lunedì 23 giugno 2014

Speciale NTFI 2014: good people, difficult people

Uno sguardo potenzialmente verista dall'interno delle stanze disadorne sul divario tra quella che una volta si sarebbe detta classe operaia e coloro che pur provenendo dalla stessa estrazione sociale, hanno “fatto fortuna”, sono riusciti a distaccarsene ed a passare così dal Southie, una periferia-tipo di Boston, a Chestnut Hill, altrettanto tipico quartiere-bene. Non altrettanto facile però è il distaco mentale, o addirittura, come in questo caso, la sedimentazione indolore delle scorie e delle eredità del passato, nè l'adattamento al presente che sebbene si posizioni apparentemente ben oltre il livello-parvenue, tuttavia non raggiunge una nobiltà di sentimento priva dei germi con cui nacque distorta.
Il drammaturgo statunitense David Lindsay-Abaire, autore della celebre Fuddy Meers e premio Pulitzer per il teatro nel 2007 con il dramma Rabbit Hole, con Good People (qui riadattato da Roberto Andò) racconta sia la vita grama della ricerca del lavoro, della periferia sempre a rischio di diventare violenta, sia l'aspetto psicologico del ritrovarsi che coinvolge due persone dopo oltre 30 anni, e di conseguenza l'incontro/scontro fra Margie (Michela Cescon), rimasta a soggiacere alle miserie della banlieu, con una vita non sprecata ma dedicata a portare avanti se stessa e la figlia che (forse per parto prematuro, o forse no...) convive con un grave handicap, e Mike (Luca Lazzareschi), che ha invece da raccontare la storia di chi è riuscito nella vita, diventando un medico affermato, con una grande casa ed ogni benefit materiale e finanche morale che nel Southie i cittadini della cosiddetta “Bah-ston” possono solo sognare.

In una scenografia adeguatamente realistica di Gianni Carluccio, la seconda parte dello spettacolo si fa preferire alla prima, soprattutto quando si accendono i toni e si offre più materia viva allo scontro frontale fra i due destini, oppure nelle parti sospese che Maggie trasforma in comiche, mentre purtroppo per la maggior parte della pièce, la catterizzazione della protagonista si avverte come inefficace, essendo sottoposta ad una gestualità di un sobborgo da clichè di sitcom, insieme con una ossessività del ritmo, dei toni e degli accenti forzati e sforzati che rendono il suo personaggio monocorde come un telefilm anni '80, troppo difficile da accettare soprattutto dopo aver visto la Margie-tipo che Frances McDormand nel 2011 ha fatto vivere a Broadway. Anche Mike è più a suo agio in divenire e nell'elevazione dei toni drammatici, quando cioè si riflettono solo in lontananza le tracce della sua appartenenza ad entrambe le classi sociali, mentre la cinica Dotti (Loredana Solfizi) svolge il suo compito assieme a Roberta Sferzi (Jean), che fanno da grilli sparlanti ed a tratti da contraltare narrante, e Nicola Nocella porge un giustamente sperduto ed irritabile ex-datore di lavoro.
La sensazione è che non abbia molta importanza capire se i fatti vadano infine in un certo modo o piuttosto in un altro, suggeriti o meno dalle mezze parole, dagli ammiccamenti e dalle azioni: quello che conta, è che bisogna fare attenzione a non parteggiare per la facile sponda pauperistica di Margie, sembra questo il sottaciuto suggerimento, grazie all'assenza formale di un effetto ad captandam benevolentiam che compare in un paio di dialoghi, e che viene sottolineato anche e perfino da quel simbolo più alto della borghesia affermata che è la moglie di Mike (una Esther Elisha molto decisa e ciononostante l'unica a mostrare due incertezze evidenti): perchè good people, a modo loro, sono entrambi le parti in causa, brava gente, convinta di esserlo stata, gente che fa delle scelte, ed il difficile sindacato su di esse è la parte migliore della scrittura di Lindsay-Abaire, senza la quale si sarebbe limitata ad un acquarello scontato e privo del clinàmen con cui far scontrare gli atomi della storia.

