venerdì 26 dicembre 2014

Living Theatre e Odin Teatret, nella narrazione di Piergiorgio Giacchè a Perugia

Nato nel 1985, il Teatro di Sacco si occupa di produzione e formazione teatrale in uno spazio teatrale nel centro di Perugia, la sala Cutu, con proposte sperimentali e spesso innovative: parallelamente alla stagione ufficiale, il Teatro di Sacco ha organizzato alcuni incontri definiti Effetti Collaterali, in cui artisti, docenti ed operatori culturali offrono il racconto del loro spettacolo o del loro autore più significativo. Il 18 dicembre, l’Antropologo teatrale Piergiorgio Giacchè ci ha raccontato la sua versione del Living Theatre e dell’Odin Teatret, fornendo numerosi spunti di vita vissuta, prima ancora che teorici e didattici, essendo stato un protagonista partecipante in prima persona alle due realtà. Nel diario di Julian Beck c’è anche un frammento scritto proprio a Perugia, dove il Living rimase più di quindici giorni, da prendere come spunto per un racconto rivelatosi originale e narrato con emozionanti riflessi reminiscenti che assolvono, ad un livello ulteriore, ad una funzione mnemonica che contribuisce al senso stesso di ciò che verrà raccontato del Living e dell’Odin.

La storia ricordata da Giacchè è quella di un periodo in cui si avvertiva la paura di una rivoluzione il cui fronte sessuale era ancora più importante di quello politico, e dalla quale i giovani si sentivano attratti anzitutto per l’azzardo interiore; il Living “si ingrossava camminando, la gente si aggregava via via nei paesi in cui passava, finché è scomparso così come era apparso. [...] Tornò in Italia nel 1977, ma non c’era Rufus (Collins, n.d.r.) ed era tutto diverso, perché oltretutto anche gli spettatori invecchiano, davanti ad una enfasi che oggi sembra eccessiva, se non fosse che è semplicemente incomprensibile”. Il Living insomma era una manifestazione che doveva far parte di una più grande Rivoluzione culturale, ma la cosa realmente drammatica fu che anche lo spettatore, doveva farne parte.

"Grazie all’Odin invece ho imparato il lavoro: chi lo vedeva doveva per forza viverlo, e grazie all’Odin si è capito che il Living era un lavoro e non una manifestazione, una Pasqua piuttosto che una Epifania. [...] Si dice che prima deve venire poi la passione, e poi il lavoro, quindi nasce l’eccellenza: la realtà è che invece solo qualche livello di alta professionalità tocca la passione, e non il contrario.” L’Odin teatret va in giro di gruppo in gruppo, come un arcipelago in cui Eugenio Barbavedeva muoversi “l’ammiraglia dell’Odin, l’isola galleggiante fra la terraferma dove opera e l’isola in cui si ritrova ed effettua la sua sfibrante ricerca del Teatro”. Era un gruppo di persone “bocciate dall’Accademia, e non erano avanguardia, ma retroguardia, anzi il Castello di una Retroguardia che ha il compito di resistere e proteggere la fuga, cercando di salvare la differenza del teatro, sigillare l’autonomia che serve a dare corpo alla differenza dai mass-media, mantenere la presenza in carne ed ossa e la relazione con il pubblico, difendere l’alterità.

E proprio quest’anno, il 22 giugno si è celebrato una sorta di funerale dell’Odin, che nonostante il suo diremmo ottimo stato di salute ha messo in scena il suo seppellimento nel parco Lystanlaeg di Holstebro in Danimarca, città in cui è stata fondata la Compagnia, tra una grande prato ed un lago con la zattera-emblema dell’Odin. Cinquecento fedelissimi con non meno di 25 anni di conoscenza con il gruppo (le isole dell’arcipelago, appunto, dai brasiliani Yins Piracao e Ilè Omolù agli italiani La Casa di Pulcinella e Teatro Potlach, dai balinesi Seni Tri Suari agli indiani Parvathy Baul), hanno assistito ad un intreccio performativo in cui si sono manifestati echi dei loro lavori storici (Ornitofilene, Kaspariana, il Libro delle danze, il Milione, Min Far Hus, Mitos, Il Vangelo di Oxyrincus, Come! And the day will be ours, Le ceneri di Brecht...), finché durante il secondo movimento (Clear Enigma), i 50 anni della Compagnia si sono risolti nella autoproduzione della propria tomba, con gli attori vestiti con i loro abiti antichi indossati negli anni (compresi i pigiami del finale de Il sogno di Andersen, penultimo loro spettacolo), sopra una montagna franosa che sbriciolava insieme a costumi ed arredi, mentre piccoli danzatori balinesi mettevano i resti su un nastro che li gettava in una buca, coperta poi dalla terra e sormontata successivamente da altalene sulle quali giocavano i bambini: il sogno di quella rigenerazione che per Barba era pedagogico, tendeva a ricominciare la tradizione, al contrario di quello prettamente politico del Living.

Pur trovando una continuità nelle fasi storiche ed artistiche, la differenza fondamentale forse allora risiede nella circostanza che l’avanguardia rivoluzionaria del Living voleva fare del teatro un’alternativa e cambiare il mondo, mentre il rivoltoso Odin voleva salvare il teatro con uno slogan che sarebbe potuto essere “siamo in glaciazione, salviamo i licheni!”, rimanendo entrambi nel chiaro spazio dell’utopia, quella destinata a pensare con la memoria del futuro.

mercoledì 6 agosto 2014

Teatro a Corte #5: Poesia e tecnologia, il viaggio dei Système Castafiore per tornare alla Natura

(Leggilo su www.teatro.it)

Autunno 2813. Gli esseri umani hanno lasciato la terra per abitare un luogo formato da elementi urbani le cui fondamenta sono tante tour Eiffel capovolte, un ambiente che mette insieme le ombre di Blade Runner, la visione di Magritte e l'apologia della Natura di Avatar. Siamo a Tarkovgrad, città sospesa in cui si muovono tre post-umani ed un bambino malato di qualcosa di non diagnosticabile. I dialoghi sono serrati e si accavallano in una lingua inesistente formata da sole radici, memori di eredità slave, francofone ed anglosassoni insieme, e l'azione è concepita come una successione molto veloce (a volte anche troppo) di quadri, tableaux descritti con precisione e costruiti ispirandosi al cosiddetto 4D, che combina le caratteristiche del cinema in 3D con gli effetti fisici in sala, sullo sfondo di proiezioni in realtà virtuale particolarmente curate.

Per trovare una cura adatta al figlio Nitsch, i due protagonisti devono attraversare un universo postmoderno fino ai suoi pericolosi confini, e passare attraverso 9 ambienti con un percorso che ricorda l'antichissimo (ed anche un po' abusato) rito iniziatico che conduce alla verità, un luogo al termine del quale troveranno che la fine è nel principio, e la soluzione-panacea anche per il fisico malato di Nitsch sta in un indistinto quanto potente ritorno alla Natura.
Stand Alone Zone, l'opera della compagnia Système Castafiore per la cui grande abilità tecnica meritano una citazione tutti i curatori degli elementi coinvolti, dalla scenografie di Jean-Luc Tourné alle luci di Yann Le Meignen, dalle coreografie di Marcia Barcellos ai costumi di Christian Burle, in scena come ultima rappresentazione di Teatro a Corteal teatro Astra, ha un pregio davvero particolare nella sua resa complessiva, che spesso lascia lo spettatore incantato davanti a scene come il guardiano della prima porta Tronkhaton, la navigazione del pescatore, il combattimento fra ciechi, la discesa sotterranea che produce una trasposizione di prospettiva dell'intera scena (attori compresi) di 45° e dall'effetto sorprendente, e soprattutto l'accurata riproduzione dal vivo dell'effetto 3D di un animale solitario. Una padronanza della tecnica tale, da chiedersi perché la regia non si sia soffermata su alcuni tratti che avrebbero consentito una linea drammaturgica più definita, mentre invece a volte viene gestita troppo velocemente (ed il cambiamento di scena è azione che oltretutto in sé inevitabilmente occupa il suo necessario tempo), così come l'aver posto alla fine del percorso di salvezza un elemento orientaleggiante ha un retrogusto di scorciatoia.

