Ci sono un po' troppi lati, dai quali si può leggere questa storia così ignominiosa dell'Italia repubblicana. Davvero un po' troppi.

Aldo Braibanti sulla scena definisce subito i termini della questione: si tratta del "più eclatante caso di discriminazione che l'Italia ricordi"... ma il fatto vero, è proprio invece che l'Italia non ricorda.
Nell'ottima alternanza di Fabio Bussotti e Mauro Conte, che con la loro presenza esemplare sia nei contrappunti, sia nei due monologhi finali forniscono una prova eccellente, emerge dunque una storia nella quale non c'è un solo spunto, uno qualunque, cui l'Italia degli anni '60 possa aggrapparsi per giustificare una via crucis.
Al di là della storia che si può leggere in una trama che sembra un film neorealista di serie B piuttosto che la realtà dei fatti accaduti, sarebbe bene credo soffermarsi invece su alcune parole che si possono leggere sui verbali del processo: un "plagio maturato in ambienti pseudoartistici", compiuto da “un frustrato perché basso e stortignaccolo […] un buono a nulla, perché artista, e in quanto artista un corruttore d’anime” che bisogna "ricacciare agli inferi".

Le frasi che Massimiliano Palmese fa pronunciare ai due pluripersonaggi sono a volte di una spiazzante autorità morale, come nella difesa di Braibanti ("ma quella era la sua volontà... oppure avrei dovuto plagiarlo!" e "…ma l'amore stesso, è un plagio!"), e sono parole che si ascoltano meglio, nell'essenza di due sedie lontane ma che sembrano sempre strettamente affiancate.
Gesti di accompagnamento e nessun oggetto, ma l’aria viene egualmente solcata, ci sono fin troppi pesi a smuoverla, quest’aria irrespirabile come deve essere stata quella della quotidianità della vita di un omosessuale in quel periodo. Al mirmecologo Aldo, difeso poi soltanto dalla severa lucidità di Pasolini e non molti altri, il tardivo rincrescimento della società concesse nel 2006 il vitalizio della legge Bacchelli, che non modifica una sola piega dell’incredibile serie di sovversioni “al contrario” ("credevo che insegnare le proprie idee liberamente non fosse un reato nella nostra Repubblica, ma che fosse un reato impedirlo").

Ancora oggi, sentire pronunciare le parole della sua condanna, ovvero 9 anni di carcere (la stessa pena comminata per i 2.121 morti del Vajont…) più le spese processuali, più le spese per il suo mantenimento in carcere, fa un certo effetto, in cui trovare attualità e passato congestionati, fa pensare a cosa ci siamo persi nella storia, ma soprattutto, fa schifo.
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