giovedì 19 giugno 2014

Speciale NTFI 2014: Addio alla fine, e addio al fine

Interessante l'idea che accoglie il principo di questo cammino sia fisico, sia astratto: Addio alla fine si traduce nel lasciare dietro la porta che a breve si valicherà, ogni idea caduca della grande Soglia da varcare, andiamo oltre la morte e tutto ciò che pesa nella sua immanenza terrena, liberiamoci dei suoi fili che muovono le membra e le idee, e ritroviamoci in uno spazio oltre.
Il Virgilio (Leandro Amato, sul testo di di Bo Tarenskeen) che conduce il pubblico verso l'ingresso di questo spazio, accoglie tutti ben prima dell'inizio, e questo movimento dovrebbe servire anche ad allungare in maniera sensibile la curva del climax, quando ancora non si percepisce l'inizio ma già ci si sente dentro qualcosa che sta avvenendo: la Guida sfoggia una coloratissima giacca circense, ed alternando i toni che si elevano fin quasi al parossismo (ed insieme con i ballerini giunti da chissà dove con un'urna cineraria nelle mani a fare anch'essi da accompagnatori) introduce nel capannone del Museo nazionale ferroviario di Pietrarsa, dove si trova l'allestimento che ospita la coreografia di Emio Greco e Peter C. Scholten, una proposizione scenografica di una certa efficacia (soprattutto grazie al perimetro della location) che vede il pubblico diffuso lungo i lati di una pedana di 30 metri, preceduta da installazioni con abiti bianchi e neri e carte raggomitolate, mentre sul fondo, dove siede spesso il nostro Virgilio, una scala separa la danza dal concetto, ed il movimento dalla parola.

E proprio questa della separazione, tuttavia, rimane la nota meno riuscita, per il semplice fatto che esiste, e che resta netta fino alla fine, come una linea demarcata: da qua, la coscienza ed il suo scorrimento che sembra quasi godere di un'ardua intellegibilità, una dimensione nella quale si rievocano utopie sociali nelle citazioni di Hans Boutellier (The improvising society) e visioni ispirate all'abusato “E la nave va” di Federico Fellini; mentre di là, le dinamiche di puro scoppio, crudo e spesso ripetitivo, i vigorosi tratteggi di spirali e linee continue dei sei ballerini Dereck Cayla, Quentin Dehaye, Emio Greco, Neda Hadji-Mirzaei, Kelly Hirina, Arnaud Macquet, ed Helena Volkov, che creano su musiche di Šostakovič, Ives ed altre rielaborate da Scholten, un sentiero coreutico a volte fiammeggiante, altre introspettivo, con anfratti sublimati che restano separati fisicamente, grazie anche alla disposizione in estrema lunghezza della scena ed al disegno delle luci di Henk Danner e Paul Beumer; e va anche rimarcato che la vicinanza, fisica e non solo, con le bellissime performance della Vertigo Dance Company, non aiutano certo ad una migliore disposizione verso il risultato.
Il viaggio termina altrove, all'aperto e davanti al mare, con il canto di Patrizia Di Martino e ritmi fortemente variati, giocando anche sulla reminiscenza felliniana del rinoceronte (“l’unico tentativo per evitare il disastro, per non precipitare nella catastrofe, potrebbe essere quello diretto a recuperare la parte inconscia, profonda, salutare di noi stessi”, spiegò lo stesso Fellini), elemento che aumenta vieppiù la sensazione di aver visto qualcosa che cercava disperatamente di essere troppo di più di ciò che in realtà era, e che cercava un télos là dove non se ne sentiva il bisogno, compresso da un inutilmente soverchiante intellettualismo.

