giovedì 17 aprile 2014

Mind games (Mind Juggler - Francesco Tesei al Teatro Bellini)

(pubblicato su www.teatro.org)

La prima osservazione da fare dopo lo spettacolo, riguarda il pubblico: dopo due ore di esperimenti psicologici a varia denominazione, osservare l'entusiasmo che va oltre gli applausi rivela che siamo di fronte a qualcosa di più profondo di un semplice piacere per aver assistito alla bravura ed alla simpatia di un professionista della comunicazione e dell'illusione. Qui siamo in presenza di un vero transfert, e pensare al motivo di questo legame è forse la chiave per tirare il filo, e vedere l'altro capo dove porta.
Il punto di partenza è chiaro, e viene fornito dallo stesso Tesei in apertura, quando ripete la citazione dello psichiatra-ipnoterapeuta Milton Erickson ("Ognuno di noi è molto più di ciò che pensa di essere, e sa molto più di ciò che pensa di sapere"), e così il primo mattoncino viene assicurato, e suona più o meno così: io ti dico che ognuno ha dentro molto più di quello che pensa, che tutto ciò che mi vedrai fare non è che una potenzialità teoricamente in mano a tutti, e che se sviluppata nel giusto modo può far diventare così anche te.
E così parte, leggendo segmenti ritenuti inaccessibili delle menti di coloro che vi si sottopongono, intuendo da linguaggi non verbali verità e bugie (Paul Ekman docet), concatenando logiche sottese ai comportamenti, e così via.
Un altro mattoncino lo ha posto la storia degli ultimi decenni, impiegati da molti a seguire, o ad inseguire scienze e/o presunte tali, dalla Pnl alla prossemica, dai filoni motivazionisti alla cinesica: fra libri, dispense e telefilm di successo (The Mentalist e Lie to me su tutti), oltre alle stesse sue trasmissioni televisive, un target insomma è stato già creato, e sono molti coloro che hanno nei confronti dell'argomento, ormai, un alto livello di aspettative: tutti costoro alimentano il legame con Tesei perché finalmente vedono coi loro occhi ciò che vaga solo idealmente negli spazi della letteratura e dei corsi che a volte tentano di fare, come per verificare che è vero, che tutto ciò esiste, nonostante essi non abbiano potuto/saputo arrivarci.
Altro fattore, di sicuro è la sua sembianza: scienza e non illusione (e tuttavia nemmeno disvelazione, poiché tranne alcune spiegazioni alquanto essenziali, il tutto rimane sempre avvolto nel fumo dell'incomprensione che ti deve lasciare ammirato e vagamente incredulo -ed in questo senso il finale enfatizza ed appesantisce anche troppo il concetto-, allo stesso modo di come avviene per l'illusionismo dove si pensa ad un trucco), ed un apparire elegante-giovane-propositivo (con un tocco di Magritte nella scarna scenografia) che alimenta l'idea di qualcosa di concreto ma non afferrabile: lo studio della comunicazione piuttosto che la magia, si, ma egualmente inintelligibile.
Aggiungiamo il mattoncino della non comune capacità di indirizzare gli stress attraverso stratagemmi che influiscono sugli strumenti cognitivi razionali dello spettatore, soprattutto quando si aggiungono gli input derivanti dal palcoscenico (le luci, l'essere al centro dell’attenzione, la novità, l'essere osservati da centinaia di persone): il tono della voce, le parole ed il ritmo, così come i gesti, predispongono i soggetti ad una specie di rifugio non sempre giustamente tradotto come “trance”, dentro al quale gli effetti mentali che produce rispondono ancora più fedelmente.
A questo si aggiunge la sua grande esperienza nella gestione dell’ambiente, condita da battute molto efficaci e sempre nei momenti giusti, probabilmente un’altra traccia della sua nascita come illusionista.
In un campo di cui egli riconosce come pioniere Derren Brown, e come possibili espansioni filosofiche il pensiero di autori come Karl Popper, Erwin Schrodinger e Ludwig Wittgenstein, Francesco Tesei semplifica l'intero argomento e fa un patto chiaro con il suo pubblico: nessun potere speciale se non quello di saper approfondire ciò che tutti potrebbero conoscere (in questo senso vanno anche le sue “scommesse” messe nero su bianco, che da antiche promesse magiche si trasformano in mere “dichiarazioni di intenti”, puntualmente rispettate), e tecniche di suggestione e di lettura del linguaggio del corpo trasformati in codice di intrattenimento che infine, sommato agli altri mattoncini, spiega il transfert da cui siamo partiti, l'immedesimazione ed il pensiero che tutto ciò appartiene un po' anche a sé stessi; e questo avviene, per la maggior parte del suo pubblico “disarmato”, attraverso la decisiva ed intima sensazione di aver provato un'emozione oggi alquanto rara, come quella della sorpresa.

sabato 12 aprile 2014

Da Gabrielle a Coco, e ritorno

(pubblicato su www.teatro.org)

