giovedì 29 marzo 2012

Buoni, cattivi maestri

(pubblicato su www.teatro.org)

Ci sono un po' troppi lati, dai quali si può leggere questa storia così ignominiosa dell'Italia repubblicana. Davvero un po' troppi.
Le interpunzioni del sax di Stefano Russo giungono a proposito anche per questo. Spezzano un ritmo incessante di idiozie e di scandali al contrario, ed è uno dei pochi interventi marcati di una regia che giustamente fa qualche passo indietro per lasciare più scena alla sostanza, che è davvero tanta.
Aldo Braibanti sulla scena definisce subito i termini della questione: si tratta del "più eclatante caso di discriminazione che l'Italia ricordi"... ma il fatto vero, è proprio invece che l'Italia non ricorda.

Nell'ottima alternanza di Fabio Bussotti e Mauro Conte, che con la loro presenza esemplare sia nei contrappunti, sia nei due monologhi finali forniscono una prova eccellente, emerge dunque una storia nella quale non c'è un solo spunto, uno qualunque, cui l'Italia degli anni '60 possa aggrapparsi per giustificare una via crucis.
Al di là della storia che si può leggere in una trama che sembra un film neorealista di serie B piuttosto che la realtà dei fatti accaduti, sarebbe bene credo soffermarsi invece su alcune parole che si possono leggere sui verbali del processo: un "plagio maturato in ambienti pseudoartistici", compiuto da “un frustrato perché basso e stortignaccolo […] un buono a nulla, perché artista, e in quanto artista un corruttore d’anime” che bisogna "ricacciare agli inferi".

Se i cattivi maestri avessero piacere a considerarsi eroi, sarebbe stato un bel racconto, ma non ci scommetterei. A proposito, al di là del merito lombrosiano della sofisticata tecnica giuridica applicata con tanta veemenza, stiamo parlando di un reato di nome Plagio, che all’epoca in quanto residuato bellico del Codice Rocco, era appunto considerato pressoché nullo, e così sarebbe rimasto fino alla sua futura e non lontana cancellazione dall’ordinamento giuridico, se una notevole sequela di personaggi politicamente determinati non fossero riusciti a mettere il record, meritando un Guinness, ovvero creare l’unico condannato della storia per questo reato, Aldo Braibanti. Per non dimenticare gli effetti collaterali delle conseguenze sul suo compagno Giovanni Sanfratello, sottoposto sia ad aberrazione mediche fra cui un numero di quaranta elettroshock, sia a condanne ineffabili quali l’obbligo di non leggere libri che avessero meno di cento anni.
Le frasi che Massimiliano Palmese  fa pronunciare ai due pluripersonaggi sono a volte di una spiazzante autorità morale, come nella difesa di Braibanti ("ma quella era la sua volontà... oppure avrei dovuto plagiarlo!" e "…ma l'amore stesso, è un plagio!"), e sono parole che si ascoltano meglio, nell'essenza di due sedie lontane ma che sembrano sempre strettamente affiancate.
Gesti di accompagnamento e nessun oggetto, ma l’aria viene egualmente solcata, ci sono fin troppi pesi a smuoverla, quest’aria irrespirabile come deve essere stata quella della quotidianità della vita di un omosessuale in quel periodo. Al mirmecologo Aldo, difeso poi soltanto dalla severa lucidità di Pasolini e non molti altri, il tardivo rincrescimento della società concesse nel 2006 il vitalizio della legge Bacchelli, che non modifica una sola piega dell’incredibile serie di sovversioni “al contrario” ("credevo che insegnare le proprie idee liberamente non fosse un reato nella nostra Repubblica, ma che fosse un reato impedirlo").

La sovversione di una sovversione forse dovremmo chiamarla eversione, o inversione; ed i due monologhi incrociati finali riescono anche a far sentire questo volo strano, che alle orecchie continua a fornire sensazioni tristi, siglando l’ottimo mix fra ricostruzione della cronaca ed espressione della recitazione.
Ancora oggi, sentire pronunciare le parole della sua condanna, ovvero 9 anni di carcere (la stessa pena comminata per i 2.121 morti del Vajont…) più le spese processuali, più le spese per il suo mantenimento in carcere, fa un certo effetto, in cui trovare attualità e passato congestionati, fa pensare a cosa ci siamo persi nella storia, ma soprattutto, fa schifo.

lunedì 19 marzo 2012

Bukowski, s'il vous plaît

(pubblicato su www.teatro.org)

Maneggiare, masticare, spolpare e tratteggiare Charles Bukowski è molto meno facile di quanto si pensi.
Il rischio della banalità e della convenzione, si, proprio il contrario di quell'idea cui si andrà automaticamente al sentire pronunciare il nome dello Scrittore del sogno americano frantumato, è forte.