lunedì 16 giugno 2014

Speciale NTFI 2014: il signor K. disperso nel sogno americano

Oltre all'altrettanto indovinata location della Sala dei 500 del Museo Nazionale Ferroviario di Pietrarsa, adeguata per l'ambiente coevo che conferisce naturalezza ed autenticità, l'elegante idea di un'orchestrina dal vivo che fa risuonare sia note Yiddish, sia Scott Joplin e Maple leaf rag, con il pianista che interagisce con gli accadimenti e funge anche da rumorista, è la prima dichiarazione aperta dell'impianto scenico di Amerika di Franz Kafka, nell'adattamento di Malcovati Maurizio Scaparro, che ne cura anche la regia.
Un impatto promettente, che fa entrare con più leggerezza sul delicato tema che ben presto fa riflettere, ovvero l'irrisolta/irrisolvibile querelle fra la letteratura e la sua rappresentazione sulla scena: la scelta, necessaria ancorché stilisticamente opinabile, è quella di attraversare le scene/episodi quando in fretta, con personaggi appena accennati (come il fuochista che è solo una voce fugace), quando accentando figure come il senatore Jakob, quando porgendo lo scorrimento degli eventi con la narrazione, come l'atto di seduzione della cameriera, o al contrario in soluzione dialogica al posto della descrittività letteraria. Va riconosciuto che a volte i cambi di scena, anche effettuati a mano dagli attori entranti o uscenti, aiutano a costruire un corso agile, ma più spesso le soluzioni hanno il sapore di passaggi bruschi (come quello fra l'episodio di Brunelda e quello del teatro dell'Oklahoma), che ricordano -sia detto con la nobiltà che meritano- i quadri che si succedevano sui carretti dei cantastorie.

Nonostante questa sia, tra le declinazioni della solitudine della trilogia kafkiana (America/Il processo/Il castello), la meno cupa, la meno solcata da nevi perenni in quanto trasposizione futuribile -e persino speranzosa- della poetica della dispersione, tuttavia egualmente Karl Rossmann (nella pur buona prova di Giovanni Anzaldo) appare costantemente un po' più stralunato di quanto ci si attenderebbe, mentre per Ugo Maria Morosi viene efficacemente scelta l'interpretazione di tutte le figure autoritative, a conferire un senso riconoscibile al simbolo kafkiano della somma giustizia/ingiustizia, mentre Carla Ferraro dà vita lieve ad ogni personaggio femminile tranne la cantante Brunelda, riservata a Morosi appunto perché prevale l'angolatura simbolica dell'autorità.
È insomma una visione, questa di Scaparro, che si concilia con l'idea che ebbe Max Brod nel 1927, quando mise in connessione il romanzo, e soprattutto le scene dei sobborghi, al volo ideale di certi film di Chaplin, ed anzi precedendone la concezione, da Tempi Moderni, sul comune point d'appui dell'estraneità e dell'isolamento tra gli uomini (lì la mancata integrazione ed il rifiuto della società, qui l'indifeso ragazzo inesperto nella tumultuosa America, prima dell'accusato nel Processo e dello straniero non invitato nel Castello): uno sguardo che infatti fu ben presto tradotto dal regista nello stile cinematografico, con un film di cui si leggono anche in scena elementi ben visibili, sebbene sembri sempre così difficile guardare il boemo senza scorgere neanche una goccia di nebbia; ma questo forse somiglia proprio al colore primigenio dell'aurora della fantasia di Kafka, il quale non fece mai lunghi viaggi, e non oltrepassò la Francia e l'Italia settentrionale.

Tutto sommato, conservando nelle proprie tracce mnestiche ciascuno la propria preferenza dell'immaginario kafkiano e degli episodi, fra desiderio di libertà, ostinazione per una missione intramondana e coscienza di un'indomita natura giovanile ancora non irrorata con le stille del realismo magico, il riallestimento trasmette il senso della stessa metafora, che viene ben sottolineata sulla scena come nel testo, del regolatore e delle manovelle che mutano l'aspetto della scrivania americana: “[...] e girando una manovella era possibile effettuare a piacere e secondo il bisogno tutti i cambiamenti e gli spostamenti possibili. Sottili paretine divisorie si abbassavano lentamente e costituivano il fondo o il soffitto di tanti nuovi scomparti; già dopo un giro di manovella l'alzata aveva un aspetto del tutto diverso, e a seconda di come si girava la manovella, tutto avveniva in modo lento o incredibilmente rapido.”

