mercoledì 6 agosto 2014

Teatro a Corte #5: Poesia e tecnologia, il viaggio dei Système Castafiore per tornare alla Natura

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Autunno 2813. Gli esseri umani hanno lasciato la terra per abitare un luogo formato da elementi urbani le cui fondamenta sono tante tour Eiffel capovolte, un ambiente che mette insieme le ombre di Blade Runner, la visione di Magritte e l'apologia della Natura di Avatar. Siamo a Tarkovgrad, città sospesa in cui si muovono tre post-umani ed un bambino malato di qualcosa di non diagnosticabile. I dialoghi sono serrati e si accavallano in una lingua inesistente formata da sole radici, memori di eredità slave, francofone ed anglosassoni insieme, e l'azione è concepita come una successione molto veloce (a volte anche troppo) di quadri, tableaux descritti con precisione e costruiti ispirandosi al cosiddetto 4D, che combina le caratteristiche del cinema in 3D con gli effetti fisici in sala, sullo sfondo di proiezioni in realtà virtuale particolarmente curate.

Per trovare una cura adatta al figlio Nitsch, i due protagonisti devono attraversare un universo postmoderno fino ai suoi pericolosi confini, e passare attraverso 9 ambienti con un percorso che ricorda l'antichissimo (ed anche un po' abusato) rito iniziatico che conduce alla verità, un luogo al termine del quale troveranno che la fine è nel principio, e la soluzione-panacea anche per il fisico malato di Nitsch sta in un indistinto quanto potente ritorno alla Natura.
Stand Alone Zone, l'opera della compagnia Système Castafiore per la cui grande abilità tecnica meritano una citazione tutti i curatori degli elementi coinvolti, dalla scenografie di Jean-Luc Tourné alle luci di Yann Le Meignen, dalle coreografie di Marcia Barcellos ai costumi di Christian Burle, in scena come ultima rappresentazione di Teatro a Corteal teatro Astra, ha un pregio davvero particolare nella sua resa complessiva, che spesso lascia lo spettatore incantato davanti a scene come il guardiano della prima porta Tronkhaton, la navigazione del pescatore, il combattimento fra ciechi, la discesa sotterranea che produce una trasposizione di prospettiva dell'intera scena (attori compresi) di 45° e dall'effetto sorprendente, e soprattutto l'accurata riproduzione dal vivo dell'effetto 3D di un animale solitario. Una padronanza della tecnica tale, da chiedersi perché la regia non si sia soffermata su alcuni tratti che avrebbero consentito una linea drammaturgica più definita, mentre invece a volte viene gestita troppo velocemente (ed il cambiamento di scena è azione che oltretutto in sé inevitabilmente occupa il suo necessario tempo), così come l'aver posto alla fine del percorso di salvezza un elemento orientaleggiante ha un retrogusto di scorciatoia.

Negli occhi e nel piacere della percezione globale però, restano le gesta avveniristiche di Marcia Barcellos, Sylvère Lamotte, Cédric Lequileuc e Sara Pasquier, che diretti da Karl Biscuit fanno vivere una fiaba che sembra ripercorrere la sontuosità del film di James Cameron, in cui mondi paralleli, mutanti, civiltà altrove e segmenti ancestrali formano un quadro poetico e coraggioso dal livello tecnico assolutamente fuori dal comune, chiusa da un finale delicatissimo in cui la leggerezza dell'armonia ritrovata coinvolge ogni cosa, fino a far volare pensieri ed oggetti intorno alla guarigione del bambino ritrovato.

martedì 5 agosto 2014

Teatro a Corte #4: Les Apostrophés a Racconigi, dalle cicogne allo scalogno

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C'è una fisarmonica che ci aspetta, sul prato antistante la dacia costruita in occasione della visita dello Zar Nicola II al castello di Racconigi nel 1909. Ma prima ancora di entrare, sono le cicogne, con le loro nidificazioni nei grandi vasi che ornano l'attico della dimora sabauda, a parlare dell'eleganza di un sito dal quale spesso non vanno via nemmeno durante la migrazione; e se un luogo sa diventare habitat di elezione per loro sa anche promettere le condizioni migliori per godere nei suoi giardini di uno spettacolo di Teatro a Corte.

Il resto, tocca alla fisarmonica che ci aspetta, e che fa disporre intorno ed in terra il pubblico, per dare il via ai 70 minuti diPassage Désemboîté, il lavoro portato al Festival da Les Apostrophés, la compagnia creata dal giocoliere e circense Martin Schwietzke nel 1997 insieme col musicista Jérôme Tchouhadjian. La loro proposta spazia dal teatro di strada al circo contemporaneo, sono giocolieri e mimi, dai ritmi accesi e dai giochi di incastri degli oggetti e di se stessi, sovente per le strade o in grandi teatri, ma questa volta e per fortuna, con un progetto in situ che di certo avrà favorito i momenti di improvvisazione.

