mercoledì 26 febbraio 2014

Celare ad arte, celare nell'arte

(pubblicato su www.teatro.org)

Follia ed omosessualità: se ancora oggi pongono dei limiti alla loro trattazione sociale ed artistica, immaginiamo cosa doveva significare scriverne negli anni '50 negli Stati Uniti, quando vide la luce Improvvisamente l'estate scorsa (Suddenly, Last Summer), opera teatrale di Tennessee Williams.
Ed è infatti utile ricordare come, nella versione cinematografica affidata ad un trio d'effetto come Katharine Hepburn, Montgomery Clift ed Elizabeth Taylor, il lavoro più complesso della regia fu quello di dover necessariamente aggirare le regole rigide del Codice Hays, senza mai una sola esplicita pronuncia della parola “omosessuale”, un concetto trasformato praticamente in uno spettro che si aggira per la pellicola, finanche a far chiedere allo spettatore se ha capito bene di cosa si parla.


Ed il risultato è, in effetti, la proiezione stessa del senso della pièce: la dissimulazione.
Ciò che c'è non va visto, ciò che accade non va ricordato, ciò che si deve vedere va ridisegnato, ogni quadro va colorato con altre nuances, affatto diverse, ed a qualunque costo: c'è un mistero, c'è una morte incomprensibile, c'è una ragazza forse impazzita, non ci sono indagini.

È accaduto, semplicemente, che “d'improvviso”, l'estate precedente, il giovane Sebastian sia morto senza sapere ufficialmente bene come, mentre si trovava in vacanza in Spagna, con la cugina Catherine (Elena Russo Arman); da quel momento la ragazza ha ricordi lacunosi ed apparenti isterie inspiegabili, mentre Mrs. Venables, la madre del giovane (Cristina Crippa), si adopera e si affanna per il suo obiettivo supremo, quello appunto della dissimulazione degli eventi (che ella, se non conosce nei dettagli, di certo comprende nella sostanza) e della ricostruzione della normalità accettata dalla società e dalla sua mente, quella di un figlio artista e geniale, magari bohèmienne, ma cui tutto era concesso.


L'estremo limite cui è disposta ad arrivare per mantenere queste apparenze, è quello di adoperarsi per sottoporre Catherine ad una pratica che all'epoca sembrava un brillante ed innovativo risultato scientifico nel campo della neurochirurgia, mentre altro non era se non la barbarie della lobotomia: "un coltello acuminato nella mente che uccide il diavolo nell'anima", si, ma un coltello criminale.
L'iceberg che si nasconde invece sotto le facce della rimozione, ciò che davvero è successo l'estate precedente, è che Sebastian è stato smembrato e divorato da altri ragazzi, bambini perfino troppo umani coinvolti in scambi di favori omosessuali, con lui che era abituato nei suoi frequenti viaggi ad usare dapprima la madre, poi la cugina, per accompagnarsi ad esche ed attrarre altri uomini.
Ma l'iceberg, naturalmente, non è la morte, bensì la struttura intera di una vita da nascondere e lavare con le apparenze, che emergono quando Catehrine viene sottoposta, come trattamento prodromico alla lobotomia, ad un siero della verità.

Elio De Capitani è avvezzo ai personaggi di Williams, ai loro sgretolamenti esistenziali, allo sconvolgimento di anime con cui l'autore indagava la società americana passando anche attraverso la sua stessa storia personale (fu la sorella stessa, Rose Williams, ad essere costretta, per colpa della madre, a sottoporsi ad una lobotomia, con effetti atroci e devastanti), ed affondando quindi sovente le mani nell'ipocrisia, nella sessuofobia e nel peccato del perbenismo che trovavano terreno fertile nella società americana.
Ed il preciso lavoro del regista dunque lo troviamo anzitutto nel linguaggio del corpo con cui agiscono gli attori: facce, sguardi, gesti, e qui parliamo soprattutto della prova di Cristina Crippa, la quale all'inizio non sembra nemmeno turbata dagli eventi, quando d'improvviso arriva a tradire l'arcano mistero angoscioso una interiezione emotiva surreale, folle ed acuta, un inserto acufenico che si rivela attraverso una smorfia camuffata sotto lo stesso verso di uno degli uccelli del giardino/jungla, subitaneo quanto agghiacciato, ed in piena armonia con quella jungla addomesticata, terrificante come l'arte della Creazione.