Negli occhi e nel piacere della percezione globale però, restano le gesta avveniristiche di Marcia Barcellos, Sylvère Lamotte, Cédric Lequileuc e Sara Pasquier, che diretti da Karl Biscuit fanno vivere una fiaba che sembra ripercorrere la sontuosità del film di James Cameron, in cui mondi paralleli, mutanti, civiltà altrove e segmenti ancestrali formano un quadro poetico e coraggioso dal livello tecnico assolutamente fuori dal comune, chiusa da un finale delicatissimo in cui la leggerezza dell'armonia ritrovata coinvolge ogni cosa, fino a far volare pensieri ed oggetti intorno alla guarigione del bambino ritrovato.

martedì 5 agosto 2014

Teatro a Corte #4: Les Apostrophés a Racconigi, dalle cicogne allo scalogno

(Leggilo su www.teatro.it)

C'è una fisarmonica che ci aspetta, sul prato antistante la dacia costruita in occasione della visita dello Zar Nicola II al castello di Racconigi nel 1909. Ma prima ancora di entrare, sono le cicogne, con le loro nidificazioni nei grandi vasi che ornano l'attico della dimora sabauda, a parlare dell'eleganza di un sito dal quale spesso non vanno via nemmeno durante la migrazione; e se un luogo sa diventare habitat di elezione per loro sa anche promettere le condizioni migliori per godere nei suoi giardini di uno spettacolo di Teatro a Corte.

Il resto, tocca alla fisarmonica che ci aspetta, e che fa disporre intorno ed in terra il pubblico, per dare il via ai 70 minuti diPassage Désemboîté, il lavoro portato al Festival da Les Apostrophés, la compagnia creata dal giocoliere e circense Martin Schwietzke nel 1997 insieme col musicista Jérôme Tchouhadjian. La loro proposta spazia dal teatro di strada al circo contemporaneo, sono giocolieri e mimi, dai ritmi accesi e dai giochi di incastri degli oggetti e di se stessi, sovente per le strade o in grandi teatri, ma questa volta e per fortuna, con un progetto in situ che di certo avrà favorito i momenti di improvvisazione.

Il fisarmonicista si fa seguire, dunque, come un pifferaio, conducendo l'onda itinerante delle persone attraverso la musica, fra le scene, di prato in prato, in un'atmosfera d'antan in cui si susseguono 9 quadri che si potrebbero delineare attraverso gli oggetti di scena: le  scatole di cartone, la baguette, la scopa, il caffè, il cappello ed i bastoni telescopici, il cesto con il sacchetto di scalogno, il bastone da passeggio con il libro di fiabe, il movimento che potremmo definire un "pas de deux avec baguette", e le giacche. Ogni quadro, una performance, e diciamo subito che fra tutti i deliziosi equilibrismi e trovate, divertenti e di una leggerezza anch'essa mantenuta sempre in equilibrio con l'energia spesa, le due scene del cesto e della baguette a due sono stati senza dubbio i momenti più sensazionali.

La tradizione dell'arte di strada, in Francia, è ormai considerata e consequenzialmente gestita come una fra le più alte forme drammaturgiche, il che ha veicolato anche ingenti risorse per sviluppare il settore e creato forme stabili e festival dedicati, dalla Citè des Arts de La Rue a Marseille agli eventi di Chalon ed Aurillac; ebbene, vedere Les Apostrophés seduti al tavolino del bar a bere un caffè, e la destrezza con cui, con una semplice tazzina ed un cucchiaino, inventano ritmi e mosse inusitate, provocano risate ed ammirazione, dà l'esatta dimensione di un percorso che ha già radici solide, che sa esprimersi con un linguaggio di scena preciso e coinvolgente, e che nel merito del racconto, come ben sottolineato nelle note, ha il senso di una vera “dichiarazione di guerra alla routine”.

Teatro a Corte #3: "Cinema per gli occhi", a l'Ombre des Ondes si sogna ad occhi aperti, o quasi

(Leggilo su www.teatro.it)

Sedie a sdraio disposte a formare margherite, nel bel cortile del Maglio, a sud del complesso architettonico dell’ex Arsenale cinquecentesco di Borgo Dora a Torino, nella piazza centrale compresa fra quattro maniche perimetrali, con al centro il grande maglio che domina la scena del cortile coperto, sostenuto da alberi metallici inclinati. È il sistema scelto da Kristoff K.Roll per la performance A l’Ombre des Ondes, una “siesta scenica” che i francesi Carole Rieussec e J-Kristoff Camps adottano per i loro labirinti di teatro sonoro e composizioni elettroacustiche, costruiti, come si legge nelle note, per intersecare “tre stimoli diversi: quello del paesaggio in cui è immerso che finalmente può osservare nei dettagli; quello dei rumori che vengono catturati in diretta e rielaborati in forma di “drammaturgia sonora istantanea”; e infine l’ultimo, quello dei sogni raccontati prima da altri spettatori agli artisti i quali hanno frammentato e rielaborato le voci secondo percorsi di ascolto individuali, uno differente dall’altro, per ciascun partecipante alla siesta.

Dapprima J-Kristoff, ed alla fine Carole, entrano nel campo visivo degli spettatori che ancora hanno gli occhi aperti, cominciando col battere il martelletto sui piloni di acciaio, entrando fra la gente nei locali, sfiorando la terra percependone i passi, ed i rumori si accavallano senza senso apparente, perché probabilmente il senso non va ricercato nella capacità della nostra mente di elaborare gli input sonori, bensì nell'esserci un ascolto universale e privilegiato, come un punto di captazione dell'essere delle cose che in sé conferisce potere, possibilità, o anche solo passività.
In cuffia, comincia il racconto di alcuni stati onirici, come il saltare da un'ombra all'altra portando con sé una bambina mentre le ombre rimpiccioliscono, una nonna che torna dopo la morte a disegnare con la nipote, una bambina che legge ad alta voce ed un uomo che nessuno sente quando chiede aiuto (gli altri non hanno buchi nelle orecchie e stanno solo al telefono), un aiuto che ottiene solo da alcuni cani che lo aiutano a librarsi in un volo nel cielo giallo fino ad un tunnel, e così via. Il tutto intervallato da elaborazioni acustiche di passi, voci, acqua e anelli, mentre la musica si diffonde come un'onda dopo aver gettato un sasso in uno stagno. E come occasionale quanto adatto condimento, il battito della pioggia sulla copertura del cortile, dovuto al temporale perfetto della serata.

Un progetto in situ, già molto ben accolto ad Avignone, in cui l'assenza di qualsivoglia elemento drammaturgico o anche soltanto consequenziale lascia la mente dei siesteurs sgombra di riferimenti, ovvero una predisposizione opposta rispetto a quella dell'attesa di un evento teatrale, una modalità per cui non si fa fatica a comprendere anche la difficoltà di taluni a ritrovarsi d'emblée su di una tavola da surf acustico ed esperienziale che porta fuori dall'intera quotidianità, pilotata dai due autori che giocano sul passaggio tra la vista e l'udito.

lunedì 4 agosto 2014

Teatro a Corte #2: A Dance Tribute to the Art of Football: lo sport che valica la platea

(Leggilo su www.teatro.it)

Non è la prima volta che in questa estate meteorologicamente strana dei Festival italiani, accade che si debba correre letteralmente “ai ripari”, e ricollocare a poche ore dalla programmazione uno spettacolo in una location diversa da quella prevista, a causa della pioggia attesa e puntuale. Se da un lato, dunque, in questo ultimo weekend di Teatro a Corte, si è dovuto rinunciare al piacere di ritrovarsi a Venaria Reale per A Dance Tribute to the Art of Football della norvegese Jo Strømgren Kompani, dall'altro si può dire di aver sperimentato piacevolmente un'atmosfera agostana particolarmente fresca ed inattesa, oltre che la precisione e la professionalità nel riuscire in poche ore a riallestire una scena in condizioni del tutto diverse, ed in un teatro piuttosto che negli spazi della Reggia.

Dall'esordio di questo spettacolo, di recente rinnovato, sono passati già 16 anni ed un notevole successo di tournée; i quattro danzatori (Jean Nicolai Wesnes, Mikkel Are Olsenlund, Caisa Strømmen Røstad, Sverre Magnus Heidenberg) impersonificano con la loro danza uno degli sport più amati al mondo, affrontandone con realistica minuzia soprattutto alcuni aspetti (oltre ai momenti tecnici come quelli dell'allenamento e dell'agonismo) su cui si concentra l'attenzione di gesti ed espressioni: la ritualistica, il tifo e la crescente estetizzazione cui va soggetto questo ambiente negli ultimi anni.

I danzatori non trascurano di lasciare segni propri dell'unione fra danza e teatro che via via hanno messo a punto, occupando anche la scena con il disegno di gesso delle linee del campo, correndo e provocando scontri e simulazioni e fino alla doccia di fine partita, un momento classicamente “maschio” che viene violato dalla scoperta che uno di loro è una donna, come del resto era sempre stato ben comprensibile durante le fasi coreutiche. Uno degli aspetti che colpisce, è che viene disegnato un mondo fatto soprattutto di primedonne e gregari, nel quale manca completamente il totem del gioco di squadra: i quattro conservano sempre il tratto del proprio personaggio che non solo è distinto, ma anzi viene contrapposto quasi sempre al suo compagno e/o avversario; di altrettanto interesse è che durante il paesaggio sonoro di Lars Årdal, che dai rumori dei tacchetti spazia all'heavy metal ed alle urla degli hooligans, ci si sposti lungamente sull'aria Come un bel dì di maggio da Andrea Chénier di Luigi Illica e su Una furtiva lacrima, da L'elisir d'amore di Gaetano Donizetti, una scelta che potrebbe suggerire approfondimenti, prontamente smontati quando la si legge nel tratteggio del quadro generale di superficialità ambientale, di certo meritato, che fa il pari con l'essere sempre molto pronti a sfondare il confine della volgarità e della rozzezza ad imitazione dei protagonisti veri del calcio, alquanto scontata e con gesti ed atteggiamenti fra l'ironico e l'immaginario pseudovirile collettivo.