Il fisarmonicista si fa seguire, dunque, come un pifferaio, conducendo l'onda itinerante delle persone attraverso la musica, fra le scene, di prato in prato, in un'atmosfera d'antan in cui si susseguono 9 quadri che si potrebbero delineare attraverso gli oggetti di scena: le  scatole di cartone, la baguette, la scopa, il caffè, il cappello ed i bastoni telescopici, il cesto con il sacchetto di scalogno, il bastone da passeggio con il libro di fiabe, il movimento che potremmo definire un "pas de deux avec baguette", e le giacche. Ogni quadro, una performance, e diciamo subito che fra tutti i deliziosi equilibrismi e trovate, divertenti e di una leggerezza anch'essa mantenuta sempre in equilibrio con l'energia spesa, le due scene del cesto e della baguette a due sono stati senza dubbio i momenti più sensazionali.

La tradizione dell'arte di strada, in Francia, è ormai considerata e consequenzialmente gestita come una fra le più alte forme drammaturgiche, il che ha veicolato anche ingenti risorse per sviluppare il settore e creato forme stabili e festival dedicati, dalla Citè des Arts de La Rue a Marseille agli eventi di Chalon ed Aurillac; ebbene, vedere Les Apostrophés seduti al tavolino del bar a bere un caffè, e la destrezza con cui, con una semplice tazzina ed un cucchiaino, inventano ritmi e mosse inusitate, provocano risate ed ammirazione, dà l'esatta dimensione di un percorso che ha già radici solide, che sa esprimersi con un linguaggio di scena preciso e coinvolgente, e che nel merito del racconto, come ben sottolineato nelle note, ha il senso di una vera “dichiarazione di guerra alla routine”.

Teatro a Corte #3: "Cinema per gli occhi", a l'Ombre des Ondes si sogna ad occhi aperti, o quasi

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Sedie a sdraio disposte a formare margherite, nel bel cortile del Maglio, a sud del complesso architettonico dell’ex Arsenale cinquecentesco di Borgo Dora a Torino, nella piazza centrale compresa fra quattro maniche perimetrali, con al centro il grande maglio che domina la scena del cortile coperto, sostenuto da alberi metallici inclinati. È il sistema scelto da Kristoff K.Roll per la performance A l’Ombre des Ondes, una “siesta scenica” che i francesi Carole Rieussec e J-Kristoff Camps adottano per i loro labirinti di teatro sonoro e composizioni elettroacustiche, costruiti, come si legge nelle note, per intersecare “tre stimoli diversi: quello del paesaggio in cui è immerso che finalmente può osservare nei dettagli; quello dei rumori che vengono catturati in diretta e rielaborati in forma di “drammaturgia sonora istantanea”; e infine l’ultimo, quello dei sogni raccontati prima da altri spettatori agli artisti i quali hanno frammentato e rielaborato le voci secondo percorsi di ascolto individuali, uno differente dall’altro, per ciascun partecipante alla siesta.

Dapprima J-Kristoff, ed alla fine Carole, entrano nel campo visivo degli spettatori che ancora hanno gli occhi aperti, cominciando col battere il martelletto sui piloni di acciaio, entrando fra la gente nei locali, sfiorando la terra percependone i passi, ed i rumori si accavallano senza senso apparente, perché probabilmente il senso non va ricercato nella capacità della nostra mente di elaborare gli input sonori, bensì nell'esserci un ascolto universale e privilegiato, come un punto di captazione dell'essere delle cose che in sé conferisce potere, possibilità, o anche solo passività.
In cuffia, comincia il racconto di alcuni stati onirici, come il saltare da un'ombra all'altra portando con sé una bambina mentre le ombre rimpiccioliscono, una nonna che torna dopo la morte a disegnare con la nipote, una bambina che legge ad alta voce ed un uomo che nessuno sente quando chiede aiuto (gli altri non hanno buchi nelle orecchie e stanno solo al telefono), un aiuto che ottiene solo da alcuni cani che lo aiutano a librarsi in un volo nel cielo giallo fino ad un tunnel, e così via. Il tutto intervallato da elaborazioni acustiche di passi, voci, acqua e anelli, mentre la musica si diffonde come un'onda dopo aver gettato un sasso in uno stagno. E come occasionale quanto adatto condimento, il battito della pioggia sulla copertura del cortile, dovuto al temporale perfetto della serata.