Amarezza, paranoia, solitudine. Dentro ad una stanza del Ritz arredata da Guido Caodaglio in stile fine anni '60- inizio ’70, Coco Chanel mette in vendita ad un prezzo alto la sua vita guardandola ormai alla fine, il prezzo di uno specchio e dei ricordi, memorie che vengono invitati a fluire anche tramite il maggiordomo che richiama per un giorno, dopo averlo mandato via anni prima.
Nella pièce “C come Chanel” di Valeria Moretti, per la regia di Roberto Piana, la vita di Coco (il nome fa già intendere come prevalga quasi sempre il personaggio sulla persona) non si può dire se venga più attraversata, o sia lei ad attraversare l’epoca d’oro di una Parigi in cui diventò protagonista non solo con la sua moda rivoluzionaria, ma anche con quel Gruppo dei Sei che con Milhaud,  Honegger, Poulenc, Tailleferre, Auric e Durey rappresentava quella reazione nazionalista all'impressionismo che coinvolgeva anche Eric Satie e soprattutto un altro protagonista dello spettacolo e della sua vita come lo scrittore Jean Cocteau.
Sia a lui, sia al suo amore principale Boy Capel, sia al maggiordomo, fornisce il volto David Sebasti, con una prova, diciamolo subito, sinceramente sorprendente per presenza, precisione e potenzialità tecniche, che fanno riflettere magari su quanto gli attori dimentichino spesso quale sia l'importanza dell'espressione fisica, fra gli elementi della loro arte.
Il percorso fra gli aforismi è necessariamente una parte importante, in un lavoro che vuole ripercorrere in un'ora e venti minuti una delle vite più originali del nostro tempo (“Gli abiti che non scendono in strada non sono moda”, “Gli specchi dovrebbero pensarci bene, prima di rifletterci”, “Più donne vestono Chanel, più mi sento sdoppiata”), tanto che per un po' la storia della sarta ribelle sembra un po' imprigionata nella trappola retorica riassunto/biografia fra situazioni-tipo come l'Hotel e/o un'intervista, ma non si fa in tempo a pensarlo perché arriva un deciso approfondimento psicologico grazie sia appunto alle figure maschili (Cocteau su tutti), sia alla padronanza, che è quasi un'essenza stessa, di Milena Vukotic, nel ripercorre capitoli essenziali come l'infanzia e momenti critici come i traumi degli affetti, e le scelte rischiose come il suo probabile fiancheggiamento del nemico nazista.
Tutti dovrebbero versare un piccolo contributo alla conoscenza dei sensi”, e di certo il suo fu assai grande, come grande appare nella classe con cui la Vukotic porta senza peso apparente tutto quel bagaglio sulle bellissime scarpe bianche e nere che indossa.
In una colonna sonora che forse potrebbe sottolineare maggiormente l'epoca, scegliamo noi un sottofondo coevo come I've Found A New Baby di Josephine Baker, per le storie di oppio, per la leggerezza dura dell'Attrice, per la petite robe noireereditata dalle suore dell'orfanotrofio, per le liasons come quella con il duca di Westminster (che non sposò perché “il mondo è pieno di duchesse, di Coco ce n'è una sola"), e per Coco/Gabrielle che nel ricordo della morte del padre cui aveva assistito dietro il cancello dell'orfanatrofio, si addormenta infine sul divano del Ritz, come per aspettarlo.
Mi piace tagliare”, diceva Coco. Di sicuro, il gesto che le assomigliava di più.

lunedì 7 aprile 2014

L'Eterno Plautino

(pubblicato su www.teatro.org)


Menecmi di Tato Russo è come la pizza mangiata nel locale che frequenti da sempre, una certezza dalla quale ogni volta ti aspetti di essere soddisfatto allo stesso modo, e che resta il motivo principale per il quale ci sei tornato, magari scoprendo che lo chef è riuscito anche ad inserire qualcosa nella preparazione tradizionale: ancora una volta, tutto questo viene confermato da una solidità sua personale nell'impersonare entrambi i gemelli che nella storia di Plauto vengono separati per caso all'età di 7 anni, e da una esperienza nel ruolo che ha superato le 600 repliche in 25 anni.
La riscrittura che fa dell'originale plautino conserva traccia dello sguardo rivolto alla platea latina concedendo spazio alla inclinazione plebeista, i meccanismi si intrecciano con tempi collaudati, l'arte comica trova spazi tradizionali che uno spettatore che voglia lasciarsi andare al generoso gusto del grande commediografo romano della Palliata, troverà senza dubbio esilaranti e portati in scena col suo giusto accento situazionale e didascalico.

