giovedì 20 marzo 2014

Il gesto e la poetica

(pubblicato su www.teatro.org)

Un artista che ti fa commuovere con un appendiabiti, e che il giorno dopo continua a farti sentire la stessa emozione richiamando una lacrima al solo ricordo, ecco, prima ancora di farti fermare a pensare a cosa sia accaduto, appunta da sé sul petto le sue cinque stellette, già per la sola creazione di questo sentiero che sin dall'inizio sembra guardarti mentre affronti lo spettacolo con la tua mente ed il tuo bagaglio culturale, per poi decidersi a mettersi in cammino, e puntare proprio verso di te, creare quel ponte emotivo che percorre con grazia, finchè ti si ferma davanti e senza una parola, ti apre.

Lo guardi incredulo, e ti chiedi come sia possibile che ti stia facendo questo, riuscendoci con una semplicità così inconcepibile da far intendere, al di là della genialità, quanta arte e quanta tecnica abbia messo a punto Slava Polunin, racchiudendola tutta nel suo clown Asisyai con il quale porta nel mondo da anni l'evanescenza, la poesia e lo stupore del suo spettacolo.Il disegno bianco che sottolinea il contorno della bocca del clown è uno dei modi con cui anche i gesti anche impercettibili del mimo vengono trasmessi con una efficacia rara, tale da scomodare Chaplin, Grock e Marceau; sarà stata l'infanzia trascorsa nella piccola città russa in mezzo alla natura, quel mondo in cui inventare storie in cui poi irruppe uno schermo a fargli conoscere il mondo dei clown, e la strada lunga e dritta che lo condusse alla scuola di mimo a Leningrado, ma da quando nel 1979 creò la sua prima compagnia, Slava Poulin ha saputo rendersi inconfondibile per il suo stile, fuori dai ritmi e dalle abitudini quotidiane: di esse bisogna liberarsi quanto prima possibile, una volta seduti, per potersi immergere nel suo mondo, perché tutto è già subito lì davanti, avvolto com'è in un'atmosfera che si percepisce diversa anche prima della nuvola rossa che apre la scena.

Gesti rarefatti che da soli valgono un movimento in slow-motion, idee stimolanti quanto divertenti come una barca fatta di un letto, un lenzuolo ed una scopa alle prese con un enorme transatlantico ed un improbabile squalo, personaggi goffi quanto delicati, gags e sketches che si inseguono, fra cui quella straordinaria dei telefoni con cui debuttò in televisione nella puntata di Capodanno 1980/1981 del Light Blue Fame, ottenendo un immediato e comprensibile successo, per la capacità speciale di unire e di trasmettere sensazioni come solitudine, amore, amarezza e felicità con un gesto, un suono, un'espressione facciale, una sospensione. Come la sublime scena dell'attaccapanni, appunto, che va richiamata come magico simbolo di tutto questo.

Gli attori della compagnia di Slava incarnano poche figure di clown, che restano fondamentalmente divisi in due tipi, che però si scompongono di volta in volta per dividere i caratteri ciascuno separato dall'altro, ed il coinvolgimento e l'interazione con il pubblico è parte essenziale del modo di intendere il rapporto fra il “di qua” ed il “di là”, annullando quasi sempre il distacco ed inventando meccanismi come la tela del ragno e soprattutto l'impressionante e tempestosa nevicata finale, fino ad un finale da vivere, piuttosto che da svelare.
Ed il finale, è l'opposto di un finale, oltrepassando il concetto del senza sipario, del dentro e fuori uniti nello spettacolo: Asisyai rimane seduto, fermo, immobile, proprio durante il momento di massima euforia del pubblico che si esalta con gli ultimi giochi che coinvolgono l'intera sala fino alle file più alte, perchè con quella sua fissità è lui, a guardare noi. Perchè lo spettacolo, è ciò che ha creato, ed è lì, davanti ai suoi occhi.
Cinq étoiles, ça va sans dire.

sabato 15 marzo 2014

Brachetti, che sorpresa...

(pubblicato su www.teatro.org)

Il più grande trasformista del mondo, senza dubbio, colui per il quale al momento delle mutazioni quasi istantanee gli aggettivi diventano pochi e sempre gli stessi, ebbene si, Arturo Brachetti, con il pezzo forte della sua arte, insieme con le ombre cinesi ed i disegni sulla sabbia sui personaggi di Tim Burton: tutto questo contribuisce ad alimentare l'attesa per uno spettacolo che ogni volta crea grandi aspettative, ma che tuttavia va inquadrato anche sotto una luce complessiva che questa volta non resta affatto priva di ombre.
Eppure, se vogliamo, gli ingredienti principali ci sarebbero tutti: oltre ai tre già citati, si aggiunge anche uno spunto interessante sebbene forse un po' pretenzioso (o quantomeno dilatato) sulla rivisitazione di Elephant man, laddove si avvia un discorso sulla meraviglia della bellezza e dell'essere amato che se vogliamo, psicanaliticamente è anche il presupposto stesso della pulsione antica che si svela nel trasformismo; una trovata che avrebbe consentito anche un maggiore approfondimento, legato com'è all'essenza della sua arte, e risolta nel finale con la metrica dell'essere liberi e con il gesto poetico di volare al di sopra di tutto.

