venerdì 25 gennaio 2013

Le nuances del grigio

(pubblicato su www.teatro.org)

Un grigio fuori, ed un grigio dentro, accoglie l'interno familiare di The Country di Martin Crimp, in scena al Teatro Bellini con Laura Morante, Gigio Alberti e Stefania Ugomari Di Blas protagonisti: sono due tonalità di grigio che si sovrappongono perfettamente, quella che proviene dal paesaggio e dalla notte filtrata dall'enorme vetrata opaca, e l'altra, che ha scavato nell'animo di tutti loro un solco su cui è scivolato, in anni di glaciazione, un trionfo di ambiguità, sotterfugi e macerie di relazioni personali.

La famiglia è quella di una classe media occidentale, ed i peccati sono quelli con cui ci si ritrova mediamente a fare i conti oggi guardandosi semplicemente attorno: tradimenti, intolleranze ed assenza di speranza, che qui però sono letti dalla regia di Roberto Andò in una luce britannica che evoca fortemente immagini di Harold Pinter per ambientazioni e ritmo, del tutto priva di ironia ma sempre sospesa, come sospesa resta anche una parte violenta che potrebbe insinuarsi, di tanto in tanto, e che invece resta strozzata, facendo sempre prevalere l'aspetto minimale di coloro che intendono mantenere in piedi un assetto formale del rapporto.

L'occasione per far emergere l'iceberg è l'improvvisa decisione del marito, trovatosi evidentemente in una situazione difficile da gestire -con l'amante svenuta in una strada di campagna, ed affannato da una recente colpa per aver lasciato morire un paziente- di portarla “per una notte” a casa sua, fingendo un soccorso incidentale. La moglie però sospetta da subito che nasconda altro, e da ciò nasce l'istantanea atmosfera pesante e rituale dello scontro fra sospetti ed accuse, rimanendo sempre costantemente legati ad una cifra quasi esclusivamente verbosa e dall'espressione piatta che conferisce sospensione alla sostanza, e che viene gestita con toni che si innalzano e si abbassano, si avvicinano da complici e poi si allontanano da nemici e prigionieri, l'uno dell'altro e di sé stessi.
È comprensibile perciò che la scenografia lasci molto spazio a questa atmosfera, e si ritiri in una sua essenzialità: un prato finto riproduce sia la villa di campagna nella quale la famiglia si era rifugiata (forse) per cercare tranquillità, sia il muro spesso ricordato per le passeggiate dal vario significato, poi un tavolo sul quale lei taglia, taglia, sminuzza con lo stesso procedimento con cui parla per indagare sul marito, pungolandone i momenti di raro silenzio (“non fissare il vuoto”) e proponendo quella difficile quotidianità in cui si nascondono piccoli e grandi tormenti, in cui giunge anche di tanto in tanto l'eco di un quarto, mai presente personaggio, su cui si appoggiano le vicende per intrecciarsi con un alito di mistero più concreto.

Qualcosa rimane sospeso però, nel retrogusto lasciato dal testo: anche se in un contesto simile sarebbe naturale attendersi un certo impatto amaro, rimane la sensazione di una prova attoriale che ha convinto ben più di una scrittura che senza di loro e senza questa regia sarebbe risultata di ben minore interesse, per originalità e per strumenti drammaturgici e linguistici adoperati; ed invece i tre attori indovinano e magari nobilitano i caratteri: Richard (il marito, Gigio Alberti) è spezzato, confuso, agitato ma anche insinuante e cerebrale, Rebecca (l'amante, Stefania Ugomari Di Blas) aggredisce, ma avvolge anche con armi ingenue ed esperte e resta sempre ambigua, e Laura Morante, la moglie, con grande sensibilità dona al personaggio il carattere della donna-che-contiene, l'archetipo di colei che riesce a mantenere le redini della famiglia, le mani ampie in cui far confluire colpa e sofferenza: come racconta nel finale, in quello che potrebbe essere un sogno rivelatore anziché il fatto accaduto, è colei che scopre un sentiero lastricato di ardesia da cui non vorrebbe più tornare indietro, su cui non v'era nulla di umano, al termine del quale scopre che si può passare il resto della vita a fingere l'amore.
Baciami.
Ti ho già baciato.
Allora, baciami di nuovo.
Come prendere un biscottino col tè, ma amaro. E così riappaiono infatti, dopo un tempo imprecisato, al costo però di un prosieguo tanto apparentemente normalizzato, quanto interiormente ancora più grigio.

