Quarantuno anni a calpestare le assi dei
palcoscenici di oltre sessanta nazioni, senza che si ascoltasse durante i loro
spettacoli altro che i suoni emessi dalle cose e dal caso, ovvero dalle
occasionali ma studiate reazioni di bambini ed adulti rispetto a ciò che stanno
guardando.

La scelta dei Mummenschanz (un nome traducibile con “mascherata”) è sempre stata quella di una stretta fedeltà ad alcuni principi come appunto la scelta della materia umanizzata, e l'assenza di parole, musica e scena: in una parola, di essenza. Ma l'essenza può essere essa stessa materia da plasmare, ed in questo caso dietro c'è come sostegno anche una vera poesia della lentezza (ogni azione prende il suo tempo senza scorciatoie, e viene vissuta anche nel suo divenire) ed una forma di intelligenza tranquilla che precedette, a modo suo, alcuni discendenti assai più artisticamente ingombranti come il Cirque du Soleil o esuberanti come il Blue Man Group.
Se leggessimo una recensione del New
York Times del 1977, potremmo pensare che stia riportando la cronaca di buona
parte di quanto visto anche oggi, e questo da un lato fornisce una chiave di
continuità che è da leggere come adesione ad un'idea che diviene ideale, e
dall'altro lascia in coloro che hanno già assistito alle loro performance un
senso di ricerca della novità non del tutto soddisfatto: ma l'aspetto più
interessante, è che negli ultimi quarant'anni ad essere molto cambiato è
l'elemento che sta al di qua del palcoscenico, ovvero il pubblico, e così anche
le sue abitudini, che hanno fatto perdere del tutto il senso del silenzio e
dell'attenzione ad elementi come il linguaggio non verbale, sommersi come siamo
dall'entropia delle parole parlate; non è poco, sapersi ritrovare e saper
rimanere sorpresi e sorridenti anche in un'atmosfera low-tech, accorgendosi di
quanto essa sia inaspettatamente energizzante.