Raramente infatti si è andati oltre una sterile convenzione di scandaloso slancio anti-perbenista, e si è lasciato trapelare il bisogno ossessivo di affetto, e perché no, di tranquillità umana che si ergeva con una certa imponenza dietro quel trasparente plexiglass governato da disperazione e miseria, da certezze come sesso ed alcol, da orizzonti perversi e marginali abitati da prostitute, ladri, miserabili e falliti. Il poeta seduto a guardarsi, insomma, anziché quello di cui fare sfoggio di aforismi dopo una ricerca su Google, o con i segnalibri puntati sulle pagine di Storie di ordinaria follia.

Lo fa Alessandro Haber. Lo fa con una voce prestata al reading ed al canto, un canto rauco ed una interpretazione credibile, insieme con arrangiamenti che uniscono la sua voce con il sax di Luca Velotti ed il pianoforte di Marco Di Gennaro.
E lo fa incarnando poesie e scritti dell'arte di Bukowski in un ibrido contaminato (ma forse al termine di una ricerca fin troppo armoniosa) in cui parole, suoni e presenza dell'attore seguono una linea che viene disegnata con una tinta personale inevitabile, nella quale Haberbukowski non manca mai di trasmettere il suo piacere nelll'identificazione con l'orgogliosa marginalità. Come se si facesse un regalo.

A proposito, finalmente uno che fuma, che se ne accorge e che dall'alto del suo ruolo e della memoria di tempi non tanto lontani in cui nei locali il fumo avvolgeva la pinta di birra, dice al pubblico “ehi, beh, se qualcuno vuole fumare, sale qui, fa un personaggio che fuma, e...”. Detto da un non-fumatore quasi perfetto.
Nel programma non appare soltanto Bukowski, ma di certo è lui che la fa da padrone, sul cartellone, sul tempo quasi totale riservatogli, sulle scelte espressive e sulla presa che ha sulla platea, partendo da Una tapparella abbassata e passando per Ragazze pulite e tranquille in abito di percalle, Donna che dorme, Confessione, Una poesia è una città e molte altre.
Saltiamo ad un iperclassico come Ode alla vita di Pablo Neruda, facciamo due passi con Luigi Tenco (Vedrai vedrai e Mi sono innamorato di te), e lasciamo l'ultima firma al bis di Paolo Conte. Insieme a te non ci sto più.

Ti sei compiaciuto, Haber, si sentiva; ma questa scelta di essere così presente e dentro l'operazione si può accettare con compiacimento equivalente, e con un viscerale amore per il disordine del mondo e per questo ricordo di un viaggio ostinatamente perseguito, alla ricerca di una felicità. Una qualunque.










domenica 11 marzo 2012

Quelli del '99, quelli della BNF, quelli che se ne stanno a casa


Nell'ultimo passaggio per Parigi, speravo come sempre di rimanere sorpreso da una diminuzione del consueto disappointment sparso doviziosamente in atteggiamenti e mentalità, e così puntando su un cavallo vincente come la cultura, sono andato alla BNF, la Bibliothèque nationale de France, una megastruttura nel XIII arrondissement voluta da Mitterrand, una delle sue cosiddette grandi opere, non a torto considerate spesso soprattutto grandi megalomanie.
Tuttavia, nel mio desiderio di rinvenire testi francesi che parlassero della rivoluzione napoletana del 1799, per acquisire altri punti di vista e trovare nuovi spunti di riflessione su quello che ancora oggi ritengo uno degli accadimenti, nella storia moderna, che hanno il peggiore rapporto fra importanza reale, considerazione fra gli studiosi e conoscenza contemporanea, pensavo che fosse una tappa obbligata, recarsi da colei che per farsi notare vanta 7,5 ettari di costruzioni, 4 torri di 79 metri, un giardino (non accessibile al pubblico) di 12 000 m² davanti al deambulatorio del Rez-de-jardin, 2.900.000 m² di pavimenti, 385 km di scaffali, innumerevoli linee squadrate di sentore razionalista fra pareti ricoperte in maglie di tessuto metallico INOX, e soprattutto collezioni fisiche stimate in 30 milioni di oggetti, di cui 575.000 visibili nella sede principale.