In Mehr guten Sport, Brecht si chiedeva perché il teatro e lo sport non producessero gli stessi effetti nel pubblico, dal momento che hanno il loro fulcro su elementi comuni come la performance, l'enfasi sulle virtù tecniche dei protagonisti e la vicinanza con gli spettatori: oltre alla mancanza del carattere nel pubblico, che lo mantiene separato dalla realtà del vissuto agonistico, una delle risposte che colse viene riprodotta dalla compagnia norvegese nel momento in cui simula ciò che sembra interpretare concretamente, ovvero il coinvolgimento della platea nei cori e nel tifo da stadio, punto focale per la stessa importanza che il calcio assume nella società, creando anche quell'effetto di straniamento (Verfremdungseffekt) per la circostanza di sapere tutti di essere non dei fan, non nella bolgia di un catino urlante, ma al sicuro nel proprio posto a teatro.

Fra i momenti più riusciti della performance, senz'altro i tableaux delle fasi di gioco che appaiono e scompaiono nel lights design di Stephen Rolfe (sebbene a volte poco realistici, nel delineamento dell'azione rappresentata), e soprattutto le fasi della slow motion, riprodotte con grande cura dei dettagli espressivi.

sabato 2 agosto 2014

Teatro a Corte #1: Katastrophe, dalla Natura all'uomo tutto cambia

(Leggilo su www.teatro.it)

Visual theatre, contaminazioni di danza e tecnologie interattive in scena e in video, invenzioni di microracconti che intersecano tematiche ampie ed attuali: a Teatro a Corte, il Festival internazionale diretto da Beppe Navello e portato nel contesto affascinante delle più belle dimore sabaude del Piemonte, fa irruzione l'Agrupación Señor Serrano, una firma che negli ultimi sei anni si è già fatta conoscere per otto spettacoli originali, e che al teatro Astra di Torino, nella prima nazionale che precede la loro presenza alla Biennale di Venezia, ha portato venerdì 1 agosto Katastrophe, una visione sorprendentemente delicata quanto potente sul capovolgimento delle condizioni (katà-strepho) che portano alle soglie, ed oltre, delle catastrofi che si abbattono sugli esseri umani. Con una discriminante fondamentale, che è la chiave per accedere al senso della loro rappresentazione: la differenza sensibile fra quelle causate dalla Natura, e quelle la cui matrice è invece del tutto umana, e troppo umana.

La costruzione della scena è un lavoro artigianale paziente e sapiente affidata ad elementi minimali che hanno al centro la vita di orsacchiotti di gelatina, una quantità industriale di piccoli esseri colorati che abitano una valle che mostra la sua forza creativa e distruttrice insieme, in armonia con la vita che sopra le macerie essi sempre ricostruiscono, sulle stratificazioni con cui continuano a rinascere, e descritta da quadri didascalici che conducono fino a lontani echi di strutture sociali egualitarie, vagamente socialiste ed antropologicamente rilevanti. Non è un caso che fra invenzioni chimiche e coinvolgenti effetti costantemente riprodotti sul video proiettato in diretta e trasformato in realtà addizionata, la prima delle catastrofi non naturali abbia inizio nel momento in cui sullo scacchiere della civilizzazione si posa una stazione di servizio, con il suo oro nero percolante a diffondere il nuovo verbo dell'inquinamento.

I performers (Àlex Serrano, Diego Anido, Martí Sanchez e Pau Palacios) si incatenano spesso ad una musica elettrodance, indossano quasi sempre una maschera da orsacchiotto con cui già si aggirano fra gli spettatori prima dell'inizio dello spettacolo, e creano in scena riflessi favolistici con materie apparentemente semplici, ricordando quanto sia importante nell'arte offrire un percorso chiaramente intellegibile sotto cui si nasconde invece una notevole complessità: bellissimo è il firmamento creato partendo da una pallina da ping pong sostenuta in aria da un phon, e coinvolgente lo spostamento della scena traslata facendosi seguire da una telecamera dietro le quinte e fin sopra il tetto, con una trovata scenotecnica che conduce infine ad una evocazione dell'11 settembre e dei suoi traumi. È qui che giunge il clou, riducibile alla ben nota sentenza universalistica "tutto per colpa degli altri": con una sequenza di playback che unisce discorsi veri e ridicolizzati, da Bush ad Ahmadinejad, Putin, Sharon ed Hitler, le parole e le posizioni (e non da ultimi gli atteggiamenti del loro linguaggio non verbale) sono quelle con cui essi, simboli del potere, a volte cercano di affermarsi contro Natura, altre invece tentano di impersonificarne la Forza per giustificarsi, e tutti loro son solo orsetti che preparano l'autodistruzione.

Una costruzione minuta quanto precisa, che riesce ad essere perfino commovente, nel momento in cui gli orsetti muoiono per l'ultima volta, squagliandosi inesorabilmente e cadendo uno ad uno come spegnendosi su se stessi, una soluzione che da sola offre la differenza fra una Katastrophe naturale ed una artificiale, ovvero la tristezza con cui si affronta la morte: mentre nelle catastrofi naturali la vita riprende e fa parte del disegno della Natura, lasciando che vi si possa anche partecipare, in quelle causate dall'impronta della mano umana si può solo patire il senso dell'assurdità del male autoinferto.
In margine alla scena agita, interesse particolare merita il teatro Astra, esempio prezioso di architettura reinventata, da cinema del 1930 a teatro sventrato di cui si ammirano segni costruttivi tramutati in memorie artistiche, e sede dell'attenta organizzazione del Festival organizzato dalla Fondazione Teatro Piemonte Europa.


lunedì 23 giugno 2014

Speciale NTFI 2014: good people, difficult people

Uno sguardo potenzialmente verista dall'interno delle stanze disadorne sul divario tra quella che una volta si sarebbe detta classe operaia e coloro che pur provenendo dalla stessa estrazione sociale, hanno “fatto fortuna”, sono riusciti a distaccarsene ed a passare così dal Southie, una periferia-tipo di Boston, a Chestnut Hill, altrettanto tipico quartiere-bene. Non altrettanto facile però è il distaco mentale, o addirittura, come in questo caso, la sedimentazione indolore delle scorie e delle eredità del passato, nè l'adattamento al presente che sebbene si posizioni apparentemente ben oltre il livello-parvenue, tuttavia non raggiunge una nobiltà di sentimento priva dei germi con cui nacque distorta.
Il drammaturgo statunitense David Lindsay-Abaire, autore della celebre Fuddy Meers e premio Pulitzer per il teatro nel 2007 con il dramma Rabbit Hole, con Good People (qui riadattato da Roberto Andò) racconta sia la vita grama della ricerca del lavoro, della periferia sempre a rischio di diventare violenta, sia l'aspetto psicologico del ritrovarsi che coinvolge due persone dopo oltre 30 anni, e di conseguenza l'incontro/scontro fra Margie (Michela Cescon), rimasta a soggiacere alle miserie della banlieu, con una vita non sprecata ma dedicata a portare avanti se stessa e la figlia che (forse per parto prematuro, o forse no...) convive con un grave handicap, e Mike (Luca Lazzareschi), che ha invece da raccontare la storia di chi è riuscito nella vita, diventando un medico affermato, con una grande casa ed ogni benefit materiale e finanche morale che nel Southie i cittadini della cosiddetta “Bah-ston” possono solo sognare.