Un progetto in situ, già molto ben accolto ad Avignone, in cui l'assenza di qualsivoglia elemento drammaturgico o anche soltanto consequenziale lascia la mente dei siesteurs sgombra di riferimenti, ovvero una predisposizione opposta rispetto a quella dell'attesa di un evento teatrale, una modalità per cui non si fa fatica a comprendere anche la difficoltà di taluni a ritrovarsi d'emblée su di una tavola da surf acustico ed esperienziale che porta fuori dall'intera quotidianità, pilotata dai due autori che giocano sul passaggio tra la vista e l'udito.

lunedì 4 agosto 2014

Teatro a Corte #2: A Dance Tribute to the Art of Football: lo sport che valica la platea

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Non è la prima volta che in questa estate meteorologicamente strana dei Festival italiani, accade che si debba correre letteralmente “ai ripari”, e ricollocare a poche ore dalla programmazione uno spettacolo in una location diversa da quella prevista, a causa della pioggia attesa e puntuale. Se da un lato, dunque, in questo ultimo weekend di Teatro a Corte, si è dovuto rinunciare al piacere di ritrovarsi a Venaria Reale per A Dance Tribute to the Art of Football della norvegese Jo Strømgren Kompani, dall'altro si può dire di aver sperimentato piacevolmente un'atmosfera agostana particolarmente fresca ed inattesa, oltre che la precisione e la professionalità nel riuscire in poche ore a riallestire una scena in condizioni del tutto diverse, ed in un teatro piuttosto che negli spazi della Reggia.

Dall'esordio di questo spettacolo, di recente rinnovato, sono passati già 16 anni ed un notevole successo di tournée; i quattro danzatori (Jean Nicolai Wesnes, Mikkel Are Olsenlund, Caisa Strømmen Røstad, Sverre Magnus Heidenberg) impersonificano con la loro danza uno degli sport più amati al mondo, affrontandone con realistica minuzia soprattutto alcuni aspetti (oltre ai momenti tecnici come quelli dell'allenamento e dell'agonismo) su cui si concentra l'attenzione di gesti ed espressioni: la ritualistica, il tifo e la crescente estetizzazione cui va soggetto questo ambiente negli ultimi anni.

I danzatori non trascurano di lasciare segni propri dell'unione fra danza e teatro che via via hanno messo a punto, occupando anche la scena con il disegno di gesso delle linee del campo, correndo e provocando scontri e simulazioni e fino alla doccia di fine partita, un momento classicamente “maschio” che viene violato dalla scoperta che uno di loro è una donna, come del resto era sempre stato ben comprensibile durante le fasi coreutiche. Uno degli aspetti che colpisce, è che viene disegnato un mondo fatto soprattutto di primedonne e gregari, nel quale manca completamente il totem del gioco di squadra: i quattro conservano sempre il tratto del proprio personaggio che non solo è distinto, ma anzi viene contrapposto quasi sempre al suo compagno e/o avversario; di altrettanto interesse è che durante il paesaggio sonoro di Lars Årdal, che dai rumori dei tacchetti spazia all'heavy metal ed alle urla degli hooligans, ci si sposti lungamente sull'aria Come un bel dì di maggio da Andrea Chénier di Luigi Illica e su Una furtiva lacrima, da L'elisir d'amore di Gaetano Donizetti, una scelta che potrebbe suggerire approfondimenti, prontamente smontati quando la si legge nel tratteggio del quadro generale di superficialità ambientale, di certo meritato, che fa il pari con l'essere sempre molto pronti a sfondare il confine della volgarità e della rozzezza ad imitazione dei protagonisti veri del calcio, alquanto scontata e con gesti ed atteggiamenti fra l'ironico e l'immaginario pseudovirile collettivo.

In Mehr guten Sport, Brecht si chiedeva perché il teatro e lo sport non producessero gli stessi effetti nel pubblico, dal momento che hanno il loro fulcro su elementi comuni come la performance, l'enfasi sulle virtù tecniche dei protagonisti e la vicinanza con gli spettatori: oltre alla mancanza del carattere nel pubblico, che lo mantiene separato dalla realtà del vissuto agonistico, una delle risposte che colse viene riprodotta dalla compagnia norvegese nel momento in cui simula ciò che sembra interpretare concretamente, ovvero il coinvolgimento della platea nei cori e nel tifo da stadio, punto focale per la stessa importanza che il calcio assume nella società, creando anche quell'effetto di straniamento (Verfremdungseffekt) per la circostanza di sapere tutti di essere non dei fan, non nella bolgia di un catino urlante, ma al sicuro nel proprio posto a teatro.

