venerdì 22 febbraio 2013

A scuola dall'école

(pubblicato su www.teatro.org)

Nello scompartimento di un treno che proviene dall'inizio di un ‘900 di marca cinematografica quasi pre-Chabrol, il signor Arnolfo, alias signor del Ciocco/de La Souche, conversa con fare alterato con il suo interlocutore, e legge Le Figaro: Sin dall'inizio l'edizione della Scuola delle mogli allestita dallo Stabile di Genova concede la sorpresa di un ambiente di Molière che si preannuncia con toni diversi, sapientemente accentuati o sfumati: il Signor Arnolfo torna a casa, in una suggestiva e riuscita angolazione di un vicolo parigino, il Passage de la trinité, dove ha casa e bottega all'Orlogerie & Lunette di Chez Arnolphe.
Entriamo nel piccolo mondo borghese probabilmente simile (come tutti i mondi borghesi riescono ad essere in ogni epoca) a quello che rimase quasi scandalizzato, dopo la prima che Molière diede dello spettacolo, il 26 dicembre 1662 nel Teatro del Palais-Royal a Parigi: fine del teatro comico della divisione fra buoni e cattivi, dei trucchetti ed in buona parte dei cliché, ed ingresso di maschere con psicologie più complesse rispetto alla Commedia dell'Arte.

Ed a sua volta, Eros Pagni approfondisce il solco, mantenendo tesa una vena amara anche nella comicità dell'ispirazione, e trasforma sovente il riso in un moto interiore dell'animo che quando non si fa smorfia, crea sospensione emozionante, come nella magnifica scena del bacio in cui si sovrappongono due sentimenti del tutto opposti.
La storia racconta le note vicende pseudo amorose del signor del Ciocco, la cui unica preoccupazione è impedire in qualunque modo che sulla sua testa, una volta fatto il fatidico passo, spuntassero i due classici ed acuminati segni del tradimento, che per un ambientazione mentale e sociale come quella in cui vive rappresenta il massimo grado dell’intollerabile vergogna; suprema realizzazione di tale preoccupazione, è l’aver cresciuto sin da bambina Agnese (una bravissima Alice Arcuri) in una sorta di ottusa misconoscenza delle cose del mondo, tanto da ritenere di essersi perciò “fabbricato in casa” la moglie perfetta: idiota, incolta e servile. La summa di tanta dedizione alla causa è contenuta nelle famose dieci massime del matrimonio, ultima precauzione da far letteralmente studiare alla futura sposa, che tuttavia è ancora ignara di essere stata prescelta come consorte, se così si può dire, e che invece seguendo il corso della natura, cede inevitabilmente alle tentazioni di un giovane spasimante.
Le bellissime scene di Jean-Marc-Stehlé e Catherine Rankl si aprono e si richiudono sugli ambienti e sui sicuri appoggi verbali di un copione tradotto da Giovanni Raboni con una cura tale da lasciare inalterata l’eredità originale in versi, e tuttavia senza mancare della necessaria leggerezza.
Una bella prova complessiva della compagnia dello Stabile di Genova, che sfronda gli effetti comici e trova un distillato in cui travaglio e superficialità si compensano, e che perfino nell’improbabile finale -esso sì ancora erede della Commedia dell’Arte, con il suo Deus ex machina a risolvere l’inestricabile situazione che altrimenti avrebbe fatto vittime ben peggiori- si distende sia mantenendo la varietà di espressioni psicologiche di Arnolfo, sia gli accenti comici del momento conviviale, e fa ricordare ancor meglio che l’immediata critica che l'école des femmes ricevette a Versailles, perfino accusata di volgarità, probabilmente era il riflesso obbligatorio della reazione alle verità contenute, al disegno di un uomo che non sa o può accettare il suo viale del tramonto, e ad una commedia “nuova” che Molière seppe portare sul palcoscenico, nella quale mise finalmente in discussione l’ortodossia della separazione tra il serio ed il comico.

giovedì 14 febbraio 2013

Vecchi Quartieri

(pubblicato su www.teatro.org)

Sciopero del sesso contro la violenza: si presenta così il musical di Gianfranco Gallo “Quartieri spagnoli”, produzione del Teatro Trianon, apertamente ispirata alla Lisistrata di Aristofane, della quale eredita l'idea nel momento in cui le donne napoletane della camorra negano le proprie prestazioni sessuali ai loro uomini, allo scopo di non generare altri camorristi predestinati. Inoltre, l'operazione viene dedicata, anche con un espresso richiamo didascalico iniziale, ad una delle vittime innocenti della criminalità, Gianluca Cimminiello.