In una scenografia adeguatamente realistica di Gianni Carluccio, la seconda parte dello spettacolo si fa preferire alla prima, soprattutto quando si accendono i toni e si offre più materia viva allo scontro frontale fra i due destini, oppure nelle parti sospese che Maggie trasforma in comiche, mentre purtroppo per la maggior parte della pièce, la catterizzazione della protagonista si avverte come inefficace, essendo sottoposta ad una gestualità di un sobborgo da clichè di sitcom, insieme con una ossessività del ritmo, dei toni e degli accenti forzati e sforzati che rendono il suo personaggio monocorde come un telefilm anni '80, troppo difficile da accettare soprattutto dopo aver visto la Margie-tipo che Frances McDormand nel 2011 ha fatto vivere a Broadway. Anche Mike è più a suo agio in divenire e nell'elevazione dei toni drammatici, quando cioè si riflettono solo in lontananza le tracce della sua appartenenza ad entrambe le classi sociali, mentre la cinica Dotti (Loredana Solfizi) svolge il suo compito assieme a Roberta Sferzi (Jean), che fanno da grilli sparlanti ed a tratti da contraltare narrante, e Nicola Nocella porge un giustamente sperduto ed irritabile ex-datore di lavoro.
La sensazione è che non abbia molta importanza capire se i fatti vadano infine in un certo modo o piuttosto in un altro, suggeriti o meno dalle mezze parole, dagli ammiccamenti e dalle azioni: quello che conta, è che bisogna fare attenzione a non parteggiare per la facile sponda pauperistica di Margie, sembra questo il sottaciuto suggerimento, grazie all'assenza formale di un effetto ad captandam benevolentiam che compare in un paio di dialoghi, e che viene sottolineato anche e perfino da quel simbolo più alto della borghesia affermata che è la moglie di Mike (una Esther Elisha molto decisa e ciononostante l'unica a mostrare due incertezze evidenti): perchè good people, a modo loro, sono entrambi le parti in causa, brava gente, convinta di esserlo stata, gente che fa delle scelte, ed il difficile sindacato su di esse è la parte migliore della scrittura di Lindsay-Abaire, senza la quale si sarebbe limitata ad un acquarello scontato e privo del clinàmen con cui far scontrare gli atomi della storia.

giovedì 19 giugno 2014

Speciale NTFI 2014: Addio alla fine, e addio al fine

Interessante l'idea che accoglie il principo di questo cammino sia fisico, sia astratto: Addio alla fine si traduce nel lasciare dietro la porta che a breve si valicherà, ogni idea caduca della grande Soglia da varcare, andiamo oltre la morte e tutto ciò che pesa nella sua immanenza terrena, liberiamoci dei suoi fili che muovono le membra e le idee, e ritroviamoci in uno spazio oltre.
Il Virgilio (Leandro Amato, sul testo di di Bo Tarenskeen) che conduce il pubblico verso l'ingresso di questo spazio, accoglie tutti ben prima dell'inizio, e questo movimento dovrebbe servire anche ad allungare in maniera sensibile la curva del climax, quando ancora non si percepisce l'inizio ma già ci si sente dentro qualcosa che sta avvenendo: la Guida sfoggia una coloratissima giacca circense, ed alternando i toni che si elevano fin quasi al parossismo (ed insieme con i ballerini giunti da chissà dove con un'urna cineraria nelle mani a fare anch'essi da accompagnatori) introduce nel capannone del Museo nazionale ferroviario di Pietrarsa, dove si trova l'allestimento che ospita la coreografia di Emio Greco e Peter C. Scholten, una proposizione scenografica di una certa efficacia (soprattutto grazie al perimetro della location) che vede il pubblico diffuso lungo i lati di una pedana di 30 metri, preceduta da installazioni con abiti bianchi e neri e carte raggomitolate, mentre sul fondo, dove siede spesso il nostro Virgilio, una scala separa la danza dal concetto, ed il movimento dalla parola.

E proprio questa della separazione, tuttavia, rimane la nota meno riuscita, per il semplice fatto che esiste, e che resta netta fino alla fine, come una linea demarcata: da qua, la coscienza ed il suo scorrimento che sembra quasi godere di un'ardua intellegibilità, una dimensione nella quale si rievocano utopie sociali nelle citazioni di Hans Boutellier (The improvising society) e visioni ispirate all'abusato “E la nave va” di Federico Fellini; mentre di là, le dinamiche di puro scoppio, crudo e spesso ripetitivo, i vigorosi tratteggi di spirali e linee continue dei sei ballerini Dereck Cayla, Quentin Dehaye, Emio Greco, Neda Hadji-Mirzaei, Kelly Hirina, Arnaud Macquet, ed Helena Volkov, che creano su musiche di Šostakovič, Ives ed altre rielaborate da Scholten, un sentiero coreutico a volte fiammeggiante, altre introspettivo, con anfratti sublimati che restano separati fisicamente, grazie anche alla disposizione in estrema lunghezza della scena ed al disegno delle luci di Henk Danner e Paul Beumer; e va anche rimarcato che la vicinanza, fisica e non solo, con le bellissime performance della Vertigo Dance Company, non aiutano certo ad una migliore disposizione verso il risultato.
Il viaggio termina altrove, all'aperto e davanti al mare, con il canto di Patrizia Di Martino e ritmi fortemente variati, giocando anche sulla reminiscenza felliniana del rinoceronte (“l’unico tentativo per evitare il disastro, per non precipitare nella catastrofe, potrebbe essere quello diretto a recuperare la parte inconscia, profonda, salutare di noi stessi”, spiegò lo stesso Fellini), elemento che aumenta vieppiù la sensazione di aver visto qualcosa che cercava disperatamente di essere troppo di più di ciò che in realtà era, e che cercava un télos là dove non se ne sentiva il bisogno, compresso da un inutilmente soverchiante intellettualismo.

lunedì 16 giugno 2014

Speciale NTFI 2014: il signor K. disperso nel sogno americano

Oltre all'altrettanto indovinata location della Sala dei 500 del Museo Nazionale Ferroviario di Pietrarsa, adeguata per l'ambiente coevo che conferisce naturalezza ed autenticità, l'elegante idea di un'orchestrina dal vivo che fa risuonare sia note Yiddish, sia Scott Joplin e Maple leaf rag, con il pianista che interagisce con gli accadimenti e funge anche da rumorista, è la prima dichiarazione aperta dell'impianto scenico di Amerika di Franz Kafka, nell'adattamento di Malcovati Maurizio Scaparro, che ne cura anche la regia.
Un impatto promettente, che fa entrare con più leggerezza sul delicato tema che ben presto fa riflettere, ovvero l'irrisolta/irrisolvibile querelle fra la letteratura e la sua rappresentazione sulla scena: la scelta, necessaria ancorché stilisticamente opinabile, è quella di attraversare le scene/episodi quando in fretta, con personaggi appena accennati (come il fuochista che è solo una voce fugace), quando accentando figure come il senatore Jakob, quando porgendo lo scorrimento degli eventi con la narrazione, come l'atto di seduzione della cameriera, o al contrario in soluzione dialogica al posto della descrittività letteraria. Va riconosciuto che a volte i cambi di scena, anche effettuati a mano dagli attori entranti o uscenti, aiutano a costruire un corso agile, ma più spesso le soluzioni hanno il sapore di passaggi bruschi (come quello fra l'episodio di Brunelda e quello del teatro dell'Oklahoma), che ricordano -sia detto con la nobiltà che meritano- i quadri che si succedevano sui carretti dei cantastorie.

Nonostante questa sia, tra le declinazioni della solitudine della trilogia kafkiana (America/Il processo/Il castello), la meno cupa, la meno solcata da nevi perenni in quanto trasposizione futuribile -e persino speranzosa- della poetica della dispersione, tuttavia egualmente Karl Rossmann (nella pur buona prova di Giovanni Anzaldo) appare costantemente un po' più stralunato di quanto ci si attenderebbe, mentre per Ugo Maria Morosi viene efficacemente scelta l'interpretazione di tutte le figure autoritative, a conferire un senso riconoscibile al simbolo kafkiano della somma giustizia/ingiustizia, mentre Carla Ferraro dà vita lieve ad ogni personaggio femminile tranne la cantante Brunelda, riservata a Morosi appunto perché prevale l'angolatura simbolica dell'autorità.
È insomma una visione, questa di Scaparro, che si concilia con l'idea che ebbe Max Brod nel 1927, quando mise in connessione il romanzo, e soprattutto le scene dei sobborghi, al volo ideale di certi film di Chaplin, ed anzi precedendone la concezione, da Tempi Moderni, sul comune point d'appui dell'estraneità e dell'isolamento tra gli uomini (lì la mancata integrazione ed il rifiuto della società, qui l'indifeso ragazzo inesperto nella tumultuosa America, prima dell'accusato nel Processo e dello straniero non invitato nel Castello): uno sguardo che infatti fu ben presto tradotto dal regista nello stile cinematografico, con un film di cui si leggono anche in scena elementi ben visibili, sebbene sembri sempre così difficile guardare il boemo senza scorgere neanche una goccia di nebbia; ma questo forse somiglia proprio al colore primigenio dell'aurora della fantasia di Kafka, il quale non fece mai lunghi viaggi, e non oltrepassò la Francia e l'Italia settentrionale.

