(pubblicato su www.teatro.org)
Il più grande trasformista del mondo, senza dubbio, colui per il quale al momento delle mutazioni quasi istantanee gli aggettivi diventano pochi e sempre gli stessi, ebbene si, Arturo Brachetti, con il pezzo forte della sua arte, insieme con le ombre cinesi ed i disegni sulla sabbia sui personaggi di Tim Burton: tutto questo contribuisce ad alimentare l'attesa per uno spettacolo che ogni volta crea grandi aspettative, ma che tuttavia va inquadrato anche sotto una luce complessiva che questa volta non resta affatto priva di ombre.
Eppure, se vogliamo, gli ingredienti principali ci sarebbero tutti: oltre ai tre già citati, si aggiunge anche uno spunto interessante sebbene forse un po' pretenzioso (o quantomeno dilatato) sulla rivisitazione di Elephant man, laddove si avvia un discorso sulla meraviglia della bellezza e dell'essere amato che se vogliamo, psicanaliticamente è anche il presupposto stesso della pulsione antica che si svela nel trasformismo; una trovata che avrebbe consentito anche un maggiore approfondimento, legato com'è all'essenza della sua arte, e risolta nel finale con la metrica dell'essere liberi e con il gesto poetico di volare al di sopra di tutto.

Un vero peccato. E questo accade nonostante il regista Davide Livermore (un curriculum teatrale per la prima volta prestato al varietà) metta a disposizione molte chiavi contemporanee e tecnologiche, a partire dal videomapping: ma il quick change per cui è diventato famoso, ovvero ciò che di davvero strabiliante ed unico il pubblico avrebbe continuato senza dubbio a vedere meravigliato, viene riservato ad una parte iniziale e ristretta solo a 25-30 personaggi che si succedono, mentre il dialogo fra le azioni comiche e l'illusionismo, e l'interazione anche per certi versi eccessiva con il pubblico, resta senza relazione adeguata.


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