Non vorrei soffermarmi sulle osservazioni che del resto già abbondantemente sono sorte altrove sulla mastodontica quanto fredda e non sempre comoda struttura, mi limiterò a ricordare l'esperienza di un giornalista che era alla ricerca di testi, entusiasta di essere circondato da un numero così impressionante di libri (nella sua testa, ovviamente, dato che di libri, fra corridoi, strade, ascensori e clima da star trek radical chic, per un bel po' di tempo non se ne vedono nemmeno sui poster, salvo il negozio di souvenir all'entrata, con bookshop annesso).
Noi ci lamentiamo della nostra burocrazia e facciamo bene, ma spesso all'estero ci sono occasioni per “consolarsi”, ed ecco una di queste: cercare un libro alla BNF. Dopo qualche tempo passato a guardarsi intorno per capirne il funzionamento, mi si dice che bisogna chiedere di consultare un testo preciso ad uno sportello di accoglienza. Peccato che io non cercavo alcun testo preciso, ma immaginavo di seguire fra gli scaffali di qualche sezione specifica i libri presenti, per trovarne alcuni interessanti, più o meno come si faceva una volta, quando si andava in biblioteca e si perdeva un po' di tempo in questa bellissima attività. Mi sbagliavo. Bisogna chiedere subito un testo preciso.

Arrivato il mio turno, ho spiegato alla gentile assistente l'argomento, non senza difficoltà perché naturellment non capiva una parola né di italiano, né di inglese, ma parlava soltanto francese (vi risparmio il mio pensiero su un luogo che pretende di essere il meglio al mondo nel suo campo, ma il cui impatto con lo straniero è del solito modello francese, ovvero “o capisci la nostra lingua, oppure peggio per te, anzi ti consideriamo pure un poveretto, ma ti concediamo egualmente di stare qui, soprattutto per farti sentire a disagio per come guardiamo chi non parla francese”), e così fra il mio pessimo francese ed il suo inesistente inglese, sono riuscito a farle capire quale fosse l'ambito della ricerca che mi premeva di svolgere. Dovendo però necessariamente individuare un testo di cui chiedere la visione, pena il mancato ingresso nelle fauci del Leviatano, scelgo l'unico, fra i pochi trovati (…), che mi sembrava interessante, ovvero “Bonnamy, Général: Coup d'oeil rapide sur les opérations de la campagne de Naples, jusqu'à l'entrée des français dans cette ville - 1800”: quello che cercavo era esattamente un coup d'oeil, il punto di vista di un militare francese, et voilà, sembrava che si stesse mettendo bene...

Dopo circa 30 minuti di tentativi dunque, ci capiamo, mi stampa il titolo del testo di cui chiedere la visione e mi manda di nuovo all'accettazione, dove si sceglie il tipo di ingresso o abbonamento da comprare. Non ricordo il costo, ma trattandosi, come avevo ormai capito, di un testo solo, per principio non mi è sembrato poco.
Quasi dimenticavo: questo iter è stato possibile soltanto previa esibizione del tesserino dell'Ordine dei giornalisti, perché senza manifestare un concreto interesse diretto, e bontà loro essere un giornalista napoletano che voleva documentarsi su fatti napoletani legati alla rivoluzione francese lo era, a quanto ho capito non mi avrebbero nemmeno fatto cominciare a spiegare cosa volessi: questo lo ricordo come uno degli aspetti più sconcertanti, ma non ho indagato oltre; resta il fatto che senza questa “giustificazione”, non avrei potuto neanche iniziare il percorso.
Faccio la card rossa valida per 3 giorni, espleto altre formalità fra cassa, accoglienza e guardiani, e finalmente mi si indica la strada del Sapere: un tornello elettronico, una porta, un ascensore. E poi un corridoio, ed una scala mobile infinita, non saprei valutare l'altezza ma di sicuro era quella che il suo progettista, l'architetto Dominique Perrault, aveva installato per simboleggiare il viaggio verso la conoscenza (beh, si, avevo studiato un po'...).

Il viaggio verso la conoscenza dunque scende verso l'infinito fino ad arrivare in un atrio dal silenzio che sembra schiacciare colui che discendeva, poi altri tornelli, un guardiano davanti ad altre pesanti porte in metallo ed un desk di accoglienza dove tre impiegate stavano in beata solitudine davanti ai loro computer, inattive. Ho preso una strada laterale perché ho creduto che non fosse quello l'ingresso, sembrava più un secondo livello di accessi per il quale ci fosse bisogno di altre procedure, ma alla fine di due lunghi corridoi scopro che non c'era null'altro. Torno indietro ed inserisco la mia card nel tornello: niente. Nessuno mi dice nulla. Riprovo. Niente. Chiedo al guardiano, che naturalmente mi manda al desk senza spiegazioni, e qui di nuovo la scena dell'accoglienza francese esclusivamente in francese: mostro le mie credenziali, chiedo se magari interessava loro studiare anche il mio C.V., e comincio a seccarmi perché dopo tutto l'iter completato nei piani alti, non capivo in cos'altro poteva consistere il secondo step. La gentile impiegata, dopo aver consultato il suo terminale, mi dice che “oh, certo, ecco il problema: non ha prenotato la visione!