Tutto sommato, conservando nelle proprie tracce mnestiche ciascuno la propria preferenza dell'immaginario kafkiano e degli episodi, fra desiderio di libertà, ostinazione per una missione intramondana e coscienza di un'indomita natura giovanile ancora non irrorata con le stille del realismo magico, il riallestimento trasmette il senso della stessa metafora, che viene ben sottolineata sulla scena come nel testo, del regolatore e delle manovelle che mutano l'aspetto della scrivania americana: “[...] e girando una manovella era possibile effettuare a piacere e secondo il bisogno tutti i cambiamenti e gli spostamenti possibili. Sottili paretine divisorie si abbassavano lentamente e costituivano il fondo o il soffitto di tanti nuovi scomparti; già dopo un giro di manovella l'alzata aveva un aspetto del tutto diverso, e a seconda di come si girava la manovella, tutto avveniva in modo lento o incredibilmente rapido.”

lunedì 9 giugno 2014

Speciale NTFI 2014: i suoni, i vicoli e le sospensioni di Santanelli

Sperimentazione tecnica, implementazione di saperi, impegno ambientale: contaminazioni che fanno di Per oggi non si cade un esperimento che attraversa piani narrativi e scenografici, costruendo una mise en place apparecchiata fra sale, corridoi e giardini dell'Accademia di Belle Arti, e costruita con un procedimento dagli effetti sorprendenti come il sound design e le registrazioni olofoniche di Hubert Westkemper, che letteralmente immergono l'ascoltatore in un ambiente autentico, stante la provenienza pluridirezionale di ciascun suono, voce, allucco, o effetto che sia.
L'omonimo racconto di Manlio Santanelli fu scritto, possiamo dire, con la munnezza che bussava alla porta, alla vigilia della peggiore fase dell'emergenza-rifiuti in Campania, ed infatti l'ispirazione (affidata con buon risultato alla voce narrante di Mario Tozzi, che ben si destreggia anche fra locuzioni napoletane) si affida all'idea di un sacchetto dell'immondizia che, gettato da una popolana giù dal balcone in vico Purgatorio ad arco, e pertanto assurto a simbolo stesso del malcostume, anziché cadere, resta sospeso a mezz'aria, come sostenuto da un refolo di vento che non c'è; dietro l'episodio, si cela la volontà divina di sospendere per 24 ore la forza della gravità sull'intera città. Anzi no, non proprio tutta: tranne che su Scampia, “che già sta male combinata”.

La polifonia della città di Napoli si dipana nella regia di Fabio Cocifoglia fra ambienti apparentemente “antiteatrali” ed accademici, e si esprime con voci prevalentemente femminili, come è Napoli stessa secondo Santanelli, fra mamme che chiamano figli che non tornano a casa, e personalità di donne che sfondano la vita e partecipano attivamente alla socialità del vicolo. Un capasottamento che coinvolge però anche i bassi istinti del popolo, che per 24 ore si lascia andare a comportamenti che oggi definiremmo “scorretti”, in spregio alla convivenza civile, e che trova afflati poetici quando sonda la quiete della notte che cala su un popolo che non sa interrogarsi sul futuro, trovando perfino il modo di evocare un Finale di partita...
Il modello della fruizione individuale dello spettacolo (ciascuno spettatore può entrare anche da solo, con un'audioguida per seguire il percorso) fa risalire ad illustri pionieri come l'itinerante Orlando Furioso di Ronconi che ci ha insegnato a passeggiare all'interno di una scena, ed il valore aggiunto dell'operazione, peraltro allestita in pochi mesi e quindi evidentemente migliorabile sotto il profilo tecnico e della legatura dell'insieme e delle sue parti, talora ancora poco integrate, è l'essersi giovato del lavoro degli studenti di Scenografia e Fotografia (presenti anche dal vivo), le cui opere e suggestioni puntellano il percorso, con disegni, sospensioni ed immagini che richiamano temi come la leggerezza e parlano di entusiasmo nel partecipare alla creazione delle installazioni.
Allo scadere delle 24 ore, quando tutto riacquista peso, la catartica distruzione causata dal crollo di tutto ciò che è stato frutto del malcostume sommerge persone e coscienze, ed anche se si suggerisce un immanente the show must go on, il cerchio si chiude nelle prime parole del racconto: “riflettere sulle cause delle tragedie passate per non ripeterle”, anche se lo sguardo ripetuto e costante dell'autore sulla ignavia di chi dovrebbe reagire, a partire dalle figure borghesi affacciate solo sul proprio orticello (“E intanto il notaio Manes sempre là, che non fa una piega”) resta come la firma di un autore mai banale, a specchiare la realtà.

giovedì 17 aprile 2014

Mind games (Mind Juggler - Francesco Tesei al Teatro Bellini)

(pubblicato su www.teatro.org)

La prima osservazione da fare dopo lo spettacolo, riguarda il pubblico: dopo due ore di esperimenti psicologici a varia denominazione, osservare l'entusiasmo che va oltre gli applausi rivela che siamo di fronte a qualcosa di più profondo di un semplice piacere per aver assistito alla bravura ed alla simpatia di un professionista della comunicazione e dell'illusione. Qui siamo in presenza di un vero transfert, e pensare al motivo di questo legame è forse la chiave per tirare il filo, e vedere l'altro capo dove porta.
Il punto di partenza è chiaro, e viene fornito dallo stesso Tesei in apertura, quando ripete la citazione dello psichiatra-ipnoterapeuta Milton Erickson ("Ognuno di noi è molto più di ciò che pensa di essere, e sa molto più di ciò che pensa di sapere"), e così il primo mattoncino viene assicurato, e suona più o meno così: io ti dico che ognuno ha dentro molto più di quello che pensa, che tutto ciò che mi vedrai fare non è che una potenzialità teoricamente in mano a tutti, e che se sviluppata nel giusto modo può far diventare così anche te.
E così parte, leggendo segmenti ritenuti inaccessibili delle menti di coloro che vi si sottopongono, intuendo da linguaggi non verbali verità e bugie (Paul Ekman docet), concatenando logiche sottese ai comportamenti, e così via.
Un altro mattoncino lo ha posto la storia degli ultimi decenni, impiegati da molti a seguire, o ad inseguire scienze e/o presunte tali, dalla Pnl alla prossemica, dai filoni motivazionisti alla cinesica: fra libri, dispense e telefilm di successo (The Mentalist e Lie to me su tutti), oltre alle stesse sue trasmissioni televisive, un target insomma è stato già creato, e sono molti coloro che hanno nei confronti dell'argomento, ormai, un alto livello di aspettative: tutti costoro alimentano il legame con Tesei perché finalmente vedono coi loro occhi ciò che vaga solo idealmente negli spazi della letteratura e dei corsi che a volte tentano di fare, come per verificare che è vero, che tutto ciò esiste, nonostante essi non abbiano potuto/saputo arrivarci.
Altro fattore, di sicuro è la sua sembianza: scienza e non illusione (e tuttavia nemmeno disvelazione, poiché tranne alcune spiegazioni alquanto essenziali, il tutto rimane sempre avvolto nel fumo dell'incomprensione che ti deve lasciare ammirato e vagamente incredulo -ed in questo senso il finale enfatizza ed appesantisce anche troppo il concetto-, allo stesso modo di come avviene per l'illusionismo dove si pensa ad un trucco), ed un apparire elegante-giovane-propositivo (con un tocco di Magritte nella scarna scenografia) che alimenta l'idea di qualcosa di concreto ma non afferrabile: lo studio della comunicazione piuttosto che la magia, si, ma egualmente inintelligibile.
Aggiungiamo il mattoncino della non comune capacità di indirizzare gli stress attraverso stratagemmi che influiscono sugli strumenti cognitivi razionali dello spettatore, soprattutto quando si aggiungono gli input derivanti dal palcoscenico (le luci, l'essere al centro dell’attenzione, la novità, l'essere osservati da centinaia di persone): il tono della voce, le parole ed il ritmo, così come i gesti, predispongono i soggetti ad una specie di rifugio non sempre giustamente tradotto come “trance”, dentro al quale gli effetti mentali che produce rispondono ancora più fedelmente.
A questo si aggiunge la sua grande esperienza nella gestione dell’ambiente, condita da battute molto efficaci e sempre nei momenti giusti, probabilmente un’altra traccia della sua nascita come illusionista.
In un campo di cui egli riconosce come pioniere Derren Brown, e come possibili espansioni filosofiche il pensiero di autori come Karl Popper, Erwin Schrodinger e Ludwig Wittgenstein, Francesco Tesei semplifica l'intero argomento e fa un patto chiaro con il suo pubblico: nessun potere speciale se non quello di saper approfondire ciò che tutti potrebbero conoscere (in questo senso vanno anche le sue “scommesse” messe nero su bianco, che da antiche promesse magiche si trasformano in mere “dichiarazioni di intenti”, puntualmente rispettate), e tecniche di suggestione e di lettura del linguaggio del corpo trasformati in codice di intrattenimento che infine, sommato agli altri mattoncini, spiega il transfert da cui siamo partiti, l'immedesimazione ed il pensiero che tutto ciò appartiene un po' anche a sé stessi; e questo avviene, per la maggior parte del suo pubblico “disarmato”, attraverso la decisiva ed intima sensazione di aver provato un'emozione oggi alquanto rara, come quella della sorpresa.