Le luci di Nando Frigerio contribuiscono a sottolineare spesso, questo passaggio alla fase più mentalmente concentrata della narrazione, fra un Dottor Cukrowicz (Cristian Giammarini) zelante nel suo proposito di conoscere la verità ed una Catherine che infine si abbandona letteralmente ad una scena-madre in cui crolla ogni infingimento, e svela con una dettagliata descrizione gli ultimi giorni di Sebastian, dalla creazione divoratrice ("vivevamo in un mondo di luci ed ombre, ma le ombre erano luminose quasi quanto la luce") alla pronuncia delle orride verità, con una costante molto interessante del colore bianco, che dai vestiti di Ferdinando Bruni alle rievocazioni delle ultime ore (“era tutto vestito bianco, nel bianco rovente”) danno l'ultimo tocco di senso ad una vicenda in cui l'orrore si dissolve nel non-colore che apre la catena archetipica della luce, dell'assoluto, della purificazione e della libertà.

sabato 22 febbraio 2014

Meno 6. Meno 5...

(pubblicato su www.teatro.org)

7 furono i vizi capitali, 30 gli articoli della carta dei diritti dell’uomo, ed ora 6 sono i gradi del’innalzamento della temperatura terrestre che ci attenderebbe nei prossimi decenni. Ad un altro numero è consegnato il compito di fornire il titolo ed il canovaccio di un monologo di Giobbe Covatta, stavolta incentrato appunto sulle conseguenze catastrofiche di questa variazione le cui cause si rintracciano nell’uso dissennato delle risorse naturali da parte di quello che si è dimostrato, con ogni probabilità, uno degli abitanti meno adattivi al sistema ecologico apparsi sul globo terracqueo degli ultimi 4,5 miliardi di anni: l’uomo.
In quasi due ore di eccellente prova di scena, con una presenza che non lascia spazio a distrazioni, ed alternando la sua verve più classica di “paraboliere” con ciliegine di ironia politica e religiosa, a quella di divulgatore scientifico serio e faceto insieme, Giobbe Covatta riesce anche a dare immediata comprensione a problematiche legate a gas serra, ecosistemi, biosfera, mutamenti climatici ed albedo (e dato che il primo è già reale, e ci avviciniamo con rapidi passi al secondo grado di innalzamento della temperatura, non sarebbe sembrato fuori luogo perfino qualche accento intonato in modo ancora più serio).
Dal suo futuro situato nell’anno 2114, Giobbe legge giustamente il secolo passato sotto la luce che si accende su un paese ignorante ed effimero, e non profetizza perché appunto legge già le postume cronache dell’inevitabile fine autoimposta dalla razza umana, con una raffica di trovate e di battute che spaziano dai paradisi celesti a quelli (ormai ex) terrestri, attingendo da argomenti che conosce bene e che lo hanno reso testimonial acuto di Amref e Save the Children; e nelle mani degli uomini del nostro secolo, abbandonati ormai al solo proverbiale ingegno di cui riteniamo di essere dotati, immagina che tutto ciò produca invenzioni surreali e situazioni tragicomiche, con una punta geniale in cui si incrociano forse tutte le strade nel momento in cui immagina un nuovo muro, stavolta eretto nel verso latitudinale, in cui converge idealmente ogni incapacità umana, fisica e non, di gestire la sua esistenza/sopravvivenza.
Un trench rosso indossato con disinvoltura che contribuisce in qualche modo all’aspetto vaticinatorio, un mappamondo illuminato, alcuni oggetti in un cassettone, una presenza rarefatta della improbabilissima valletta Priscilla (Ugo Gangheri): basta poco allo spettacolo scritto insieme con Paola Catella, per assicurare una base solida che ha la capacità di alternare pensieri, sorrisi e risate, e per riflettere su come il nostro antropocentrismo abbia distorto il pensiero sulla natura che ci sta temporaneamente ospitando, e che probabilmente dopo essersi a stento accorta del nostro passaggio, è probabile che subito dopo impiegherà ben poco, a cancellarne le tracce.