“Prenotare la visione” significa trovare una finestra di tot minuti in cui risulta esserci una postazione informatica libera, nonché esservi formalmente assegnati mediante riconoscimento della card, senza essere sicuri della quale non si può entrare.
Mi trovano uno spazio e mi concedono 40 minuti di tempo. Non capisco bene per cosa, ma ormai volevo solo entrare, e la card così magicamente ha aperto le porte. Poi altre porte. Poi il corridoio del jardin esterno, quello inaccessibile, e lungo l'intero percorso la grande sala suddivisa per sezioni. Arrivo alla mia, mi rivolgo alla nuova assistente, e trovandola particolarmente disponibile approfitto per chiederle qualcosa in più, dopo essermi infine assiso sulla postazione assegnata, e dopo aver aperto la mia finestra temporale e visualizzato il testo che avevo individuato nell'iperurano, al piano di spora, che mi è apparso in tutta la sua bellezza elettronica, sullo schermo davanti, in formato PDF.
Molte grazie, per carità, ma se volessi toccarlo, che so, o addirittura sfogliarlo, anche magari sotto minaccia armata alle spalle? No, mi spiega che faceva parte di una collezione inaccessibile (come quasi tutte, sospetto), e che quello era l'unico modo di leggerlo. Volendo, però, potevo stamparne qualche pagina da lì, e perfino scaricarlo e copiarlo su una mia pen drive, ma questo mi sarebbe costato un extra. Ok, ok, va bene così, ma allora, mi scusi se mi permetto... se è in formato digitale e sta in una rete, non avrei potuto consultarlo anche da casa...?
Si, certo, può farlo anche da casa.
Ah. E se qui devo pagare un tot per scaricarlo, da casa cosa devo fare, iscrivermi alla BNF on line, pagare un abbonamento, o cosa?
No, no. Da casa, è gratis.

Lascio una riga in bianco, nel caso in cui qualcuno sentisse il bisogno di commenti estemporanei.
Da casa è gratis. Già. Il fatto è che la cosa migliore che tutta la scienza della Bibliothèque nationale de France, dei suoi architetti e dei suoi amministratori, hanno fatto finora, oltre ad alcune sale spaziose fornite di ben comode sedie e postazioni informatiche, a modesto avviso del vostro cronista è il progetto di digitalizzazione di libri, manoscritti e fotografie che permette di consultare, ad oggi, 90.000 volumi ed 80.000 immagini. A chiunque. Trovate tutto a questo indirizzo, si tratta di Gallica.
Meglio ancora, Gallica è una delle reti che sta confluendo nel più ambizioso progetto di Europeana, che già oggi rende accessibili da casa oltre 30.000 biblioteche europee ed oltre 20 milioni di oggetti: lo trovate a questo indirizzo.
Toh, questo si che ha vere ambizioni universali: pensate, è scritto in 29 lingue... e soprattutto, non fornisce solo i formati immagine, ma anche il testo ottenuto tramite OCR. Allelujah.

Dunque, dopo la simpatica informazione della serie “ma allora che so' venuto a fare qua?”, chiudo tutto, e cerco di resettare l'intera questione: non era questo, ciò che volevo... speravo di camminare fra i libri, restare a occhi spalancati davanti alle centinaia di migliaia di testi, essere sovrastato da scaffalature kilometriche... e allora facciamolo, anche a caso magari. Purtroppo però, ma sicuramente è questione di funzionalità oltre che di gusto, gli scaffali sono tutti ad un'altezza d'uomo, e pertanto data la vastità dello spazio a disposizione, danno la sensazione di essere dispersi, razionali ma disequilibrati.
Col numero di riferimento di un libro di Cuoco trovato sull'indice digitale, arrivo dunque al settore “Storia della Campania” e cerco qualche titolo che potrebbe essere interessante.
Non che ci si poteva aspettare altro, ma l'esito è stato davvero sconfortante, di testi ce ne sono soltanto 3:

Mario Battaglini – La Repubblica napoletana (testo in italiano)
Benedetto Croce – La Rivoluzione napoletana del 1799 (testo in italiano)
Vincenzo Cuoco – Histoire de la Révolution de Naples (testo in francese)