sabato 12 aprile 2014

Da Gabrielle a Coco, e ritorno

(pubblicato su www.teatro.org)

Amarezza, paranoia, solitudine. Dentro ad una stanza del Ritz arredata da Guido Caodaglio in stile fine anni '60- inizio ’70, Coco Chanel mette in vendita ad un prezzo alto la sua vita guardandola ormai alla fine, il prezzo di uno specchio e dei ricordi, memorie che vengono invitati a fluire anche tramite il maggiordomo che richiama per un giorno, dopo averlo mandato via anni prima.
Nella pièce “C come Chanel” di Valeria Moretti, per la regia di Roberto Piana, la vita di Coco (il nome fa già intendere come prevalga quasi sempre il personaggio sulla persona) non si può dire se venga più attraversata, o sia lei ad attraversare l’epoca d’oro di una Parigi in cui diventò protagonista non solo con la sua moda rivoluzionaria, ma anche con quel Gruppo dei Sei che con Milhaud,  Honegger, Poulenc, Tailleferre, Auric e Durey rappresentava quella reazione nazionalista all'impressionismo che coinvolgeva anche Eric Satie e soprattutto un altro protagonista dello spettacolo e della sua vita come lo scrittore Jean Cocteau.
Sia a lui, sia al suo amore principale Boy Capel, sia al maggiordomo, fornisce il volto David Sebasti, con una prova, diciamolo subito, sinceramente sorprendente per presenza, precisione e potenzialità tecniche, che fanno riflettere magari su quanto gli attori dimentichino spesso quale sia l'importanza dell'espressione fisica, fra gli elementi della loro arte.
Il percorso fra gli aforismi è necessariamente una parte importante, in un lavoro che vuole ripercorrere in un'ora e venti minuti una delle vite più originali del nostro tempo (“Gli abiti che non scendono in strada non sono moda”, “Gli specchi dovrebbero pensarci bene, prima di rifletterci”, “Più donne vestono Chanel, più mi sento sdoppiata”), tanto che per un po' la storia della sarta ribelle sembra un po' imprigionata nella trappola retorica riassunto/biografia fra situazioni-tipo come l'Hotel e/o un'intervista, ma non si fa in tempo a pensarlo perché arriva un deciso approfondimento psicologico grazie sia appunto alle figure maschili (Cocteau su tutti), sia alla padronanza, che è quasi un'essenza stessa, di Milena Vukotic, nel ripercorre capitoli essenziali come l'infanzia e momenti critici come i traumi degli affetti, e le scelte rischiose come il suo probabile fiancheggiamento del nemico nazista.
Tutti dovrebbero versare un piccolo contributo alla conoscenza dei sensi”, e di certo il suo fu assai grande, come grande appare nella classe con cui la Vukotic porta senza peso apparente tutto quel bagaglio sulle bellissime scarpe bianche e nere che indossa.
In una colonna sonora che forse potrebbe sottolineare maggiormente l'epoca, scegliamo noi un sottofondo coevo come I've Found A New Baby di Josephine Baker, per le storie di oppio, per la leggerezza dura dell'Attrice, per la petite robe noireereditata dalle suore dell'orfanotrofio, per le liasons come quella con il duca di Westminster (che non sposò perché “il mondo è pieno di duchesse, di Coco ce n'è una sola"), e per Coco/Gabrielle che nel ricordo della morte del padre cui aveva assistito dietro il cancello dell'orfanatrofio, si addormenta infine sul divano del Ritz, come per aspettarlo.
Mi piace tagliare”, diceva Coco. Di sicuro, il gesto che le assomigliava di più.

lunedì 7 aprile 2014

L'Eterno Plautino

(pubblicato su www.teatro.org)


Menecmi di Tato Russo è come la pizza mangiata nel locale che frequenti da sempre, una certezza dalla quale ogni volta ti aspetti di essere soddisfatto allo stesso modo, e che resta il motivo principale per il quale ci sei tornato, magari scoprendo che lo chef è riuscito anche ad inserire qualcosa nella preparazione tradizionale: ancora una volta, tutto questo viene confermato da una solidità sua personale nell'impersonare entrambi i gemelli che nella storia di Plauto vengono separati per caso all'età di 7 anni, e da una esperienza nel ruolo che ha superato le 600 repliche in 25 anni.
La riscrittura che fa dell'originale plautino conserva traccia dello sguardo rivolto alla platea latina concedendo spazio alla inclinazione plebeista, i meccanismi si intrecciano con tempi collaudati, l'arte comica trova spazi tradizionali che uno spettatore che voglia lasciarsi andare al generoso gusto del grande commediografo romano della Palliata, troverà senza dubbio esilaranti e portati in scena col suo giusto accento situazionale e didascalico.

Menecmi è la madre delle commedie degli equivoci, dallo spunto perfino esageratamente banale (i due gemelli non si conoscono, ed uno dei due giunge da Capua nella città dell'altro -ovviamente Napoli, nella quale Russo ha ambientato il tutto- e scatena una ridda inestricabile di fraintendimenti ed ambiguità tramite lo scambio di persona inconsapevole), eppure perfetto per contenere quegli elementi psicologici e tecnici che Plauto sapeva incastonare in un apparente semplicità, come quello dei Simillimi con il tema del doppio, dell'Agnizione con il riconoscimento finale che porta alla fortunosa conclusione, del Servus callidus con i suoi inganni, e di un lessico del quotidiano che assicura la giusta ed immediata presa sul pubblico (naturalmente ancor più evidente nel momento in cui il linguaggio, come in questa occasione, appartiene anche allo stesso suo vernacolo).
Né mancano la Pantomina ed il Prologo, con cui le Maschere e l'Entità astratta rendono conto della situazione cui si sta per assistere. Fra gli inserti nuovi questa volta possiamo ricordare le nudità del coro delle prostitute che entrano in contaminatio con le reminescenze delle sirene omeriche, ed alcuni passaggi in cui il tono di Tato Russo sembra ispirarsi stilisticamente ad espressioni eduardiane.
Le scene echeggiano dei paesaggi di una Neapolis in bilico fra fasti e rovine, ed il cast di servi, ancelle, femminnelli, cortigiani e parassiti, regge con precisione l'esuberanza del doppio protagonista principale, con una particolare menzione per Rino di Martino (l'esasperato ma rassegnato Messenione) e Marina Lorenzi (la combattiva moglie Dorippide), per uno spettacolo che conserva il suo particolare fascino di origine atellanica, tuttavia meno grossolano dell'arte originaria plautina e più ammiccante all'ambiente del suo tempo; ma coltivare il principio dell'adesione al gusto, in fondo, significa rispettare ancora di più l'insegnamento di Plauto.

mercoledì 2 aprile 2014

No-Exit strategy

(pubblicato su www.teatro.org)

"Non lo so quando le cose sono cominciate ad andare male".
È così, nessuno può saperlo. Nessuno sembra capire quando due persone hanno cominciato ad allontanarsi, seguendo quella parabola un po' banale e spesso eccessivamente sofferta che viene disegnata nella quotidianità, così spesso dopo qualche tempo di convivenza, a qualunque titolo.

C'entra la politica? Oppure i futili motivi? O i calzini, a righe verticali e multicolori?

“Exit” non fornisce la spiegazione, e questa è probabilmente la migliore soluzione che sta alla base del lavoro di Fausto Paravidino, perché rimanendo al di sopra di quei tratti che pure sembrano essere i veri protagonisti di una vera psicopatologia della relazione, riesce invece a rimanerne fuori, centrando il punto vero, che non è certo quello delle persone con i loro bisogni, equivoci e tardive comprensioni del proprio Io, bensì quello della relazione stessa.
E lo fa rappresentandolo in maniera accurata, anzitutto sottile, grazie alla narrazione del dettaglio, ma anche fortemente efficace, grazie ai due personaggi senza nome, A e B, dei quali Sara Bertelà e Nicola Pannelli esaltano l'inconsistenza degli spunti di litigio e/o incomprensione, riuscendo a far percepire la vera inanità delle cose, trasmettendo la prigionia al loro interno, lo stress di un inutile sforzo di spiegarsi i motivi delle cose, ed esprimendo ottimamente con le loro espressioni l'assoluta esagerazione di quanto e come consideriamo (o non consideriamo) oggi una relazione interpersonale.