Tali sono le premesse e le promesse;quello che segue però non mantiene lo stesso tenore, spostandosi in maniera poco chiara su diversi livelli di proposizione.
Anzitutto, ci si sarebbe potuti spingere anche oltre, poiché Lisistrata ed il suo sciopero qui sarebbero perfino superati, idealmente, dal balzo in avanti offerto dalla volontà non già di porre fine ad un episodio di violenza o guerresco, bensì di creare le condizioni per un avvenire migliore per i propri figli, elemento di per sé sufficiente per elevare molto di più l'intera storia, accentuandone le punteggiature potenzialmente rivoluzionarie (fra gli altri, dagli stessi spunti aristofaneschi: “Se cediamo, se gli diamo il minimo appiglio, non ci sarà più un mestiere che queste, con la loro ostinazione, non riusciranno a fare. Costruiranno navi, vorranno combattere per mare […]. Se poi si mettono a cavalcare, è la fine dei cavalieri” – Lisistrata, vv. 671-676; ovvero “E noi, anche bevendo, ci siamo comportati saggiamente. È naturale, visto che quando siamo sobri ci comportiamo da stupidi”, vv. 1227-1228). La storia invece si snoda solo in maniera tradizionale, anche lungamente, non discostandosi mai da quegli stessi canoni pericolosamente confinanti con il bersaglio che vorrebbe invece colpire.
La galleria di personaggi va da Tonino ‘o tedesco al neomelodico Ciro California, all'impresario Franchetiello Palermo alle varie donne dei malavitosi (ed appunto esse esistono in quanto tali): detto che la prova più convincente va ascritta ad Andrea Sannino nei panni di Ciciniello, tutti loro alternano la presenza scenica con una certa capacità di mantenere il ritmo necessario alle cadenze scelte dalla narrazione, in una storia che vede la guerra fra clan calarsi nella contemporaneità dei cantanti neomelodici (per motivi di rivalità, il pessimo Ciro California non viene invitato -come invece pressoché tutti gli altri suoi colleghi- ad esibirsi al matrimonio di Ciciniello), il tutto in un contesto di trovate conservatrici, con interpunzioni musicali che si alternano fra canzoni originali dello stesso Gallo e canzoni classiche napoletane non sempre inserite nel contesto, da Canzone appassionata, a Lacreme napulitane ed Indifferentemente.
Ci troviamo di fronte al risultato di aver cercato di unificare una sorta di drammaturgia del disagio con elementi propri del musical, della commedia e della tragedia, della sceneggiata e del cabaret, della farsa e dello spettacolo leggero, con una struttura di cui si può apprezzare lo sforzo della costruzione, e che vorrebbe sfuggire per principio alle definizioni; cosa che avviene, sebbene si ravvisi fondamentalmente l'ededità dei canoni di una sorta di commedia/sceneggiata come le modalità più sicure cui poggiare il dipanarsi del drammone, di cui residua la scarsa credibilità complessiva delle parti in cui le donne si rivoltano, gli uomini si pentono, e soprattutto un finale classico ('o malamente che al matrimonio del redento fa la sua entrée, gli spara ma uccide il fratellino che generosamente gli fa da scudo) che non solo ne rilegge i canoni, ma non fa capire nemmeno abbastanza da che parte, e con quale sguardo li sta osservando.

giovedì 7 febbraio 2013

Perenne Peròn

(pubblicato su www.teatro.org)

La scena disegna quasi un camerino di avanspettacolo, per quello che dovrebbe essere lo spogliatoio di Maria Eva Duarte de Perón, al secolo Evita, il personaggio che nella storia dell'Argentina è entrato di diritto nella leggenda, seconda moglie del Presidente Peròn e -epiteto perfino ufficiale- guida spirituale del popolo: il monologo di Arnolfo Petri si snoda in un'alternanza fra memories di solennità e bassezze in forma di linguaggio che tende all'osceno e che non salva nessuno, dalla famiglia allo stesso cancro che la divora, bersagliando con particolare disprezzo sia la madre, sia Fanny Jacovkis, meglio conosciuta come Fanny Edelman, storica compagna di vita politica.

La narrazione di un giorno di ordinaria follia e disperazione scorre come come se la regia avesse alzato sul mixer tutti i livelli degli eccessi, in ogni idea che passa per la mente di Evita e che voglia raccontare, in un giorno in cui campeggia la parata del Presidente Truman a Buenos Aires, e non risparmiando la memoria di alcuno, una ricostruzione del lato nascosto di ogni attimo entrato invece in senso opposto nella storia e nella leggenda.
Evita risalta soprattutto come l'emblema della persona che nasce dal nulla, ovvero dall'esperienza dei descamisados che hanno distrutto il potere dell'oligarchia con la forza delle idee, per essere però poi distrutta ella stessa, e proprio dalle stesse cose contro cui aveva combattuto: le persone intorno a lei comprano tutto dopo che lei aveva comprato tutto, in una metafora del potere che è anche religioso ed affaristico. Un atto di accusa verso il potere e tutto ciò che vi gira intorno, divorando affetti, relazioni, dignità.

L'ispirazione della regia ripercorre il testo di Raul Damona del 1969, gli anni degli artisti argentini del gruppo "Tse" emigrati a Parigi, un lavoro che egli stesso portò in scena e che viene affrontato in modo così esasperato da andare ben oltre il personaggio, portando a considerare che se si può riproporre Evita così, allora forse significa che si può ripensare chiunque, in termini di rilettura degli sconfitti (e la donna ne era icona sovrana), i quali in quanto perdenti, detto senza alcun riferimento a pregiudizi, buone intenzioni e perfino percorsi di vita da idolatria quasi messianica, in realtà odiano se stessi in forma di autolesionismo, aggredendo e ferendo con ferocia sé ed il resto del mondo. Forse per questo se ne rilegge anche la morte: Evita entrò in coma e morì dopo otto giorni, a 33 anni, il 26 luglio 1952; nella drammaturgia ruvida ed aggressiva, la sua fine diventa il suicidio della paziente E. P., affetta da sindrome schizoide depressiva.