizzi.
La scelta di quel momento storico preciso dell'osservazione, è quella che permetterà di guardare ad un Comandante non romano, e pertanto meno sospettabile della faziosità ipotizzata da coloro che si sentono sempre così invisi al suo potere: parleremo infatti esclusivamente del loro alleato Cartaginese.

I galli della pianura padana, che costituirono per molti anni la componente più numerosa dell’esercito di Annibale, con oltre 20.000 uomini, furono anche coloro che pagarono il maggiore tributo di sangue, nelle principali battaglie sul suolo dell’Italia. In particolare, questo avvenne alla Trebbia, al Trasimeno ed a Canne (dove su 6.500 caduti oltre 4.000 furono celti), per un motivo alquanto semplice e legato alla strategia militare di Annibale, ovvero quello di schierarli costantemente in prima linea, quindi esponendoli direttamente all'urto delle pericolose legioni romane.
Questo fu un motivo di accusa sovente mossa al Comandante, ovvero di aver sovraesposto queste legioni barbariche per l’esigenza egoistica di risparmiare i cuoi concittadini. Ma Annibale non era un “egoista” (meraviglia la stessa ipotesi di un giudizio così superficiale), quanto un vero Comandante, e perciò le motivazioni vanno cercate ben altrove.
Anzitutto infatti, di veri cartaginesi come lui vi erano nell’esercito solo gli ufficiali, e pertanto nessun concittadino era da difendere nella e dalla pugna; ma soprattutto, perché anche là dove furono utilizzati ampiamente, come avvenne nelle seconde linee della battaglia di Zama, nel territorio africano, non furono certo “risparmiati”, ed anzi se qualcuno fu risparmiato fu appunto per il valore dei veterani d’Italia, una scelta da buon soldato e non certo quella di un attento politico pro domo sua.

E' allora evidente che il motivo deve ricercarsi in altre considerazioni, e sarà sufficiente trovarlo nelle sue stesse parole: anzitutto, i Celti erano guerrieri nati. Per il loro costume assai primitivo, il fatto di combattere in prima fila era un privilegio, ed un altissimo riconoscimento per il loro senso dell’onore.
Ma il secondo e ben più importante motivo, del quale lo stratega Annibale era consapevole, era che i Celti erano davvero, dei pessimi soldati: “intollerantissima corpora”, erano del tutto incapaci di sopportare le fatiche, oltre che il clima e la disciplina.
Ed erano anche amanti della gozzoviglia, bevitori sfrenati di vino, orgogliosi, incostanti e rissosi, sempre pronti al saccheggio ed infidi, tanto che minacciavano spesso la vita dello stesso loro comandante, come accadde proprio in pianura padana (ehm...!) durante il soggiorno nell’Inverno del 218…

Annibale dunque sacrificò senza alcun dubbio la componente barbarica dei Celti, e non certo in quanto tale, bensì in quanto la meno esperta, tatticamente la meno capace, e di certo la più inaffidabile, tanto che spesso la chiusura delle colonne in marcia era affidata ai suoi cavalieri di fiducia, affinché sorvegliassero proprio costoro, i Celti.
L’elemento più particolare che determinava questa loro incapacità ad essere poco di più che un numero da gettare in prima linea, era un’antico costume religioso, ovvero l’ancestrale modus pugnandi che conservavano, dell’essere cacciatori di teste.

Appese durante la battaglia ai finimenti dei cavalli, le teste erano conservate con rudimentali espedienti di unguenti e balsami, nella loro essenza di macabri e prestigiosi trofei da mostrare nelle libagioni post-belliche, oppure scarnificate e trasformate in coppe rituali per i loro santuari, o infine fissate dentro apposite nicchie ricavate negli architravi dei santuari stessi.
Era tale la loro bramosia per tali trofei, che molto spesso i Celti sospendevano perfino la battaglia, perché erano più preoccupati di collezionare questi cimeli, piuttosto che di uccidere un nemico in più.
Insomma, I Celti preferivano perdere tempo a tagliare teste in battaglia, piuttosto che interessarsi al suo esito con coscienza guerriera. E non può quindi meravigliare, perciò, che Annibale ne disponesse come meglio poteva, ovvero come truppe inaffidabili quanto esaltate.

Il loro Furor pugnandi, del resto, era noto da tempo come più uno stato dell'essere che un aspetto necessario all’azione bellica. Lo stesso Cesare ebbe modo di annotarlo brevemente. Il guerriero Celta non aveva in mente la conquista del territorio più di quanto invece aveva la discesa in campo nell’immensa ordalia che gli si parava davanti, violenta, spietata, nella quale sentirsi mano diretta mossa dagli Dèi; né le armi, né la strategia contavano per uomini sacri ed esaltati che facevano di un mezzo (la guerra) uno scopo a sé, e del furore sacro un mezzo di comunicazione con il Divino (v. "Les Religions Gauloises, rituels celtiques de la Gaule indépendant", J. Bruneaux, Ed. Errance).