Una storia a suo modo soave ma terribilmente reale ed ultramoderna (bello il riferimento ad una politica priva di punti di riferimento offerto dalla lettura dell'edizione del 22 aprile 2012 de Il Manifesto sulle elezioni francesi, quella della prima pagina “Sarko-fago”...), con alcuni spunti di scrittura notevoli nella loro essenzialità, e che colgono la precisione dei vari momenti di smarrimento:
"Non si può andare avanti così...” "Così come?"
Non si sa come andare avanti perché sono tutte declinazioni della stessa cosa
Il peggio è quando cerchi di dare un nome, alla Cosa
Le cose non sono mai semplici come minacciano di essere...



Forse solo nell'amicizia, sembrano ritrovarsi i frammenti perduti della vicinanza, quella che siamo ogni giorno costretti ed orientati a cercare invece nelle relazioni. Una storia che registra elementi di conflitto reciproci di una tale inutilità, che perfino un manuale americano (Ricostruirsi una vita in 10 mosse sicure), uno dei tanti pseudo-psicologici/comportamentali/motivazionali, basta per mettere un minimo di ordine nella vita di Lei, che entra nel mondo dei reduci, mentre quella di Lui cerca di recuperarsi invano in un'altra relazione, con una delle sue studentesse: ma le intercapedini dell'anima sono incapaci di comprendere, e gli elementi della propria personalità ancora da affermare ottundono anche i sensi di una possibile amicizia, come nella perfetta, classica telefonata in cui qualsiasi cosa dici, ti sbagli, perché prevale il doversi fare del male.

Interessante anche la divisione delle scene in Affari Interni, Affari Esteri o In Europa, sempre circondate da una scena pulita come lo spazio che meritano le parole; tempi perfetti soprattutto nella parte finale, in cui si incrociano eventi, dialoghi e narrazione, grazie anche agli altri due personaggi, C e D (Iris Fusetti e Davide Lorino); un linguaggio diretto e concreto che riesce a rimanere delicato, e situazioni che sebbene esilaranti, non sconfinano mai in una ironia che sarebbe suonata inutile.

Perché non ci sono, vie d'uscita; ci sono, forse, soltanto migliori vie d'entrata.

giovedì 20 marzo 2014

Il gesto e la poetica

(pubblicato su www.teatro.org)

Un artista che ti fa commuovere con un appendiabiti, e che il giorno dopo continua a farti sentire la stessa emozione richiamando una lacrima al solo ricordo, ecco, prima ancora di farti fermare a pensare a cosa sia accaduto, appunta da sé sul petto le sue cinque stellette, già per la sola creazione di questo sentiero che sin dall'inizio sembra guardarti mentre affronti lo spettacolo con la tua mente ed il tuo bagaglio culturale, per poi decidersi a mettersi in cammino, e puntare proprio verso di te, creare quel ponte emotivo che percorre con grazia, finchè ti si ferma davanti e senza una parola, ti apre.

Lo guardi incredulo, e ti chiedi come sia possibile che ti stia facendo questo, riuscendoci con una semplicità così inconcepibile da far intendere, al di là della genialità, quanta arte e quanta tecnica abbia messo a punto Slava Polunin, racchiudendola tutta nel suo clown Asisyai con il quale porta nel mondo da anni l'evanescenza, la poesia e lo stupore del suo spettacolo.Il disegno bianco che sottolinea il contorno della bocca del clown è uno dei modi con cui anche i gesti anche impercettibili del mimo vengono trasmessi con una efficacia rara, tale da scomodare Chaplin, Grock e Marceau; sarà stata l'infanzia trascorsa nella piccola città russa in mezzo alla natura, quel mondo in cui inventare storie in cui poi irruppe uno schermo a fargli conoscere il mondo dei clown, e la strada lunga e dritta che lo condusse alla scuola di mimo a Leningrado, ma da quando nel 1979 creò la sua prima compagnia, Slava Poulin ha saputo rendersi inconfondibile per il suo stile, fuori dai ritmi e dalle abitudini quotidiane: di esse bisogna liberarsi quanto prima possibile, una volta seduti, per potersi immergere nel suo mondo, perché tutto è già subito lì davanti, avvolto com'è in un'atmosfera che si percepisce diversa anche prima della nuvola rossa che apre la scena.

Gesti rarefatti che da soli valgono un movimento in slow-motion, idee stimolanti quanto divertenti come una barca fatta di un letto, un lenzuolo ed una scopa alle prese con un enorme transatlantico ed un improbabile squalo, personaggi goffi quanto delicati, gags e sketches che si inseguono, fra cui quella straordinaria dei telefoni con cui debuttò in televisione nella puntata di Capodanno 1980/1981 del Light Blue Fame, ottenendo un immediato e comprensibile successo, per la capacità speciale di unire e di trasmettere sensazioni come solitudine, amore, amarezza e felicità con un gesto, un suono, un'espressione facciale, una sospensione. Come la sublime scena dell'attaccapanni, appunto, che va richiamata come magico simbolo di tutto questo.

Gli attori della compagnia di Slava incarnano poche figure di clown, che restano fondamentalmente divisi in due tipi, che però si scompongono di volta in volta per dividere i caratteri ciascuno separato dall'altro, ed il coinvolgimento e l'interazione con il pubblico è parte essenziale del modo di intendere il rapporto fra il “di qua” ed il “di là”, annullando quasi sempre il distacco ed inventando meccanismi come la tela del ragno e soprattutto l'impressionante e tempestosa nevicata finale, fino ad un finale da vivere, piuttosto che da svelare.
Ed il finale, è l'opposto di un finale, oltrepassando il concetto del senza sipario, del dentro e fuori uniti nello spettacolo: Asisyai rimane seduto, fermo, immobile, proprio durante il momento di massima euforia del pubblico che si esalta con gli ultimi giochi che coinvolgono l'intera sala fino alle file più alte, perchè con quella sua fissità è lui, a guardare noi. Perchè lo spettacolo, è ciò che ha creato, ed è lì, davanti ai suoi occhi.
Cinq étoiles, ça va sans dire.

sabato 15 marzo 2014

Brachetti, che sorpresa...

(pubblicato su www.teatro.org)

Il più grande trasformista del mondo, senza dubbio, colui per il quale al momento delle mutazioni quasi istantanee gli aggettivi diventano pochi e sempre gli stessi, ebbene si, Arturo Brachetti, con il pezzo forte della sua arte, insieme con le ombre cinesi ed i disegni sulla sabbia sui personaggi di Tim Burton: tutto questo contribuisce ad alimentare l'attesa per uno spettacolo che ogni volta crea grandi aspettative, ma che tuttavia va inquadrato anche sotto una luce complessiva che questa volta non resta affatto priva di ombre.
Eppure, se vogliamo, gli ingredienti principali ci sarebbero tutti: oltre ai tre già citati, si aggiunge anche uno spunto interessante sebbene forse un po' pretenzioso (o quantomeno dilatato) sulla rivisitazione di Elephant man, laddove si avvia un discorso sulla meraviglia della bellezza e dell'essere amato che se vogliamo, psicanaliticamente è anche il presupposto stesso della pulsione antica che si svela nel trasformismo; una trovata che avrebbe consentito anche un maggiore approfondimento, legato com'è all'essenza della sua arte, e risolta nel finale con la metrica dell'essere liberi e con il gesto poetico di volare al di sopra di tutto.

L'idea è quella di una storia che scorre attraverso ciò che si perde e si ritrova nel reparto "lost&found" di un aeroporto (o di tutti gli aeroporti) che raccoglie ogni cosa persa, in cui "perdi qualcosa e rimane lo spazio immenso dei tuoi sogni". Intorno a questo filo, girano altri personaggi come il duo Lucchettino, l'intrattenitore Francesco Scimemi e l'illusionista Luca Bono. Le perplessità si manifestano, tuttavia, a partire dalla costruzione stessa dello spettacolo, che oltre a riservare lo spazio più attraente all’apertura, intorno ai momenti-clou fa girare una struttura debole legata insieme da altri elementi a volte prolungati, altre non all'altezza dei numeri di Brachetti, altri fra i principali risolti senza cura dei particolari, ed altri infine, ed è una nota alquanto strana da registrare, inficiati da cadute di stile ed approssimazione (in tal senso, ci sono almeno due momenti difficili come una battuta sinceramente di quart’ordine su un coniglio ed una infelice considerazione finale rivolta al pubblico).