Fra i momenti più riusciti della performance, senz'altro i tableaux delle fasi di gioco che appaiono e scompaiono nel lights design di Stephen Rolfe (sebbene a volte poco realistici, nel delineamento dell'azione rappresentata), e soprattutto le fasi della slow motion, riprodotte con grande cura dei dettagli espressivi.

sabato 2 agosto 2014

Teatro a Corte #1: Katastrophe, dalla Natura all'uomo tutto cambia

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Visual theatre, contaminazioni di danza e tecnologie interattive in scena e in video, invenzioni di microracconti che intersecano tematiche ampie ed attuali: a Teatro a Corte, il Festival internazionale diretto da Beppe Navello e portato nel contesto affascinante delle più belle dimore sabaude del Piemonte, fa irruzione l'Agrupación Señor Serrano, una firma che negli ultimi sei anni si è già fatta conoscere per otto spettacoli originali, e che al teatro Astra di Torino, nella prima nazionale che precede la loro presenza alla Biennale di Venezia, ha portato venerdì 1 agosto Katastrophe, una visione sorprendentemente delicata quanto potente sul capovolgimento delle condizioni (katà-strepho) che portano alle soglie, ed oltre, delle catastrofi che si abbattono sugli esseri umani. Con una discriminante fondamentale, che è la chiave per accedere al senso della loro rappresentazione: la differenza sensibile fra quelle causate dalla Natura, e quelle la cui matrice è invece del tutto umana, e troppo umana.

La costruzione della scena è un lavoro artigianale paziente e sapiente affidata ad elementi minimali che hanno al centro la vita di orsacchiotti di gelatina, una quantità industriale di piccoli esseri colorati che abitano una valle che mostra la sua forza creativa e distruttrice insieme, in armonia con la vita che sopra le macerie essi sempre ricostruiscono, sulle stratificazioni con cui continuano a rinascere, e descritta da quadri didascalici che conducono fino a lontani echi di strutture sociali egualitarie, vagamente socialiste ed antropologicamente rilevanti. Non è un caso che fra invenzioni chimiche e coinvolgenti effetti costantemente riprodotti sul video proiettato in diretta e trasformato in realtà addizionata, la prima delle catastrofi non naturali abbia inizio nel momento in cui sullo scacchiere della civilizzazione si posa una stazione di servizio, con il suo oro nero percolante a diffondere il nuovo verbo dell'inquinamento.

I performers (Àlex Serrano, Diego Anido, Martí Sanchez e Pau Palacios) si incatenano spesso ad una musica elettrodance, indossano quasi sempre una maschera da orsacchiotto con cui già si aggirano fra gli spettatori prima dell'inizio dello spettacolo, e creano in scena riflessi favolistici con materie apparentemente semplici, ricordando quanto sia importante nell'arte offrire un percorso chiaramente intellegibile sotto cui si nasconde invece una notevole complessità: bellissimo è il firmamento creato partendo da una pallina da ping pong sostenuta in aria da un phon, e coinvolgente lo spostamento della scena traslata facendosi seguire da una telecamera dietro le quinte e fin sopra il tetto, con una trovata scenotecnica che conduce infine ad una evocazione dell'11 settembre e dei suoi traumi. È qui che giunge il clou, riducibile alla ben nota sentenza universalistica "tutto per colpa degli altri": con una sequenza di playback che unisce discorsi veri e ridicolizzati, da Bush ad Ahmadinejad, Putin, Sharon ed Hitler, le parole e le posizioni (e non da ultimi gli atteggiamenti del loro linguaggio non verbale) sono quelle con cui essi, simboli del potere, a volte cercano di affermarsi contro Natura, altre invece tentano di impersonificarne la Forza per giustificarsi, e tutti loro son solo orsetti che preparano l'autodistruzione.

Una costruzione minuta quanto precisa, che riesce ad essere perfino commovente, nel momento in cui gli orsetti muoiono per l'ultima volta, squagliandosi inesorabilmente e cadendo uno ad uno come spegnendosi su se stessi, una soluzione che da sola offre la differenza fra una Katastrophe naturale ed una artificiale, ovvero la tristezza con cui si affronta la morte: mentre nelle catastrofi naturali la vita riprende e fa parte del disegno della Natura, lasciando che vi si possa anche partecipare, in quelle causate dall'impronta della mano umana si può solo patire il senso dell'assurdità del male autoinferto.
In margine alla scena agita, interesse particolare merita il teatro Astra, esempio prezioso di architettura reinventata, da cinema del 1930 a teatro sventrato di cui si ammirano segni costruttivi tramutati in memorie artistiche, e sede dell'attenta organizzazione del Festival organizzato dalla Fondazione Teatro Piemonte Europa.