martedì 15 gennaio 2013

Chiudi le orecchie e guardami



Non ho seguito la recente puntata di "Servizio Pubblico" alla quale il penultimo Presidente del Consiglio dei ministri italiano ha partecipato, e non voglio soffermarmi sugli aspetti con cui vedo invadere i mass media in un dibattito come sempre sovrastimato e sovraesposto, ma da qualche brano captato e dai resoconti ho notato che spesso l'attenzione è stata focalizzata su una lettera, la quale letta o non letta, ed a prescindere anche dal suo contenuto, rappresenta, mi pare, lo stesso aspetto e la stessa funzione di un famoso precedente "contratto con gli italiani"; potremmo definirlo un difetto della percezione, se non fosse che un difetto non è, formalmente poiché ogni cosa che si percepisce è reale in sé, mentre poi contestualizzata o letta nel suo universo allargato assume il senso di vero o falso, e solo in quanto tale possiamo attribuirle poi la qualità di “sbagliato”.
Tutto ciò mi ha fatto ricordare uno studio pubblicato nel numero di agosto2012 di Scientific American (lo trovate qui) che ricorda quanto di norma ci si trovi di fronte alla fallacia delle proprie sensazioni istintive, ma soprattutto quanto esse poi influenzino il nostro comportamento, spesso con la conseguenza di divenire una materia facilmente plasmabile da coloro che vi si dedicano per mestiere, con mezzi che consentono la manipolazione di massa in settori come la pubblicità o la politica.
Nulla di davvero nuovo, solo la dimostrazione di uno di questi meccanismi: aprire una scatoletta di metallo dovrebbe aiutare, se non a disvelare i segreti degli ingranaggi meccanici, quantomeno a rendersi conto del fatto che un carillon è fatto di cilindri, molle, lamelle e palette, ed anche se piuttosto che pensare alla sua meccanica si preferisce ascoltarne la musica, una boîte à musique è pur sempre un oggetto che risponde a sollecitazioni meccaniche, cosa non troppo dissimile da un altro oggetto chiamato cervello.
Lo studio di neozelandesi e canadesi mostra e dimostra dunque una di queste vere e proprie tecniche, che agisce sulla percezione del cosiddetto truthiness. Questo termine è un neologismo che il dizionario Merriam-Webster  ha scelto come "parola dell'anno 2006", ed indica “la qualità di ciò che appare vero nell'intuizione del soggetto... senza riguardo alla logica o all'evidenza fattuale.”
Fuor di vaghezza: il fattore-pancia, quella sensazione per la quale noi crediamo ad uno o ad un altro, nel corso ad esempio di un faccia a faccia elettorale; del resto, questa particolare dimostrazione è stata concepita proprio avendo come ispiratrice la politica, o meglio la credibilità dei candidati nel periodo elettorale, ed è stata pubblicata durante la campagna presidenziale americana, adattandosi perfettamente al rituale del face-to-face che lo scorso anno ha visto Barack Obama e Mitt Romney fronteggiarsi davanti alle telecamere.

Il dettaglio dunque è questo: la percezione di truthiness tende ad aumentare in modo assai sensibile, allorquando il discorso del candidato venga accompagnato da immagini e/o informazioni aggiuntive (una fotografia, soprattutto, ma anche una lettera, o un contratto...), sebbene queste non diano la benché minima prova a supporto della veridicità di quanto si sta affermando. Non fa specie pensare che se durante un discorso, appare un’immagine accanto a colui che parla, anche se non dimostra nulla, tanto basta per spingere il pubblico a credere in lui? Dovrebbe far sussultare, anche solo per l’aspetto della facilità, con la quale pensieri, credenze e comportamenti siano manipolabili, e per i mezzi, così apparentemente ingenui, quanto efficaci.
Eppure non si fa fatica a crederci. Ad esempio, potrei dire ora che mi sono inventato tutto, e che le immagini che ho messo qui affianco sono state scelte da me per indurre lo stesso meccanismo, ed a questo punto avrebbero, ne sono certo, fatto il loro bravo effetto induttivo per farvi credere a ciò che sto sostenendo… sarebbe bello, ma purtroppo non è così, e sono certo che in fondo nessuno, oltre ad una ritrosia del tutto personale nei confronti della propria capacità di discernimento, sarà seriamente in grado di credere che lo studio conduca in errore, seppure, come ogni caso di studio, vada naturalmente circoscritto o allargato secondo i criteri ed il target adottato.

Resta il dato dello stupore per la facilità con cui siamo mediamente indifesi nel percorso che da un’informazione arriva ai cosiddetti bias (gli errori sistematici), quando dobbiamo prendere una decisione. Nel caso delle immagini, potrebbe essere causato dal fatto che il cervello, nella sua consueta direzione di trovare elementi che supportino la veridicità dell'affermazione, ignora gli altri elementi che invece potrebbero dimostrarne la falsità. È una delle ipotesi, e la trovo fra le più credibili, in questo ed in altri comportamenti.
È perfino banale, se ci pensiamo, che un’immagine sia un potente supporto ad un concetto, e che basterebbe cambiarla con una che mostra il contrario, per suscitare il sospetto che esso sia assolutamente discutibile, ma serve soprattutto a ricordare che noi funzioniamo molto più come “reagenti” che come esseri in grado di analizzare scientemente e senza pregiudizi; ed è cosa particolarmente noiosa, l'idea di un mondo fatto di punte di metallo cui reagiscono le lamelle di tante, indistinte boîte à musique.