Un vero peccato. E questo accade nonostante il regista Davide Livermore (un curriculum teatrale per la prima volta prestato al varietà) metta a disposizione molte chiavi contemporanee e tecnologiche, a partire dal videomapping: ma il quick change per cui è diventato famoso, ovvero ciò che di davvero strabiliante ed unico il pubblico avrebbe continuato senza dubbio a vedere meravigliato, viene riservato ad una parte iniziale e ristretta solo a 25-30 personaggi che si succedono, mentre il dialogo fra le azioni comiche e l'illusionismo, e l'interazione anche per certi versi eccessiva con il pubblico, resta senza relazione adeguata.

sabato 8 marzo 2014

Irresistibili rancori

(pubblicato su www.teatro.org)

Appare il retrogusto della vita stessa, quando al di qua del sipario due attori comici che per 43 anni hanno fatto la storia del vaudeville americano, d’improvviso per scelta di uno dei due interrompono la loro storia artistica, e scompare quella che per entrambi era stata l’intera ragione che li aveva portati sia a vivere, sia a condividere.
I ragazzi irresistibili sono Willie Clark (Eros Pagni) ed Al Lewis (Tullio Solenghi), che da quel momento la prendono in maniera molto diversa, poiché il primo non perdonerà mai al secondo la scelta di porre fine al loro successo, e se ne tormenterà con acrimonia coinvolgendo ogni altro residuo aspetto della sua esistenza, anche fingendo che l’odore della naftalina non ricopra già da molti anni la sua ormai inesistente carriera. Il secondo, invece, avvolto dall’incipienza della mente che invecchia, si lascia andare ad una esistenza ritirata ed anonima in campagna.
A lavorare inutilmente sull’umore dello zio Willie, e con successo insperato sul nuovo incontro della ex coppia irresistibile, è il nipote Rick (l’ottimo Massimo Cagnina, un trait d’union che lega insieme le personalità ed i compromessi), che organizza la loro reunion all’interno di un programma celebrativo del vaudeville da registrarsi alla CBS, con conseguenze che seguono le stesse tracce dei canovacci del genere, fra colpi di scena che sembrano far vivere ai due protagonisti gli stessi impacci e le stesse sorprese, a volte felici ed altre meno, che usavano mettere in scena.
Sono I ragazzi irresistibili di Neil Simon, nella versione italiana di Giuliana Manganelli per la regia di Marco Sciaccaluga, che si concentra in particolare sugli aspetti della difficile ripartenza di un rapporto personale deteriorato, prima ancora che della conseguente ruggine che disgrega le possibilità professionali.
La commedia debuttò molto felicemente nel 1973, due anni dopo fu interpretata per il cinema da Walter Matthau e George Burns, e nel 1995 arrivò sul piccolo schermo con Peter Falk e Woody Allen, precedenti illustri che contribuirono a considerare Simon “il re della risata” (anche grazie a La strana coppia), dando sempre più spazio anche alla sua teatralità, laddove i dialoghi serrati, la presenza di personaggi elaborati e la mescolanza di dramma e commedia si facevano punti forti della resa sul palcoscenico.
Del mondo di Simon, Eros Pagni e Tullio Solenghi ci mostrano soprattutto l’aspetto scarsamente illuminato, problematico, quello dell’uscita di scena aperto dalla sequenza di foto(-montaggi) dei tempi d’oro dei Sunshine Boys, che oggi è soprattutto un cumulo di detriti accumulatisi fra sarcasmo, ambiente dimesso di hotel di second’ordine (ma anche uno strano buio durante il primo atto), ferite da abbandono mai rimarginate miste a rancore, nostalgia e stati d'animo tormentati, stizze e puntigli, astio e competizione degni di due fidanzati offesi che si tengono a distanza, ma a distanza anche controllano la rispettiva salute.
Una felice inquadratura alle spalle delle quinte nel secondo atto è come il punto di vista migliore sul retrogusto degli sketch, quello che spiega anche cosa deve aspettarsi lo spettatore, che per buona parte del tempo (oltretutto esso stesso un po’ dilungato) forse si aspetta invece risate più facili.

mercoledì 26 febbraio 2014

Celare ad arte, celare nell'arte

(pubblicato su www.teatro.org)

Follia ed omosessualità: se ancora oggi pongono dei limiti alla loro trattazione sociale ed artistica, immaginiamo cosa doveva significare scriverne negli anni '50 negli Stati Uniti, quando vide la luce Improvvisamente l'estate scorsa (Suddenly, Last Summer), opera teatrale di Tennessee Williams.
Ed è infatti utile ricordare come, nella versione cinematografica affidata ad un trio d'effetto come Katharine Hepburn, Montgomery Clift ed Elizabeth Taylor, il lavoro più complesso della regia fu quello di dover necessariamente aggirare le regole rigide del Codice Hays, senza mai una sola esplicita pronuncia della parola “omosessuale”, un concetto trasformato praticamente in uno spettro che si aggira per la pellicola, finanche a far chiedere allo spettatore se ha capito bene di cosa si parla.


Ed il risultato è, in effetti, la proiezione stessa del senso della pièce: la dissimulazione.
Ciò che c'è non va visto, ciò che accade non va ricordato, ciò che si deve vedere va ridisegnato, ogni quadro va colorato con altre nuances, affatto diverse, ed a qualunque costo: c'è un mistero, c'è una morte incomprensibile, c'è una ragazza forse impazzita, non ci sono indagini.

È accaduto, semplicemente, che “d'improvviso”, l'estate precedente, il giovane Sebastian sia morto senza sapere ufficialmente bene come, mentre si trovava in vacanza in Spagna, con la cugina Catherine (Elena Russo Arman); da quel momento la ragazza ha ricordi lacunosi ed apparenti isterie inspiegabili, mentre Mrs. Venables, la madre del giovane (Cristina Crippa), si adopera e si affanna per il suo obiettivo supremo, quello appunto della dissimulazione degli eventi (che ella, se non conosce nei dettagli, di certo comprende nella sostanza) e della ricostruzione della normalità accettata dalla società e dalla sua mente, quella di un figlio artista e geniale, magari bohèmienne, ma cui tutto era concesso.


L'estremo limite cui è disposta ad arrivare per mantenere queste apparenze, è quello di adoperarsi per sottoporre Catherine ad una pratica che all'epoca sembrava un brillante ed innovativo risultato scientifico nel campo della neurochirurgia, mentre altro non era se non la barbarie della lobotomia: "un coltello acuminato nella mente che uccide il diavolo nell'anima", si, ma un coltello criminale.
L'iceberg che si nasconde invece sotto le facce della rimozione, ciò che davvero è successo l'estate precedente, è che Sebastian è stato smembrato e divorato da altri ragazzi, bambini perfino troppo umani coinvolti in scambi di favori omosessuali, con lui che era abituato nei suoi frequenti viaggi ad usare dapprima la madre, poi la cugina, per accompagnarsi ad esche ed attrarre altri uomini.
Ma l'iceberg, naturalmente, non è la morte, bensì la struttura intera di una vita da nascondere e lavare con le apparenze, che emergono quando Catehrine viene sottoposta, come trattamento prodromico alla lobotomia, ad un siero della verità.

Elio De Capitani è avvezzo ai personaggi di Williams, ai loro sgretolamenti esistenziali, allo sconvolgimento di anime con cui l'autore indagava la società americana passando anche attraverso la sua stessa storia personale (fu la sorella stessa, Rose Williams, ad essere costretta, per colpa della madre, a sottoporsi ad una lobotomia, con effetti atroci e devastanti), ed affondando quindi sovente le mani nell'ipocrisia, nella sessuofobia e nel peccato del perbenismo che trovavano terreno fertile nella società americana.
Ed il preciso lavoro del regista dunque lo troviamo anzitutto nel linguaggio del corpo con cui agiscono gli attori: facce, sguardi, gesti, e qui parliamo soprattutto della prova di Cristina Crippa, la quale all'inizio non sembra nemmeno turbata dagli eventi, quando d'improvviso arriva a tradire l'arcano mistero angoscioso una interiezione emotiva surreale, folle ed acuta, un inserto acufenico che si rivela attraverso una smorfia camuffata sotto lo stesso verso di uno degli uccelli del giardino/jungla, subitaneo quanto agghiacciato, ed in piena armonia con quella jungla addomesticata, terrificante come l'arte della Creazione.

Le luci di Nando Frigerio contribuiscono a sottolineare spesso, questo passaggio alla fase più mentalmente concentrata della narrazione, fra un Dottor Cukrowicz (Cristian Giammarini) zelante nel suo proposito di conoscere la verità ed una Catherine che infine si abbandona letteralmente ad una scena-madre in cui crolla ogni infingimento, e svela con una dettagliata descrizione gli ultimi giorni di Sebastian, dalla creazione divoratrice ("vivevamo in un mondo di luci ed ombre, ma le ombre erano luminose quasi quanto la luce") alla pronuncia delle orride verità, con una costante molto interessante del colore bianco, che dai vestiti di Ferdinando Bruni alle rievocazioni delle ultime ore (“era tutto vestito bianco, nel bianco rovente”) danno l'ultimo tocco di senso ad una vicenda in cui l'orrore si dissolve nel non-colore che apre la catena archetipica della luce, dell'assoluto, della purificazione e della libertà.