sabato 10 marzo 2012

Movimenti, spazio ed immaginario


(pubblicato su www.teatro.org)


Anni di performance all'aperto, piazze del mondo da Miami a Mumbai, da Frankfurt a Dubai, e spazi dentro i quali lo sguardo si può perdere, per trovare forse anche la migliore delle dimensioni in una natura onirica che invita esplicitamente a “scollegarsi dalla realtà”: all'aperto, la realtà non ha molto bisogno di essere dimenticata, c'è il cielo, ci sono le stelle e le nuvole, c'è lo spazio, a modificare la percezione terrestre e ad integrare lo sguardo dello spettatore con gli elementi della natura.
Ma per disegnare intorno a tutto questo 5 pareti, nel cubo aperto da un lato che è un palcoscenico teatrale, ci vogliono idee ed energie speciali: i Sonics portano dunque il loro spettacolo Meraviglia a teatro, e le immagini che riescono a creare e ad evocare affrontano questa sfida con una esperienza ed un entusiasmo non comuni.
La triplice ottica sotto la quale si incontrano i movimenti degli eccellenti acrobati (con termine che esprime meglio di tutti l'abilità di Francesca Torta, Irene Chiarle, Liuzzo Federica, Lucio Rizzi, Claudio Bertolino, Giorgio Richetta, Alessandro Pietrolini e Micol Veglia) è quella dell'acrobazia, della scenografia e della coreografia/narrazione: sulla prima, va subito detto che ci sono scene di pura estasi del corpo, nelle quali si fatica a pensare che noi qui seduti a guardare apparteniamo, nella scala dell'evoluzione, allo stesso genere loro. Sia singolarmente che nelle frequenti combinazioni a due (in cui sembra di vedere a volte un corpo solo), i Sonics non trasmettono mai alcuna sensazione di fragilità o indecisione, assumono pose straordinarie anche in fermi prolungati e conservano una sensibilità per la presentazione estetica del movimento che non si ferma al lato acrobatico; senza dubbio è il lato più affascinante e davvero degno di una pozione magica da bere ed alla quale affidare ogni pensiero misterioso suggerito dallo spettacolo, il cui scopo è legare lo spettatore alla natura, ed insieme fargliene dimenticare la sostanza terrena.
La scenografia impegna macchine complesse, come la sfera di acciaio di 4 metri di diametro che alterna discese e risalite, nelle quali si intrecciano corpi e tessuti che formano un discorso concettuale che va sottolineato, e che lo unifica in un tutt'uno insieme con quello del corpo in movimento, perché il pensiero si sofferma sul recupero, in senso nobilitatore, del concetto di tecnica come ci era stato insegnato dal greco τέχνη, dove l'arte era quella del “saper fare".
Il terzo aspetto riguarda la narrazione: probabilmente lo spettatore tradizionale del teatro parte da un'aspettativa più accentuata, rispetto alla linea discorsiva, aspettandosi di essere guidato dalla riconoscibilità degli eventi piuttosto che dalla sollecitazione dei sensi, mentre in questo caso si esplica quasi esclusivamente (tranne alcuni brevi interventi di una voce narrante fuori campo) attraverso la coreografia, che evoca la storia di uomini “qualunque” che seguendo la scia della Terra, si lasciano attrarre da una forza misteriosa, e trasportare in un viaggio costellato di meraviglie.
Ci si trasforma in animali ed in impulsi ancestrali, si arriva a suggerire la deificazione e ad unire mente, corpo e natura in un logos che in alcuni momenti magari risulta anche un po' troppo ieratico, ma con una suggestione di fondo che porta ad unire gli elementi singoli ed a tenere fermo il timone su un possesso della scena che il pubblico dimostra di trasformare in un riuscito momento di comunicazione col suo immaginario.






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