Ora riguardiamo quella foto ed altre, e ricomponiamo i tasselli simbolici dell’autoriconoscimento, riguardiamo gli odiati romani (ricordate...? "Le piccole comunità galliche [...] erano disgustate e disapprovavano lo stile di vita dei romani nelle città"), e diamo un occhio anche a chi li rappresenta sulle comodità dei triclini romani così disprezzati, dando di tanto in tanto qualche ordine, lanciando qualche slogan (1) che si basi sulla conoscenza più che profonda del Furor da tagliatori di teste dei sudditi/guerrieri, pronti alla pugna e scevri di qualsivoglia sapienza tattica, così utili alla causa…



(1) la parola slogan non a caso proviene dal gaelico scozzese sluagh (nemico) e ghairm (urlo), si pronunciava slogorm ed aveva il significato di "grido di guerra" o "grido di battaglia".

martedì 14 febbraio 2012

Molière nella Duchesca

(pubblicato su www.teatro.org)

Credo che di rado ci si sia occupati di uno spettacolo così giovane, intendendo per giovane naturalmente non la paternità molieriana, quanto la riscrittura di Punta Corsara, e tanto basta a verificare la fortuna del loro Monsieur de Pourceaugnac, oltretutto già presente anche nell'edizione 2010 del Napoli Teatro Festival Italia, che ricordiamo infatti accolto con successo all'ex birreria Peroni.

La loro reinterpretazione proviene da un atto quasi spontaneo: al di là di qualsivoglia luogo comune, è certo che a poche atmosfere si presta così bene un testo, come a quelle nostrane, se solo lo si vuole inscrivere fra certezze come i palazzi deformanti dotati di sguardi ed orecchie come sono quelli del centro storico partenopeo (nelle scene di Francesco Avolio e Roberto Carro), ed insiemistiche eterne come la malizia e la veracità della donna mediterranea (Valeria Pollice e Giuseppina Cervizzi), e l'isolata scugnizzeria di un manuale degli espedienti dal volto umano (Vincenzo Nemolato).

Il Signor di Pourceaugnac (Christian Giroso) diventa così lo straniero spaesato, trascinato negli immortali canovacci della commedia dell'arte attraverso frizzi e lazzi impreziositi da alcune trovate interessanti come i “fermi-immagine” che fanno da improvviso stop-and-go ad alcuni quadri che sembrano così diventare fotografie di scena per gli ottimi Corsari.
Il bozzetto francese tracima nel teatro popolare partenopeo, compreso un non indifferente impatto fisico ed anzi quasi violento, seppure sempre sulla soglia dell'ironia, e sempre molto ben al di qua di essa. Viene da associare anche a tutto ciò un valore pedagogico, accanto a quello artistico, nel loro rappresentare e portare in giro ormai con notevole capacità di convinzione un progetto di impresa culturale che coinvolge l’Auditorium di Scampia.

Quando a metà del '600, prima del Borghese gentiluomo e del Malato immaginario, Molière esordì con Les fâcheux, incorniciato dalla musica nientemeno che di un certo Jean-Baptiste Lully, il sentiero drammaturgico acquisì già alcuni dei suoi punti fermi, che qui si elencano nella denuncia della casta medico-ciarlatana dal pensiero ristretto sul proprio prestigio sociale, alla satira gettata in faccia all'alta borghesia ed all'immobile nobiltà, tutto sottolineato dalla furbizia del popolino. È indubitabile, che quello napoletano sia un palcoscenico ideale per tutto ciò, sebbene ovviamente a continuo rischio di ovvietà.

Ma è una ovvietà insita nell'essenza stessa dell'accostamento, nella scelta in sé di una comédie-ballet che cita genitori come “Pulcinella pazzo per forza” e “Pulcinella Burlato”, opere in gran voga alla corte francese, e che però, se si vuole guardare meglio, contribuisce ad uno sguardo che non può fermarsi sempre sugli elementi direttamente deduttivi, per parlare ad esempio di alterità e di sopraffazione, che al di là della farsa rimangono nel sedimento della risata, quando essa termina e si pone fine al lazzo.

Certo, nessuno si identificherà con il signor di Pourceaugnac o ne rimarrà pietosamente amico, piuttosto che partecipare con sana, catartica beffa all'estrema conseguenza dell'intrigo, eppure credo che in ogni farsa, come scriveva Bergson (Le rire), l'attimo vincente è quello del movimento del dimenticare per un attimo le ragioni dell'umana pietà, distaccarsi, ed assistere alla vita (altrui) come uno spettatore indifferente, in modo che il dramma piccolo o grande, addossato interamente sull'altro, si converta in commedia. Come "un’anestesia momentanea del cuore" che provoca la temporanea sospensione della realtà.
Era esattamente al borghese fin de siècle seduto in platea, davanti ad una commedia di Molière, che pensava, e non deve essere cambiato poi molto, se non che magari gli spunti di riflessione, una volta terminata la sospensione, devono essere, si spera, molto più numerosi, e molto più avanzata la nostra capacità di fissarli nel pensiero.

lunedì 13 febbraio 2012

Pregiudizi contendenti

(pubblicato su www.teatro.org)

Era la fine degli anni '70. Cominciavano gli '80. Quel periodo in cui dagli anni di piombo si stavano per inaugurare i maxiprocessi, ma ancora si poteva finire in galera senza saperne il motivo, mentre Soccorso Rosso forniva assistenza legale gratuita ai militanti della sinistra extraparlamentare.
A via Bonito c'era uno scantinato, chiamato il Teatro dei resti, dove una sera fu messa in scena una commedia che rappresentava una grottesca aula di tribunale, dove i giurati erano travestiti da clown. L'aveva scritta Mimmo Ciruzzi, ed alla fine dello spettacolo veniva lanciata sul pubblico una rete, come quelle dei pescatori, per trasmettere l'angoscia della cattura. Non ne sono certo, ma credo si chiamasse “Oh, mio giudice“.