L'idea è quella di una storia che scorre attraverso ciò che si perde e si ritrova nel reparto "lost&found" di un aeroporto (o di tutti gli aeroporti) che raccoglie ogni cosa persa, in cui "perdi qualcosa e rimane lo spazio immenso dei tuoi sogni". Intorno a questo filo, girano altri personaggi come il duo Lucchettino, l'intrattenitore Francesco Scimemi e l'illusionista Luca Bono. Le perplessità si manifestano, tuttavia, a partire dalla costruzione stessa dello spettacolo, che oltre a riservare lo spazio più attraente all’apertura, intorno ai momenti-clou fa girare una struttura debole legata insieme da altri elementi a volte prolungati, altre non all'altezza dei numeri di Brachetti, altri fra i principali risolti senza cura dei particolari, ed altri infine, ed è una nota alquanto strana da registrare, inficiati da cadute di stile ed approssimazione (in tal senso, ci sono almeno due momenti difficili come una battuta sinceramente di quart’ordine su un coniglio ed una infelice considerazione finale rivolta al pubblico).

Un vero peccato. E questo accade nonostante il regista Davide Livermore (un curriculum teatrale per la prima volta prestato al varietà) metta a disposizione molte chiavi contemporanee e tecnologiche, a partire dal videomapping: ma il quick change per cui è diventato famoso, ovvero ciò che di davvero strabiliante ed unico il pubblico avrebbe continuato senza dubbio a vedere meravigliato, viene riservato ad una parte iniziale e ristretta solo a 25-30 personaggi che si succedono, mentre il dialogo fra le azioni comiche e l'illusionismo, e l'interazione anche per certi versi eccessiva con il pubblico, resta senza relazione adeguata.

sabato 8 marzo 2014

Irresistibili rancori

(pubblicato su www.teatro.org)

Appare il retrogusto della vita stessa, quando al di qua del sipario due attori comici che per 43 anni hanno fatto la storia del vaudeville americano, d’improvviso per scelta di uno dei due interrompono la loro storia artistica, e scompare quella che per entrambi era stata l’intera ragione che li aveva portati sia a vivere, sia a condividere.
I ragazzi irresistibili sono Willie Clark (Eros Pagni) ed Al Lewis (Tullio Solenghi), che da quel momento la prendono in maniera molto diversa, poiché il primo non perdonerà mai al secondo la scelta di porre fine al loro successo, e se ne tormenterà con acrimonia coinvolgendo ogni altro residuo aspetto della sua esistenza, anche fingendo che l’odore della naftalina non ricopra già da molti anni la sua ormai inesistente carriera. Il secondo, invece, avvolto dall’incipienza della mente che invecchia, si lascia andare ad una esistenza ritirata ed anonima in campagna.
A lavorare inutilmente sull’umore dello zio Willie, e con successo insperato sul nuovo incontro della ex coppia irresistibile, è il nipote Rick (l’ottimo Massimo Cagnina, un trait d’union che lega insieme le personalità ed i compromessi), che organizza la loro reunion all’interno di un programma celebrativo del vaudeville da registrarsi alla CBS, con conseguenze che seguono le stesse tracce dei canovacci del genere, fra colpi di scena che sembrano far vivere ai due protagonisti gli stessi impacci e le stesse sorprese, a volte felici ed altre meno, che usavano mettere in scena.
Sono I ragazzi irresistibili di Neil Simon, nella versione italiana di Giuliana Manganelli per la regia di Marco Sciaccaluga, che si concentra in particolare sugli aspetti della difficile ripartenza di un rapporto personale deteriorato, prima ancora che della conseguente ruggine che disgrega le possibilità professionali.
La commedia debuttò molto felicemente nel 1973, due anni dopo fu interpretata per il cinema da Walter Matthau e George Burns, e nel 1995 arrivò sul piccolo schermo con Peter Falk e Woody Allen, precedenti illustri che contribuirono a considerare Simon “il re della risata” (anche grazie a La strana coppia), dando sempre più spazio anche alla sua teatralità, laddove i dialoghi serrati, la presenza di personaggi elaborati e la mescolanza di dramma e commedia si facevano punti forti della resa sul palcoscenico.
Del mondo di Simon, Eros Pagni e Tullio Solenghi ci mostrano soprattutto l’aspetto scarsamente illuminato, problematico, quello dell’uscita di scena aperto dalla sequenza di foto(-montaggi) dei tempi d’oro dei Sunshine Boys, che oggi è soprattutto un cumulo di detriti accumulatisi fra sarcasmo, ambiente dimesso di hotel di second’ordine (ma anche uno strano buio durante il primo atto), ferite da abbandono mai rimarginate miste a rancore, nostalgia e stati d'animo tormentati, stizze e puntigli, astio e competizione degni di due fidanzati offesi che si tengono a distanza, ma a distanza anche controllano la rispettiva salute.
Una felice inquadratura alle spalle delle quinte nel secondo atto è come il punto di vista migliore sul retrogusto degli sketch, quello che spiega anche cosa deve aspettarsi lo spettatore, che per buona parte del tempo (oltretutto esso stesso un po’ dilungato) forse si aspetta invece risate più facili.