Stop. Tre testi che si conoscono a memoria, tutti e tre italiani, zero francesi. Come mi aspettavo, già. 213 anni dopo, il tema non cambia, e fra le rivoluzioni europee successive a quella francese, mi sembra che giaccia ancora sottovalutata, se non ignorata, quella che ha avuto le caratteristiche di originalità e di visione del futuro più forti fra tutte.
Torno a casa.

p.s.
Il testo che ho trovato, e che avrei trovato anche da casa, è quello che troverete seguendo questo link, lo sto leggendo, ma mi pare dica davvero pochissime cose interessanti. Il mio consiglio è di aprirlo da casa: oltre a risparmiare il viaggio e tutto il resto, al contrario che dalle postazioni della BNF, pensate che dalla vostra poltrona non si paga nemmeno il download.

sabato 10 marzo 2012

Movimenti, spazio ed immaginario


(pubblicato su www.teatro.org)


Anni di performance all'aperto, piazze del mondo da Miami a Mumbai, da Frankfurt a Dubai, e spazi dentro i quali lo sguardo si può perdere, per trovare forse anche la migliore delle dimensioni in una natura onirica che invita esplicitamente a “scollegarsi dalla realtà”: all'aperto, la realtà non ha molto bisogno di essere dimenticata, c'è il cielo, ci sono le stelle e le nuvole, c'è lo spazio, a modificare la percezione terrestre e ad integrare lo sguardo dello spettatore con gli elementi della natura.
Ma per disegnare intorno a tutto questo 5 pareti, nel cubo aperto da un lato che è un palcoscenico teatrale, ci vogliono idee ed energie speciali: i Sonics portano dunque il loro spettacolo Meraviglia a teatro, e le immagini che riescono a creare e ad evocare affrontano questa sfida con una esperienza ed un entusiasmo non comuni.
La triplice ottica sotto la quale si incontrano i movimenti degli eccellenti acrobati (con termine che esprime meglio di tutti l'abilità di Francesca Torta, Irene Chiarle, Liuzzo Federica, Lucio Rizzi, Claudio Bertolino, Giorgio Richetta, Alessandro Pietrolini e Micol Veglia) è quella dell'acrobazia, della scenografia e della coreografia/narrazione: sulla prima, va subito detto che ci sono scene di pura estasi del corpo, nelle quali si fatica a pensare che noi qui seduti a guardare apparteniamo, nella scala dell'evoluzione, allo stesso genere loro. Sia singolarmente che nelle frequenti combinazioni a due (in cui sembra di vedere a volte un corpo solo), i Sonics non trasmettono mai alcuna sensazione di fragilità o indecisione, assumono pose straordinarie anche in fermi prolungati e conservano una sensibilità per la presentazione estetica del movimento che non si ferma al lato acrobatico; senza dubbio è il lato più affascinante e davvero degno di una pozione magica da bere ed alla quale affidare ogni pensiero misterioso suggerito dallo spettacolo, il cui scopo è legare lo spettatore alla natura, ed insieme fargliene dimenticare la sostanza terrena.
La scenografia impegna macchine complesse, come la sfera di acciaio di 4 metri di diametro che alterna discese e risalite, nelle quali si intrecciano corpi e tessuti che formano un discorso concettuale che va sottolineato, e che lo unifica in un tutt'uno insieme con quello del corpo in movimento, perché il pensiero si sofferma sul recupero, in senso nobilitatore, del concetto di tecnica come ci era stato insegnato dal greco τέχνη, dove l'arte era quella del “saper fare".
Il terzo aspetto riguarda la narrazione: probabilmente lo spettatore tradizionale del teatro parte da un'aspettativa più accentuata, rispetto alla linea discorsiva, aspettandosi di essere guidato dalla riconoscibilità degli eventi piuttosto che dalla sollecitazione dei sensi, mentre in questo caso si esplica quasi esclusivamente (tranne alcuni brevi interventi di una voce narrante fuori campo) attraverso la coreografia, che evoca la storia di uomini “qualunque” che seguendo la scia della Terra, si lasciano attrarre da una forza misteriosa, e trasportare in un viaggio costellato di meraviglie.
Ci si trasforma in animali ed in impulsi ancestrali, si arriva a suggerire la deificazione e ad unire mente, corpo e natura in un logos che in alcuni momenti magari risulta anche un po' troppo ieratico, ma con una suggestione di fondo che porta ad unire gli elementi singoli ed a tenere fermo il timone su un possesso della scena che il pubblico dimostra di trasformare in un riuscito momento di comunicazione col suo immaginario.