Racconto a me stesso tutto ciò per guardare con occhio diverso il monologo di oggi, sia per cercare qualche riferimento stabile nella linearità di un pensiero spesso apprezzato, quello di una scrittura che da sempre si impegna in temi così difficili perché ne vive quotidianamente la realtà nella professione, sia per trovarvi riferimenti che non si fermino ad un gioco in cui un'attrice si trova, come qui, ad alternare tutte le fasi, con 13 cambi di situazioni, senza però incidere abbastanza sulla drammaticità che le scene suggeriscono.
Bisogna chiedersi quanto le tracce comiche siano inserite ed in quale gusto, perché talvolta l'effetto è strano, volendo essere drammatico, oppure far ridere, o entrambi, come quando descrive un omicidio particolarmente truculento, ma con un tono esilarante, mentre la musica in sottofondo suggerisce una partecipazione commossa.

Alquanto di rottura sono gli elementi cinematografici, inserti scenici come un "On the road again" a volume sparato e sulle immagini del supermercato in cui "quanno 'a notte te riusciva 'o break, 'a matina appriess' int'o Superò" lei ed il maritino delinquente facevano una strage, comprando tutto quello che capitava a tiro (segue sterminato elenco di merci da ingurgitare consumisticamente): è uno dei momenti in cui viene da notare che se nella versione-magistrato la parte è costruita giustamente "difettata" in tutte le forme più convenzionali del suo status, dai favoritismi personali alle malcelate ambizioni di carriere collaterali, è nella donna spersa e spaesata che va a colloquio col marito incarcerato, nella sua nudità veristica, ed ancor più nella sua ironia che dovrebbe risultare innata, che la cosa funziona meglio. Come anche nelle traduzioni dal napoletano in italianesco buorocratese da carabiniere applicato sul suo "a domanda risponde" degli interrogatori della testimone forzata e poco consapevole, o nel suo trionfo del kitsch fin troppo annegato nella sua, purtroppo verosimile, popolanità.

Le facce del disagio vogliono essere rappresentate attraverso la contrapposizione, ma funzionano più come un unicum, sul quale si posa il pensiero sugli anni '70, per evitare quelli impossibili su sguardi compiaciuti, che non si separano abbastanza dai luoghi comuni e stereotipi di cui si prometteva la dimenticanza, e che trovano una punta estrema nel finale, con la preghiera alla Vergine Maria, mentre il cielo si fa azzurro, il sole si apre e ne fuoriesce l'assordante rumore di un elicottero della polizia.

domenica 5 febbraio 2012

Flip-flop story

All'estero le chiamano flip-flop, qui da noi sono dette infradito. Si, quei sandali che trovo personalmente del tutto impossibili da utilizzare, ma che soprattutto in mondi poveri sono spesso l'unico tipo di calzari a disposizione. Come tante cose impossibili da immaginare, sappiate dunque che un numero enorme, ogni anno, per consunzione vengono abbandonate in Asia ed infestano tutto, scendono sorgenti, seguono fiumi, poi dai fiumi all'oceano, dall'oceano arrivano fino alla costa orientale dell'Africa, e sulla costa si spiaggiano nella misura di 10.000 kg all'anno.

A Nairobi c'è una comunità che le raccoglie per lavorarle, soprattutto se rosa o blu, per farne prodotti diversi. Come volete chiamarlo, riciclo, riutilizzo, va bene tutto, ma soprattutto va bene l'immagine.

Paesi poveri. Materiali poveri. Uso povero. Massimo grado di inquinamento. Traccia di tutto ciò in un incredibile percorso sempre uguale a se stesso, tonnellate di sandali infradito di bassa qualità che disegnano un solco della sporcizia del consumo lungo le acque e su una lunga scia nel mare. Spiagge su cui si fermano tutte insieme, spiagge cui nulla manca (se non l'interesse delle multinazionali turistiche) per essere simbolo di purezza incontaminata ed esotica (questa parola... attenzione a questa parola... prima o poi ci torneremo), trasformate in discariche come dire, già differenziate.

Qualcuno ha un'idea, ed arriva la chiusura di un ciclo. O almeno la sua rivitalizzazione. Sembra una favola, prima che una storia. L'idea è quella di un designer olandese, Diederik Schneemann, che al FuoriSalone 2011 l'ha presentata, e che qui omaggio con qualche immagine significativa.