lunedì 20 gennaio 2014

La lama leggera del Barbiere

(pubblicato su www.teatro.org)

Meno male che ogni tanto il signor de Beaumarchais ci ricorda che c'è stato un mondo di acuta leggerezza, e che si rinnovano piccoli prodigi per rinnovare atmosfere che abbiamo pressoché perduto: le Barbier de Séville - ou la Précaution inutile – è l'apice di quella commedia d'intrigo in cui egli assemblò una trama forte, la sua personale forma di satira sociale (era il tempo dell'ascendente ottimismo borghese prima della rivoluzione) e l'indice puntato contro le ingiustizie, il tutto con gaiezza, ritmo e linguaggio credibile. Certo, sarebbe facile leggervi anche una certa precipitosità nella successione degli eventi e perfino situazioni prese a prestito da altre commedie e da altri autori, ma anche la fortuna ottenuta dal risultato (che dalla prima rappresentazione nel 1775 annovera questo ed altri omaggi, fino all'impagabile Mariage de Figaro di Mozart) aiuta a considerarlo di una rilevanza che fu storica per le successive commedie ed il vaudeville del secolo di là da venire.
Cosa porta o cosa conserva, l'allestimento del San Carlo, alla figura precocemente rivoluzionaria di un Figaro-lucido anticipatore di echi di uguaglianza di classe e sovvertitore provocatoriamente moderno degli stati dei protagonisti classici, oltre che alla originaria soavità? Beh, molto.
Eppure, sono passati già ben quindici anni, dalla prima volta che fu proposto questo Barbiere: era il 1999, e da allora è stato portato in diversi teatri fino ad essere stata la prima opera di Rossini messa in scena in Oman, alla Royal Opera House di Muscat, dove, ricorda il regista Filippo Crivelli, “fece ridere anche gli Arabi”. È rimasta la mano fortunata e leggera che non appesantisce i personaggi, ed ancora la comicità che non sconfina in suoi sinonimi ultronei coma la farsa o il grottesco, così come il giusto spazio alle entrate, alle uscite ed alla presenza dell'allora ventiquattrenne Rossini, anche quando i recitativi ridiventano prosa.

Le scene di Emanuele Luzzati, inoltre, leggermente irrealistiche quanto fiabesche (come un po' anche alcuni dei costumi di Santuzza Calì), e giustamente definite nelle note come pittoricamente evocative, offrono spazi curati e prospettici molto riusciti, soprattutto nel balcone di Rosina che fuoriesce come uno spuntone poetico in un sol colpo fra i vicoli e le angustie di Siviglia, così come il suo contrappunto spaziale, l'interno della casa di Bartolo, il cui salone gode delle preziosità di un chiostro maiolicato. Forse solo il finale, sulla scia di tanta allegria, calca un po' la mano, laddove esplode un esagerato disegno floreale che ricopre scene, costumi ed atmosfera.
Mario Cassi (sentito nella seconda serata) è un bel Figaro, nel suo personaggio sfrontato degno dell'originale-rivoluzionario, e giustamente perentorio come deve essere, sin dalla arcinota entrée del pioniere sociale, dell'uomo che si è fatto da sé, con la cavatina nella seconda scena del primo atto (Largo al factotum).
Complessivamente voci magari non travolgenti, ma tutte dotate e che contribuiscono alla riuscita della performance, con una preferenza personale per il Bartolo di Filippo Morace ed il Basilio di Ugo Guagliardo.
Gli intrighi messi in piedi da Figaro per favorire i due innamorati, Rosina e il conte d’Almaviva, giungono a proposito, in un momento particolarmente delicato nel quale il Massimo napoletano, ancora una volta, vede il suo futuro a rischio tra Consigli di amministrazione indecisi e leggi dello Stato che non sembrano voler premiare quanto buono il Teatro, negli ultimi anni, sta facendo, dimostrando anche di saper creare, con le sue maestranze ed officine, allestimenti che vengono esportati nel mondo, insieme con la cultura ed il nome di una delle tradizioni più antiche e floride d'Europa.

giovedì 2 gennaio 2014

Jucammoce 'o passato

(pubblicato su www.teatro.org)

Anzitutto, la sorpresa più piacevole, da dire anche con un certo compiacimento: fa ridere. Quasi tutto, di questo nuovo testo di Pau Mirò, “Els Jugadors” (Jucatùre), rimane all'interno di un'atmosfera sorridente che convince sia per la sua presenza nell'immaginario sociale di oggi, sia per il suo contrario, ovvero l'assenza di riferimenti specifici e geografici che lo possa collocare in un preciso e definito luogo, sia infine per un linguaggio indovinato che nel vernacolo rende il colloquio alla portata del sicuro ricordo di qualunque spettatore.

Quella che definiamo come sorpresa, è frutto di una nota di presentazione dalla quale si coglieva la potenzialità dell'ironia, ma non certo nella forza e nella misura in cui si è rivelata tale, e questo anche grazie ai quattro protagonisti: Enrico Ianniello, Renato Carpentieri, Tony Laudadio e Giovanni Ludeno.
Enrico Ianniello fa il bis, dopo il successo di Chiòve, con cui era stato riadattato, anch'esso in napoletano, il lavoro catalano “Plou a Barcelona” per riproporlo sotto la chiave dei Quartieri Spagnoli.
I personaggi sono, appunto, proprio e solo personaggi: non hanno nome ma solo quell'identificazione sociale legata al mestiere (un barbiere, un becchino, un attore ed un professore di matematica), che mestiere è poi per modo di dire, legato com'è alle alterne onde della fortuna, e nemmeno attaccati al resto del mondo per il tramite di legami particolari (chi con una moglie con cui l'amore sostituisce solo la paura dell'abbandono, chi con una prostituta dell'est che gli sembra possa trasmettergli “un po' di vita sua” in misura bastevole da fargli pensare di seguirla “al paese suo”, chi con la memoria familiare del padre scomparso).

I quattro hanno il loro mondo dentro quella stanza in cui si ritrovano usualmente a giocare a carte, occasione tanto frequente quanto liberatoria anche per il piacere più elevato che viene esteriorizzato in tale occasione, quello della condivisione delle proprie miserie, un "venir fuori" introspettivo che lì dentro, in quel circolo emotivo di similitudini passive, assume il coraggio e la mezza follia che consente il supporto di compagni di avventura e sventura, fino a concordare su slanci filosofeggianti (“noi non giochiamo per vincere, giochiamo per quell'istante in cui si gira la carta e si decide il destino”) ed a prendere inattese ed ardite decisioni altrimenti inimmaginabili.

Ed il trait d'union resta sempre una grande capacità di rimanere saldamente nelle battute che collegano quel loro mondo/ovunque (memorabile il leit-motiv delle reminiscenze onanistiche legate a Dean Martin) che sembra essere stato scritto, sebbene in catalano, per la fruizione di un ipotetico pubblico napoletano (ricordando l'affinità fra due culture dalle indubbie legature culturali) e proponendo un unicum antropologico, umano e culturale che ognuno percepisce come autentico, ed adatto a questi nuovi deboli, quei soliti ignoti che furono vecchi soggetti border line del neorealismo e che si ritrovano qui di nuovo (sebbene in un finale che lascia però l'unica perplessità legata ad un testo indulgente) alla ricerca del difficile riscatto.