lunedì 9 giugno 2014

Speciale NTFI 2014: i suoni, i vicoli e le sospensioni di Santanelli

Sperimentazione tecnica, implementazione di saperi, impegno ambientale: contaminazioni che fanno di Per oggi non si cade un esperimento che attraversa piani narrativi e scenografici, costruendo una mise en place apparecchiata fra sale, corridoi e giardini dell'Accademia di Belle Arti, e costruita con un procedimento dagli effetti sorprendenti come il sound design e le registrazioni olofoniche di Hubert Westkemper, che letteralmente immergono l'ascoltatore in un ambiente autentico, stante la provenienza pluridirezionale di ciascun suono, voce, allucco, o effetto che sia.
L'omonimo racconto di Manlio Santanelli fu scritto, possiamo dire, con la munnezza che bussava alla porta, alla vigilia della peggiore fase dell'emergenza-rifiuti in Campania, ed infatti l'ispirazione (affidata con buon risultato alla voce narrante di Mario Tozzi, che ben si destreggia anche fra locuzioni napoletane) si affida all'idea di un sacchetto dell'immondizia che, gettato da una popolana giù dal balcone in vico Purgatorio ad arco, e pertanto assurto a simbolo stesso del malcostume, anziché cadere, resta sospeso a mezz'aria, come sostenuto da un refolo di vento che non c'è; dietro l'episodio, si cela la volontà divina di sospendere per 24 ore la forza della gravità sull'intera città. Anzi no, non proprio tutta: tranne che su Scampia, “che già sta male combinata”.

La polifonia della città di Napoli si dipana nella regia di Fabio Cocifoglia fra ambienti apparentemente “antiteatrali” ed accademici, e si esprime con voci prevalentemente femminili, come è Napoli stessa secondo Santanelli, fra mamme che chiamano figli che non tornano a casa, e personalità di donne che sfondano la vita e partecipano attivamente alla socialità del vicolo. Un capasottamento che coinvolge però anche i bassi istinti del popolo, che per 24 ore si lascia andare a comportamenti che oggi definiremmo “scorretti”, in spregio alla convivenza civile, e che trova afflati poetici quando sonda la quiete della notte che cala su un popolo che non sa interrogarsi sul futuro, trovando perfino il modo di evocare un Finale di partita...
Il modello della fruizione individuale dello spettacolo (ciascuno spettatore può entrare anche da solo, con un'audioguida per seguire il percorso) fa risalire ad illustri pionieri come l'itinerante Orlando Furioso di Ronconi che ci ha insegnato a passeggiare all'interno di una scena, ed il valore aggiunto dell'operazione, peraltro allestita in pochi mesi e quindi evidentemente migliorabile sotto il profilo tecnico e della legatura dell'insieme e delle sue parti, talora ancora poco integrate, è l'essersi giovato del lavoro degli studenti di Scenografia e Fotografia (presenti anche dal vivo), le cui opere e suggestioni puntellano il percorso, con disegni, sospensioni ed immagini che richiamano temi come la leggerezza e parlano di entusiasmo nel partecipare alla creazione delle installazioni.
Allo scadere delle 24 ore, quando tutto riacquista peso, la catartica distruzione causata dal crollo di tutto ciò che è stato frutto del malcostume sommerge persone e coscienze, ed anche se si suggerisce un immanente the show must go on, il cerchio si chiude nelle prime parole del racconto: “riflettere sulle cause delle tragedie passate per non ripeterle”, anche se lo sguardo ripetuto e costante dell'autore sulla ignavia di chi dovrebbe reagire, a partire dalle figure borghesi affacciate solo sul proprio orticello (“E intanto il notaio Manes sempre là, che non fa una piega”) resta come la firma di un autore mai banale, a specchiare la realtà.