Menecmi è la madre delle commedie degli equivoci, dallo spunto perfino esageratamente banale (i due gemelli non si conoscono, ed uno dei due giunge da Capua nella città dell'altro -ovviamente Napoli, nella quale Russo ha ambientato il tutto- e scatena una ridda inestricabile di fraintendimenti ed ambiguità tramite lo scambio di persona inconsapevole), eppure perfetto per contenere quegli elementi psicologici e tecnici che Plauto sapeva incastonare in un apparente semplicità, come quello dei Simillimi con il tema del doppio, dell'Agnizione con il riconoscimento finale che porta alla fortunosa conclusione, del Servus callidus con i suoi inganni, e di un lessico del quotidiano che assicura la giusta ed immediata presa sul pubblico (naturalmente ancor più evidente nel momento in cui il linguaggio, come in questa occasione, appartiene anche allo stesso suo vernacolo).
Né mancano la Pantomina ed il Prologo, con cui le Maschere e l'Entità astratta rendono conto della situazione cui si sta per assistere. Fra gli inserti nuovi questa volta possiamo ricordare le nudità del coro delle prostitute che entrano in contaminatio con le reminescenze delle sirene omeriche, ed alcuni passaggi in cui il tono di Tato Russo sembra ispirarsi stilisticamente ad espressioni eduardiane.
Le scene echeggiano dei paesaggi di una Neapolis in bilico fra fasti e rovine, ed il cast di servi, ancelle, femminnelli, cortigiani e parassiti, regge con precisione l'esuberanza del doppio protagonista principale, con una particolare menzione per Rino di Martino (l'esasperato ma rassegnato Messenione) e Marina Lorenzi (la combattiva moglie Dorippide), per uno spettacolo che conserva il suo particolare fascino di origine atellanica, tuttavia meno grossolano dell'arte originaria plautina e più ammiccante all'ambiente del suo tempo; ma coltivare il principio dell'adesione al gusto, in fondo, significa rispettare ancora di più l'insegnamento di Plauto.

mercoledì 2 aprile 2014

No-Exit strategy

(pubblicato su www.teatro.org)

"Non lo so quando le cose sono cominciate ad andare male".
È così, nessuno può saperlo. Nessuno sembra capire quando due persone hanno cominciato ad allontanarsi, seguendo quella parabola un po' banale e spesso eccessivamente sofferta che viene disegnata nella quotidianità, così spesso dopo qualche tempo di convivenza, a qualunque titolo.

C'entra la politica? Oppure i futili motivi? O i calzini, a righe verticali e multicolori?

“Exit” non fornisce la spiegazione, e questa è probabilmente la migliore soluzione che sta alla base del lavoro di Fausto Paravidino, perché rimanendo al di sopra di quei tratti che pure sembrano essere i veri protagonisti di una vera psicopatologia della relazione, riesce invece a rimanerne fuori, centrando il punto vero, che non è certo quello delle persone con i loro bisogni, equivoci e tardive comprensioni del proprio Io, bensì quello della relazione stessa.
E lo fa rappresentandolo in maniera accurata, anzitutto sottile, grazie alla narrazione del dettaglio, ma anche fortemente efficace, grazie ai due personaggi senza nome, A e B, dei quali Sara Bertelà e Nicola Pannelli esaltano l'inconsistenza degli spunti di litigio e/o incomprensione, riuscendo a far percepire la vera inanità delle cose, trasmettendo la prigionia al loro interno, lo stress di un inutile sforzo di spiegarsi i motivi delle cose, ed esprimendo ottimamente con le loro espressioni l'assoluta esagerazione di quanto e come consideriamo (o non consideriamo) oggi una relazione interpersonale.



Una storia a suo modo soave ma terribilmente reale ed ultramoderna (bello il riferimento ad una politica priva di punti di riferimento offerto dalla lettura dell'edizione del 22 aprile 2012 de Il Manifesto sulle elezioni francesi, quella della prima pagina “Sarko-fago”...), con alcuni spunti di scrittura notevoli nella loro essenzialità, e che colgono la precisione dei vari momenti di smarrimento:
"Non si può andare avanti così...” "Così come?"
Non si sa come andare avanti perché sono tutte declinazioni della stessa cosa
Il peggio è quando cerchi di dare un nome, alla Cosa
Le cose non sono mai semplici come minacciano di essere...



Forse solo nell'amicizia, sembrano ritrovarsi i frammenti perduti della vicinanza, quella che siamo ogni giorno costretti ed orientati a cercare invece nelle relazioni. Una storia che registra elementi di conflitto reciproci di una tale inutilità, che perfino un manuale americano (Ricostruirsi una vita in 10 mosse sicure), uno dei tanti pseudo-psicologici/comportamentali/motivazionali, basta per mettere un minimo di ordine nella vita di Lei, che entra nel mondo dei reduci, mentre quella di Lui cerca di recuperarsi invano in un'altra relazione, con una delle sue studentesse: ma le intercapedini dell'anima sono incapaci di comprendere, e gli elementi della propria personalità ancora da affermare ottundono anche i sensi di una possibile amicizia, come nella perfetta, classica telefonata in cui qualsiasi cosa dici, ti sbagli, perché prevale il doversi fare del male.

Interessante anche la divisione delle scene in Affari Interni, Affari Esteri o In Europa, sempre circondate da una scena pulita come lo spazio che meritano le parole; tempi perfetti soprattutto nella parte finale, in cui si incrociano eventi, dialoghi e narrazione, grazie anche agli altri due personaggi, C e D (Iris Fusetti e Davide Lorino); un linguaggio diretto e concreto che riesce a rimanere delicato, e situazioni che sebbene esilaranti, non sconfinano mai in una ironia che sarebbe suonata inutile.

Perché non ci sono, vie d'uscita; ci sono, forse, soltanto migliori vie d'entrata.